Tra i muri di una stanza d’ospedale, Cristiana veglia il padre immobile. Il loro silenzio apparente in realtà è denso di pensieri, affollato di presenze del passato, orfano di figure solo sfiorate, ricordi di frasi stentate e porte sbattute. Ora, mentre il risveglio del padre dal coma è incerto, Cristiana si confronta con il dolore dell’allontanamento e della perdita. Tra un turno in pasticceria e l’altro, trova il coraggio di aprirsi, raccontare la sua storia autentica e la sua verità. È proprio a partire da questo momento che la sua ricerca interiore si fa strada e acquisisce consapevolezza, dando voce a un dialogo che, fino ad allora, era solo nei pensieri del padre.
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La stanza è piena di risposte a domande che nessuno ha fatto, e di domande a cui nessuno saprà dare una risposta.
L’aria entra svogliata e fiacca da una finestra aperta: fossimo in un film, il cielo dovrebbe piovere a dirotto, o quantomeno essere gonfio e grigio, minaccioso, a seguire la linea spezzata dei nostri pensieri, i tuoni a sincopare i tuoi singhiozzi.
Ma invece no, è sfacciatamente turchese, neanche una nuvola di dubbio a cavalcare questo palcoscenico: una perfetta nitida giornata di inizio maggio; se respiri a fondo e superi la coltre di disinfettante del reparto, senti anche il profumo del gelsomino sul terrazzino, ti riporta sicuramente a qualche ricordo lontano di casa vecchia, che chissà se l’hanno messo lì apposta per confondere l’odore delle medicine, della vecchiaia o del dolore, o è solo una coincidenza, magari non sapevano dove sbatterlo e invece di buttare quella mezza radice secca l’hanno affondata in un palmo di terra, e quello è venuto su per dispetto, pure in mezzo ai mozziconi di sigaretta che gli ansiosi gli hanno spento addosso. Mi sembra quasi di annusare quel filo di fumo spento che pigro si infila tra le lamelle della veneziana e arriva qui, fa lo slalom tra i tuoi capelli, si arriccia e si snoda piano, si allunga, sfiora boccette e siringhe, poi si accartoccia tra le tue mani nervose che appallottolano un fazzoletto, chiudono il pacchetto di Lucky Strike e infilano tutto velocemente nella borsa.
L’odore penetrante di tabacco ha fatto appena in tempo ad arrivare alle mie narici e poi si è dileguato, lasciando spazio alla pesantezza dei tuoi occhi gonfi, e il tuo sguardo si è posato qui, su questo povero vecchio, ieri ancora presente e pieno di sé, ora improvvisamente sospeso, attaccato a un respiratore, il vocione serio che lascia spazio a un suono ritmico e sbuffante.
Di ieri sera ho solo qualche frammento di memoria, una fitta improvvisa e lancinante al petto, una caduta forse, il telefonino accanto per caso o per destino. Credo di aver premuto qualche tasto e forse sarò veramente riuscito a chiamarti, o magari chissà, il tuo sesto senso aveva già capito tutto e sei arrivata fino a me, puntuale e salvifica; ti chiamerei ancora “la mia principessa azzurra”, se non conoscessi già la tua smorfia, a metà tra il divertito e il “papà, non ho più sette anni”.
Se avrai voglia, quando mi sveglierò mi racconterai tu com’è andata ieri sera: per me, dopo qualche voce concitata, qualche bip-bip irregolare e un lungo ronzio, c’è stato solo il silenzio, un galleggiare tra coscienza e incoscienza. Credo di aver fluttuato per qualche ora… o magari qualche giorno?
Credo che i miei occhi siano chiusi; non chiedermi come, ma riesco a vedere lo stesso ciò che mi accade intorno. Ora mi sento stranamente lucido, come se tutta l’opacità che mi sentivo appiccicata addosso come un’afa estiva fuori stagione fosse evaporata all’improvviso, lasciandomi uno sguardo chiaro e terso, una messa a fuoco senza sbavature sugli anni passati, come se questa caduta mi avesse sollevato in un punto panoramico da cui poter osservare con calma e senza maschere la scia di giorni che ho tratteggiato dietro di me.
E ora qui, in questo ospedale, se potessi affacciarmi alle finestre riconoscerei il profilo dei monti a ovest, tremanti e imponenti al tempo stesso, a digradare fino al mare, nastri celesti che si tramutano in blu intenso all’orizzonte, già color vacanza, e potrei intuire da lontano l’odore di salsedine. Magari ci sarà già qualche fissata in costume o una comitiva di ragazzetti che ha saltato la scuola (tu non l’hai fatto mai, vero? Quanto poco ti conosco…). O magari qualche solitario a passeggio col cane, ogni tanto gli lancia un legnetto e quello corre contento con la lingua penzoloni, sfrecciando accanto alle bottiglie di birra vuote, ancora lì dall’ultimo falò abusivo sulla spiaggia. Ancora dovranno pulirla per l’estate, vero Cri?
Ci piaceva il mare prima della baraonda, prima dell’ubriacatura del sole, prima del profumo di sabbia calda e crema solare, quell’odore di latte al cocco: camminare piano, scalzi, le scarpe le tenevo io, così tu potevi avere le manine libere per raccogliere vetrini e conchiglie. Le più grandi le accostavi all’orecchio, e quel mormorare riusciva sempre a spalancarti gli occhi e a strapparti un sorriso, stupore puro; partivi che volevi portartele a casa ma poi, dopo esserti bagnata i piedi nell’acqua ancora fredda, come temendo di rubare qualcosa al mare decidevi sempre di lasciarle lì, accoccolate le une sulle altre sul bagnasciuga, una torretta storta, pronta a disfarsi tra i cavalloni in un abbraccio di alta marea.
Senza quasi parlare e respirando quel profumo che faceva pizzicare il naso, per noi due, per natura più chiusi e boschivi, un po’ scostanti e selvatici, era quello il modo di parlare di lei, di quella mamma che avevi conosciuto appena: uno spirito solare e allegro, fatto di abbracci caldi e risate fragorose, coccole, tenerezze e piccole sorprese, proprio come un’onda estiva di quel mare che lei adorava e il cui amore aveva appena fatto in tempo a incollarci addosso.
Ci trascinava qui alle sette di mattina, quando faceva ancora fresco, e restavamo tutto il giorno come lucertole che piano piano ci prendevano gusto. Sapeva coinvolgerci in ciò che amava, riusciva a trasmetterci quel calore dolce e cullante, e alla fine ci piacevano anche quei granelli di sabbia che ci inzaccheravano.
Era Marina di nome e di fatto, e spesso ho avuto il dubbio che i suoi occhi non fossero nati azzurri, cerulei, ma lo fossero diventati a forza di guardare l’orizzonte di quel mare che adorava fin da bambina, di cui rispecchiava onde impetuose e lievi increspamenti, quell’acqua che riusciva a calmarla ed energizzarla insieme, che la estraniava come una vedetta, concentrata non in vista della terra, ma aspettando che chissà cosa ritornasse da quegli sciabordii che partivano da lontano.
È questa l’immagine che porto dentro di Marina: i capelli appena mossi dal vento, sciolti davanti agli occhi puntati sul blu, in attesa di un segnale. O forse un faro, e il richiamo era lei. Poi tu che la chiami con la tua voce di bambina, lei che si desta, scatta e ti corre incontro, sollevata forse nel sapere che quel segnale invece eri tu. Ti stacca da terra con leggerezza e ti fa volare come un gabbiano, il suo piccolo gabbiano, come se avesse tutto il tempo del mondo, come se il mondo non dovesse spezzarsi all’improvviso.
E ora sento che la realtà si sfalda, tutto si fa nuovamente confuso nella mia testa, nei miei occhi. Provo a farti un cenno con la mano. Guardami, Cri, sono qui, guarda, guarda da questa parte, mi senti che ti chiamo? Mi hai sentito raccontare? Non hai detto una parola. Non ti avevo accanto da così tanto tempo che ora non vorrei perdermi neanche un secondo, ma per favore gira quel viso spigoloso e non lasciarmi cadere.
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