Federica vive le sue prime, deludenti, esperienze universitarie. Davide dice addio alla sua musa ispiratrice. Gaia si accinge a trasferirsi a Toronto per inseguire i suoi sogni. Giuseppe cerca invano nel riflesso della luna sulla laguna il suo amore perduto. Cinzia cerca di far sorridere di nuovo il marito Renzo dopo il pensionamento. Il piccolo Francesco scopre l’amore per il teatro. Questi sono solo alcuni dei tredici racconti di questa raccolta: tredici storie che fermano il tempo, catturano il lettore e lo lasciano sospeso in uno spazio nostalgico e dolceamaro da cui è impossibile allontanarsi.
P R I M O BAC I O
Da che io ricordi, la casa era sempre stata lì. Senza porte, un varco lungo e scuro al piano terra e uno al piano superiore; i mattoni marroni in vista nei punti in cui la malta aveva ceduto e una piattaforma sporgente che nelle intenzioni dei progettisti doveva essere un terrazzo.
La osservavamo spesso ma nessuno aveva mai azzardato a voce alta le fantasie fluttuanti nelle mente. Quando passava- mo i pomeriggi nella via di Gianmarco, ci arrampicavamo su una delle robinie che, come prodotti di una catena di montaggio, si ripetevano in una linea ad accostare uno steccato proprio di fronte alla costruzione. Capitava anche che giocassimo a calcio sul ghiaino della via sterrata da dove ogni tanto, a più o meno venti metri, spuntava come una sentinella la mamma di Gianmarco. Diceva sempre che entrare nella casa fantasma – così la chiamavamo tra noi – era assolutamente vietato: c’erano troppe insidie, e i topi e i ragni e qualche insetto gigante che ci avrebbe aggredito.
La cosa convinse me e Lucio; meno Gianmarco, i cui occhi sembravano illuminarsi ogni volta che incontravano l’oscurità degli accessi.
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La prima volta che ci entrammo non avevo questa gran voglia. Era una giornata libera dalle grinfie della madre ed eravamo sotto la sorveglianza a maglie larghe del fratello di Gianmarco e dei suoi amici, tra cui spiccavano il sorriso di Matilde e il seno di Martina, il suono acuto della risata di entrambe.
Io, Gianmarco e Lucio ci mettemmo a fare qualche passaggio con il pallone nuovo di Lucio, un modello originale dell’Adidas utilizzato agli ultimi mondiali e che aveva, sempre secondo l’aggiornatissimo Lucio, un rimbalzo perfetto e una consistenza adatta ai lanci lunghi. Fu proprio lui – in tutta onestà, dopo un mio passaggio sbagliato che superò lo steccato e la linea delle robinie e corse sul manto erbato, schizzando nell’aria una fragranza di umido e terra – a rilanciare il pallone verso di noi con troppa forza, indirizzandolo senza volerlo dentro il varco al piano terra. Gianmarco guardò me e poi Lucio, che era tornato con il fiatone e delle scuse sussurrate.
Poi, disse “Andiamo!” anche se non era necessario: avevamo tutti capito dove stavamo per infilarci. Sentii un piacevole brivido di freschezza. Il sole si chiuse dietro i nostri passi. La penombra ci permetteva una visuale incerta sui sassi bianchi e le sterpaglie. Sbucavano pali di legno malfermi dal terreno, ragnatele nobiliari agli angoli delle pareti. A ogni barlume di rumore il mio cuore si chiedeva allarmato cosa fosse stato. Da qualche parte alla nostra destra si alzava un leggero odore di urina, sospinto verso di noi dalla promessa di una finestra, un buco segmentato sulla parete. Il pallone venne recuperato da Lucio: si era incastrato sull’angolo oltre l’ossatura delle scale che salivano al piano superiore.
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