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Fanne Buon Uso

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Consegna prevista Dicembre 2024
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Se improvvisamente scoprissi che ti restassero appena diciotto mesi di vita? Se ti portassero via dalla tua città e dalla tua compagnia di amici diciottenni, per ricoverarti in una clinica oncologica? E se, nel toccare con mano la morte, realizzassi di non aver mai vissuto veramente? Se desiderassi avere più tempo per cambiare tutte quelle cose che, fino a prima della malattia, avevi sempre dato per scontato?
Un viaggio fra vite vissute a metà e vite alla ricerca del piacere effimero della droga. Un intreccio di storie scandite da favori da restituire, rammarichi, nonché dal desiderio inarrestabile di aggiustare gli errori del passato.
Un viaggio fra scelte moralmente discutibili, in cui non si può che domandarsi incessantemente, se sia sempre vero, che il fine ultimo giustifichi i mezzi, qualsiasi essi siano.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro per ricordare in primis a me stessa e poi a tutti coloro che si perderanno fra le sue pagine, che il tempo è ciò che di più prezioso abbiamo a nostra disposizione. L’ho scritto come un inno alla vita, affinché non ci si dimentichi di dire “ti voglio bene” quando lo si sente, non si disimpari a provare emozioni grandi, anche dinnanzi alle cose più semplici, e non si perda di vista il valore di tutto ciò che, sovente, ci si ritrova a dare per scontato.

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO 1

~ PRESENTE ~

Ombretta – Luglio 2015
A Bolzano faceva caldo e c’era afa. Ombretta era arrivata alla clinica Goldene Rose con largo anticipo quella mattina e da ore, ormai, se ne stava rinchiusa fra quelle mura. I capelli mossi e arruffati avrebbero avuto bisogno di una tinta e, perché no, anche di un colpo di spazzola. Le ricadevano sulle spalle senza una forma, con qualche riflesso dai toni aranciati, intervallato da molteplici ciocche grigio topo. Indossava uno scamiciato un po’ infeltrito, che le accarezzava le ginocchia con un orlo di fortuna e la faceva apparire appena un poco più giovane dei suoi trentacinque anni. Quando, qualche anno prima, lo aveva acquistato ad un mercatino delle pulci, era lungo fino alle caviglie. Ma dopo averlo indossato un paio di volte, aveva deciso di accorciarlo seguendo dei tutorial su YouTube. Il risultato ottenuto era tutt’altro che professionale, ma Ombretta non ci dava peso. Come non dava peso alle suole sgualcite delle vecchie Converse All Star rosse, che portava ai piedi. Quelle scarpe le aveva avute in regalo dalle cose dismesse di una vecchia amica, Olga. Ombretta aveva sempre amato le All Star, ma non ne aveva mai avute un paio sue, prima di quelle. Anzi, se Olga non le avesse ceduto le proprie, Ombretta non se ne sarebbe mai neppure comprate un paio nuove tutte sue, probabilmente. La madre della giovane, Teresa, le stava accanto apprensiva ed elegante.
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Il viso scavato ma perfettamente curato era contornato da capelli corvini raccolti in un morbido chignon basso. Ai lobi portava due piccoli orecchini di perle, abbinati ad un prezioso collier. Una gonna di tessuto leggero con una fantasia sui toni caldi del marrone, le avvolgeva i fianchi asciutti fino sotto al ginocchio. Sopra indossava una camicetta d’un bianco candido con maniche a sbuffo e bottoni di Swarovski, stirata impeccabilmente. Il padre Antonio invece, con i capelli brizzolati e l’occhiale spesso dalla montatura eccentrica, camminava avanti e indietro, sorseggiando nervosamente un pessimo espresso preso al distributore automatico della Goldene Rose. Sapeva di cicoria ed era ancora troppo caldo. Ma l’uomo non ci badava, continuando ad assaporarlo bruciandosi appena la punta della lingua ad ogni sorso. Nessuno parlava. A riempire il vuoto della stanza erano solo ed unicamente i loro pensieri. Pensieri pesanti, che rendevano l’aria della sala d’attesa irrespirabile e carica di tensione.
«Serafini?», chiese ad un certo punto l’infermiera, affacciandosi appena all’uscio della porta dello studio medico.
«Sì, sono io» sibilò Ombretta, alzandosi goffamente dalla sedia, e cercando di sistemare quanto possibile le pieghe che, complice lo stare seduta con quel caldo e il nervosismo, le si erano formate sullo scamiciato. Il cuore le batteva forte. Lo sentiva nel collo, nelle tempie e nei polsi. Lo percepiva pomparle il sangue in tutto il corpo.
«Prego, mi segua» affermò quindi l’infermiera, abbozzando un sorriso di rito ad Ombretta. Poi aggiunse, lanciando uno sguardo ai genitori, che non attendevano altro che essere interpellati: «Meglio se si fa accompagnare, va bene?».
Ombretta acconsentì senza troppo discutere. D’altronde sarebbero stati proprio i suoi a pagare quella visita. E si sarebbero anche presi carico di qualsiasi spesa da sostenere per eventuali ulteriori terapie presso la clinica. Ombretta, infatti, non si sarebbe mai concessa di spendere tanto. Almeno non fin da subito. Lei sosteneva fermamente ci fossero molti ottimi medici anche nel pubblico, che avrebbero potuto garantirle prestazioni altrettanto buone, al solo costo di un ticket da trenta euro. Ma con i suoi genitori non c’era stato molto di cui discutere. Avevano insistito allo sfinimento per portarla alla Goldene Rose, e lei alla fine aveva ceduto. Le avevano ripetuto in continuazione per giorni, come la clinica bolzanina fosse senza ombra di dubbio il centro neurologico migliore nel panorama nazionale ed internazionale, e avevano fatto leva sulla loro generosa disponibilità economica che, in una situazione come quella, non avrebbero certo risparmiato. Alla fine, quindi, Ombretta si era lasciata convincere, nella speranza che quella sarebbe stata la prima e ultima visita, che i genitori avrebbero pagato per lei. In cuor suo, si ripeteva che non ce ne sarebbero state altre, che tutto sarebbe finito nel migliore dei modi quello stesso giorno. Varcarono l’uscio della porta, preceduti dall’infermiera. Il dott. Hofer era seduto alla scrivania. Controllava qualcosa al pc. Probabilmente gli svariati referti di TAC, analisi del sangue e vari altri esami cui Ombretta si era sottoposta quella stessa mattina presso la clinica. Non appena l’infermiera invitò la ragazza e i genitori ad accomodarsi sulle poltroncine in pelle disposte a semicerchio di fronte alla scrivania del medico, Hofer alzò gli occhi azzurri oltre il monitor del pc e fece a sua volta segno ai Serafini di prendere posto, abbozzando appena un sorriso al lato delle labbra. Ad Ombretta quel sorriso ricordò esattamente quello che anche l’infermiera le aveva rivolto poco prima. Un sorriso di rito, che poco aveva a che fare con quella visita, con quella clinica. Il dott. Hofer aveva un’aria distinta che, di primo acchito, gli conferiva estrema professionalità.
«Benvenuti alla Goldene Rose» disse il medico dalla corporatura possente. Nessuno rispose, ma con una mimica facciale non troppo generosa, fecero intendere di essere grati, a modo proprio, di quel benvenuto.
«Siete arrivati oggi?» provò nuovamente Hofer, nel tentativo di sciogliere un po’ l’atmosfera. Stavolta però, rivolse il proprio sguardo direttamente su Ombretta. Per qualche frazione di secondo, il silenzio più totale.
«No, siamo saliti già ieri. Ne abbiamo approfittato per fare un giro in città. Un bretzl e una birra» intervenne il padre, Antonio, nonostante non fosse stato interpellato esplicitamente, notando il palese indugiare della figlia alla domanda del medico. Poi, sentì la necessità di aggiungere ancora qualcosa, come per distendere un po’ la tensione di tutti: «Ma anche a Milano di questi tempi non si sta male. La città si sta svuotando. Tutti sono in ferie…» le parole dell’uomo vennero fagocitate repentinamente dal palpabile nervosismo che alleggiava nella stanza.
«Bene allora… veniamo a noi» proseguì Hofer, intuendo come il tempo per i convenevoli fosse esaurito. Anzi, come probabilmente, non fosse mai iniziato.
«Cercherò di essere chiaro e diretto, utilizzando un vocabolario semplice. Ho analizzato tutti gli esami cui Lei si è sottoposta, Ombretta. Confermo che i sintomi che l’hanno allarmata e fatta arrivare fino da me, non sono casuali. Ci troviamo di fronte ad una massa localizzata nella parte posteriore del cranio. È una massa importante. Le dimensioni fanno intuire che sia lì da tempo» si fermò qualche istante. Teresa tratteneva il fiato nel collo infossato. La mano aperta appoggiata sul petto, giocherellando appena con la collana. Il marito attendeva impassibile, con gli occhi vuoti e privi d’espressione, che il dottore proseguisse. Ombretta invece, se ne stava lì seduta, con la schiena un po’ ricurva, a fissarsi le scarpe rosse. Era come in una bolla. La sua mente era lontana da quello studio e vagava libera fra stralci di ricordi e pensieri assolutamente scollegati dalla situazione in cui si trovava. Pensava a quanto fosse stata fortunata che ad Olga quelle scarpe avessero smesso di piacere, nonostante invece per lei fossero sempre state così belle. Olga. Chissà che fine aveva fatto. Non la vedeva da un sacco di tempo. Difficile quantificare quanto esattamente. Ma erano anni, per certo. Ombretta aveva provato anche a cercarla qualche volta. Giusto per andare a passeggiare insieme lungo i Navigli o scambiare due chiacchiere, come erano solite fare loro. Ma Olga aveva sempre avuto la scusa pronta. Una volta era stato il gatto, una volta la madre, una volta l’elettricista o il corso di pilates. E così alla fine anche Ombretta si era stufata e aveva finito per smettere di cercarla. Si era data per vinta. In principio facendosi molte domande. E poi dandosi pace, cercando conforto in una visione fatalistica del tutto. Ma in quel momento, in quello studio, proprio mentre dinnanzi a lei un luminare di neurochirurgia le stava parlando di una massa maligna che le occupava parte del cranio, Ombretta era impegnata a pensare a come magari avrebbe potuto chiamare l’amica più tardi. Chiederle come stesse, come le andasse la vita… perché no?  Perché non provare a riagganciare quello che per lei era stato il rapporto d’amicizia più profondo di sempre?
Quel fiume di pensieri sconnessi e confusi fu improvvisamente interrotto dalla voce calda del dott. Hofer, che Ombretta fino a quel momento aveva quasi ignorato, come fosse solo una lontana eco.
«Non sono qui per darle false speranze, Ombretta». Lo sguardo del dott. Hofer cercava quello della paziente nel tentativo di creare una connessione, di esprimere lealtà e competenza. «Cerco sempre un modo e tendenzialmente lo trovo» affermò il medico con tono profondo. Gli occhi piccoli racchiusi in uno sguardo penetrante che cercava di entrare nell’anima di Ombretta.
La donna deglutì. Ora sì, che era davvero in quello studio. Ora sì, non stava più pensando a Olga.
«Mi sta dicendo quello che penso?» chiese Ombretta con un tono retorico e spaventato. Quella domanda le era uscita di bocca automaticamente, e proprio nello stesso istante in cui aveva pronunciato quelle parole, si era resa conto che probabilmente avrebbe preferito non avere una risposta.
«Vede Ombretta, lo stadio della forma tumorale è molto avanzato. Andare ad operare sarebbe troppo rischioso, in quanto la possibilità di andare ad intaccare materia celebrare sana, compromettendo quindi le Sue normali capacità cognitive, rasenterebbe ben l’ottanta per cento. Non credo sia un rischio che valga la pena prendere in considerazione.». 
«Ma e la chemio?» domandò la donna con uno stridulo filo di voce, scuotendo la testa in preda alla disperazione che stava lentamente prendendo forma in lei.
«La chemio potrebbe ridurre la massa, questo di certo. Ma non sarebbe possibile ridurla in maniera così significativa, da consentire poi un’operazione in sicurezza.».
L’uomo, avvolto nel suo camice bianco, attese qualche istante e infilandosi la penna in avorio nel taschino sul petto, aggiunse: «Gli effetti collaterali di una chemioterapia, come forse avrà già sentito dire, sono molteplici ed invasivi. Possiamo tentare questa strada, Ombretta. Dipende tutto da Lei. Non vorrei sembrarle cinico con quello che sto per dirle, ma vorrei essere semplicemente molto onesto e trasparente con Lei. Se decidesse davvero di voler intraprendere il tentativo della chemioterapia per cercare di ridurre la massa e sperare in un’operazione in sicurezza, deve essere consapevole, non solo che il successo di questa strada sarà molto difficile, ma soprattutto che il tempo in più che la chemio le permetterà di guadagnare, non sarà tempo di qualità.».
«Quanto tempo le resterebbe, ad oggi?» chiese Teresa con un filo di voce. Era la domanda che tutti in quella stanza avrebbero voluto porre ad Hofer fin da principio. E quella domanda spettò proprio a Teresa. Quella domanda che una madre non vorrebbe mai fare per conto dei propri figli.
«Diciotto mesi.» rispose Hofer, senza abbassare lo sguardo da Ombretta.

Claudio – Luglio 2015
Il caldo estivo di Bolzano era innegabilmente insopportabile, già alle prime ore del mattino. Erano appena passate le sette e mezza e Claudio e Marzia stavano sorseggiando una tazza di caffè in silenzio in terrazza, con gli sguardi rivolti verso i terrazzamenti del Guncina. La piscina del residence era ancora vuota e l’acqua immobile e pulita rifletteva le ultime punte rosate del cielo, che si stava ormai tingendo di giorno. Bolzano stava ancora dormendo. Claudio e Marzia invece, quella notte, avevano a mala pena chiuso occhio. Nel sonno o, meglio, nel dormiveglia, i loro corpi si erano cercati reciprocamente per donarsi conforto. Entrambi non avevano ricordo di quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta in cui nella notte si fossero scambiati qualche timida effusione. Dall’ultima volta in cui i loro corpi avessero palesato esplicitamente il bisogno l’una dell’altro. Il caffè era bollente, nonostante macchiato con del latte di soia freddo. I loro tre figli stavano ancora dormendo e non li avrebbero di certo svegliati. Marzia, nella sua sottoveste di seta color caramello e con il viso ancora stropicciato dalla notte e dalle troppe poche ore di sonno, era bella come sempre. I capelli biondi dai riflessi freddi davano carattere ai suoi lineamenti delicati e le valorizzavano ancora di più gli occhi verde smeraldo. La pelle olivastra era abbronzata dal sole preso nei pomeriggi in piscina, durante le passeggiate lungo il Talvera con le amiche, o ancora nei fine settimana trascorsi coi figli nella loro casa a Como, sulle sponde del lago. Claudio, invece, quella mattina aveva un aspetto nettamente più sciupato del solito. La testa calva da ormai troppi anni era contornata da una barba importante, curata e brizzolata. A petto nudo con dei pantaloni della tuta morbidi e delle Birkenstock Arizona color tabacco decisamente vissute, teneva gli occhiali sulla testa mentre lasciava che il suo sguardo si perdesse in un orizzonte troppo vicino. Il suo fisico era asciutto per lo sport e per lo stress del lavoro e il viso segnato da quelle sue rughe appena accennate, che lo rendevano ancora più affascinante.
Finito il caffè sistemarono le tazze nel lavandino. La lavastoviglie era da svuotare, ma non era di certo quello il momento giusto per farlo. Si lavarono i denti uno a fiano all’altro nel bagno della camera da letto. Anche questo non succedeva da tempo. Il doppio lavandino era stato sfruttato molto poco considerando i loro orari completamente diversi. E l’essere lì, in quel momento, a lavarsi i denti insieme, metteva Marzia quasi a disagio, lasciando trasparire un’intimità profonda e da tempo inesplorata, come se quel semplice gesto all’apparenza banale, riuscisse ad essere quasi più profondo dell’andare a letto insieme. Quando Marzia, dopo essersi spalmata il viso con della morbida crema giorno, raggiunse Claudio nella cabina armadio, lo trovò immobile dinnanzi alla sua fila di polo e camicie. Non gli disse nulla ma, nell’avviarsi verso la propria parte di armadio, lasciò che le sue lunghe dita affusolate sfiorassero appena la schiena del marito.
«Non so cosa mettermi.» affermò Claudio con un filo di voce, quasi come se non fosse realmente convinto di pronunciare quella frase.
«Stai bene?» ribadì Marzia, ben conscia del fatto che il suo non sapere cosa mettersi, altro non fosse che un pretesto per tentare di concentrarsi su altro.
«Non lo so, penso di sì…»
«Mettiti questi» disse Marzia, porgendogli un bermuda e una polo ben stirati. Poi aggiunse con sguardo profondo e leale: «Io sono qui con te».

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Valentina Uez
Sono Valentina Uez, classe 1993. Uno scorpione ascendente gemelli molto sensibile ed empatico, ma altrettanto permaloso.
Ho studiato Scienze Economiche e Sociali presso la Libera Università di Bolzano e, ad oggi, sono impiegata nell’ufficio estero di un’azienda vinicola trentina. Vivo in una piccola valle, la Val di Non, circondata da montagne e bagnata dalle acque del lago di S. Giustina. Vado pazza per le salite su ripidi sentieri di montagna, per le camminate a piedi nudi sulla sabbia, per i tramonti in riva al mare e le albe in cima ai monti. Mi piace cucinare a suono della mia fantasia, bere del buon vino in compagnia e mettere su carta parole che possano solleticare le emozioni di chi legge.
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