Ombretta, Claudio e Giona non si conoscono e non si incontreranno mai. Eppure, c’è qualcosa che li lega: una diagnosi infausta che grava sulle loro vite. A pronunciarla è stato il Dottor Riccardo Hofer, un neurochirurgo di grande fama. La loro condizione sembra essere senza via d’uscita, ma sarà proprio la malattia a rivelare una verità profonda: tutti, in modi diversi, hanno trascurato qualcosa di essenziale. L’amore, la famiglia e, soprattutto, se stessi. E se questo viaggio inatteso e doloroso fosse, in realtà, la loro più grande opportunità di redenzione? Una riflessione universale si fa strada lungo tutto il romanzo, emergendo con forza attraverso le vite dei protagonisti e i loro destini intrecciati: il tempo è un dono limitato, ed è nostro compito imparare a “farne buon uso”.
Capitolo 1
Presente
Ombretta – luglio 2015
A Bolzano faceva caldo e c’era afa. Ombretta era arrivata alla clinica Goldene Rose con largo anticipo quella mattina e da ore, ormai, se ne stava rinchiusa fra quelle mura. I capelli mossi e arruffati avrebbero avuto bisogno di una tinta e, perché no, anche di un colpo di spazzola. Le ricadevano sulle spalle senza una forma, con qualche riflesso dai toni aranciati intervallato da molteplici ciocche grigio topo. Indossava uno scamiciato un po’ infeltrito, che le accarezzava le ginocchia con un orlo di fortuna e la faceva apparire appena un poco più giovane dei suoi trentacinque anni. Quando, qualche anno prima, lo aveva acquistato a un mercatino delle pulci, era lungo fino alle caviglie. Ma dopo averlo indossato un paio di volte, aveva deciso di accorciarlo seguendo dei tutorial su YouTube. Il risultato ottenuto era tutt’altro che professionale, ma Ombretta non gli dava peso. Come non dava peso alle suole sgualcite delle vecchie Converse All Star rosse che portava ai piedi. Quelle scarpe le aveva avute in regalo dalle cose dismesse di una vecchia amica, Olga. Ombretta aveva sempre amato le All Star, ma non ne aveva mai avute un paio sue, prima di quelle. Anzi, se Olga non le avesse ceduto le proprie, Ombretta non si sarebbe mai neppure comprata un paio nuovo tutto suo, probabilmente. La madre della giovane, Teresa, le stava accanto apprensiva ed elegante. Il viso scavato ma perfettamente curato era contornato da capelli corvini raccolti in un morbido chignon basso. Ai lobi portava due piccoli orecchini di perle, abbinati a un prezioso collier. Una gonna di tessuto leggero con una fantasia sui toni caldi del marrone le avvolgeva i fianchi asciutti fino sotto al ginocchio. Sopra indossava una camicetta d’un bianco candido con maniche a sbuffo e bottoni di Swarovski, stirata impeccabilmente. Il padre Antonio invece, con i capelli brizzolati e l’occhiale spesso dalla montatura eccentrica, camminava avanti e indietro, sorseggiando nervosamente un pessimo espresso preso al distributore automatico della Goldene Rose. Sapeva di cicoria ed era ancora troppo caldo. Ma l’uomo non ci badava, continuando ad assaporarlo bruciandosi appena la punta della lingua a ogni sorso. Nessuno parlava. A riempire il vuoto della stanza erano solo e unicamente i loro pensieri. Pensieri pesanti, che rendevano l’aria della sala d’attesa irrespirabile e carica di tensione.
«Serafini?» chiese a un certo punto l’infermiera, affacciandosi appena all’uscio della porta dello studio medico.
«Sì, sono io» sibilò Ombretta, alzandosi goffamente dalla sedia e cercando di sistemare quanto possibile le pieghe che, complici lo stare seduta con quel caldo e il nervosismo, le si erano formate sullo scamiciato. Il cuore le batteva forte. Lo sentiva nel collo, nelle tempie e nei polsi. Lo percepiva mentre le pompava il sangue in tutto il corpo.
«Prego, mi segua» affermò quindi l’infermiera, abbozzando un sorriso di rito a Ombretta. Poi aggiunse, lanciando uno sguardo ai genitori, che non attendevano altro che essere interpellati: «Meglio se si fa accompagnare, va bene?».
Ombretta acconsentì senza troppo discutere. D’altronde sarebbero stati proprio i suoi a pagare quella visita. E si sarebbero anche fatti carico di qualsiasi spesa da sostenere per eventuali ulteriori terapie presso la clinica. Ombretta, infatti, non si sarebbe mai concessa di spendere tanto. Almeno non fin da subito. Lei sosteneva fermamente ci fossero molti ottimi medici anche nel pubblico, che avrebbero potuto garantirle prestazioni altrettanto buone, al solo costo di un ticket da trenta euro.
Ma con i suoi genitori non c’era stato molto di cui discutere. Avevano insistito allo sfinimento per portarla alla Goldene Rose, e lei alla fine aveva ceduto. Le avevano ripetuto in continuazione per giorni come la clinica bolzanina fosse senza ombra di dubbio il centro neurologico migliore nel panorama nazionale e internazionale, e avevano fatto leva sulla loro generosa disponibilità economica che, in una situazione come quella, non avrebbero certo risparmiato. Alla fine, quindi, Ombretta si era lasciata convincere, nella speranza che quella sarebbe stata la prima e ultima visita, che i genitori avrebbero pagato per lei. In cuor suo, si ripeteva che non ce ne sarebbero state altre, che tutto sarebbe finito nel migliore dei modi quello stesso giorno.
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Varcarono l’uscio della porta, preceduti dall’infermiera.
Il dottor Hofer era seduto alla scrivania. Controllava qualcosa al PC. Probabilmente gli svariati referti di TAC, analisi del sangue e vari altri esami cui Ombretta si era sottoposta quella stessa mattina presso la clinica. Non appena l’infermiera invitò la ragazza e i genitori ad accomodarsi sulle poltroncine in pelle disposte a semicerchio di fronte alla scrivania del medico, Hofer alzò gli occhi azzurri oltre il monitor del PC e fece a sua volta segno ai Serafini di prendere posto, abbozzando appena un sorriso. A Ombretta quel sorriso ricordò esattamente quello che anche l’infermiera le aveva rivolto poco prima. Un sorriso di rito, che poco aveva a che fare con quella visita, con quella clinica. Il dottor Hofer aveva un’aria distinta che, di primo acchito, gli conferiva estrema professionalità.
«Benvenuti alla Goldene Rose» disse il medico dalla corporatura possente. Nessuno rispose, ma con una mimica facciale non troppo generosa, fecero intendere di essere grati, a modo proprio, di quel benvenuto.
«Siete arrivati oggi?» provò nuovamente Hofer, nel tentativo di sciogliere un po’ l’atmosfera. Stavolta però, rivolse il proprio sguardo direttamente a Ombretta. Per qualche frazione di secondo, il silenzio più totale.
«No, siamo saliti già ieri. Ne abbiamo approfittato per fare un giro in città. Un brezel e una birra» intervenne il padre, Antonio, nonostante non fosse stato interpellato esplicitamente, notando il palese indugiare della figlia alla domanda del medico. Poi, sentì la necessità di aggiungere ancora qualcosa, come per distendere un po’ la tensione di tutti: «Ma anche a Milano di questi tempi non si sta male. La città si sta svuotando. Tutti sono in ferie…». Le parole dell’uomo vennero fagocitate repentinamente dal palpabile nervosismo che aleggiava nella stanza.
«Bene, allora… veniamo a noi» proseguì Hofer, intuendo come il tempo per i convenevoli fosse esaurito. Anzi, come, probabilmente, non fosse mai iniziato.
«Cercherò di essere chiaro e diretto, utilizzando un vocabolario semplice. Ho analizzato tutti gli esami cui lei si è sottoposta, Ombretta. Confermo che i sintomi che l’hanno allarmata e fatta arrivare fino da me non sono casuali. Ci troviamo di fronte a una massa localizzata nella parte posteriore del cranio. È una massa importante. Le dimensioni fanno intuire che sia lì da tempo» si fermò qualche istante. Teresa tratteneva il fiato nel collo infossato. La mano aperta appoggiata sul petto che giocherellava appena con la collana. Il marito attendeva impassibile, con gli occhi vuoti e privi d’espressione, che il dottore proseguisse. Ombretta, invece, se ne stava lì seduta, con la schiena un po’ ricurva, a fissarsi le scarpe rosse. Era come in una bolla. La sua mente era lontana da quello studio e vagava libera fra stralci di ricordi e pensieri assolutamente scollegati dalla situazione in cui si trovava. Pensava a quanto fosse stata fortunata che a Olga quelle scarpe avessero smesso di piacere, nonostante invece per lei fossero sempre state così belle.
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