Ero arrivato al punto C. Il punto Calcott, se così lo si vuole vedere. E così lo devo vedere, perché ormai la parola caso non poteva più applicarsi a nulla di quel che mi stava accadendo.
Ero arrivato al punto C, te lo avevo detto? Eh, sì. Te l’ho appena scritto. Perdonami, la memoria qui peggiora in fretta. Il punto C, almeno per quel che mi riguarda, è una specie di niente. Già. Il nulla, lo stesso nulla di tanti film, di troppi libri. Ma questo è reale, cazzo. E non ci sarei dovuto finire. Lo dicono tutti, lo so. Io non ho rallentato a un incrocio, è tutto, checché ne dica la cicala-coccodrillo.
Questo è il nulla di David Calcott. Non è roba mia. Qui non ci sono fiamme, ma non è una fortuna. Peggio di un incendio costante in ogni centimetro quadrato che ti circonda, c’è solo la serie infinita di sensi di colpa color ambra che colano come cera fusa da ogni centimetro quadrato che ti circonda.
Sono i sensi di colpa di David. Hanno tutti la sua faccia cristallizzata nei momenti topici delle diverse azioni compiute da vivo: furto d’auto, atti vandalici, graffiti, tentato suicidio (questo cola da tutte le pareti sovrastando gli altri), adulterio, ogni assunzione di droga, ogni ora di sonno persa a causa dell’assunzione di droga, ogni verso non scritto, la militanza punk. Eh sì, David ne aveva fatta di roba.
Non sono nessuno per giudicare – dopotutto mi trovo all’inferno per non aver rallentato a un incrocio –, ma ti porgo una domanda: posso io, Lucas Cordoba, 22 anni, magazziniere Wall Mart, figlio d’immigrati regolari, con un impiego regolare e l’assistenza sanitaria, incensurato, contrario a guerre e droghe, avere fatto cose peggiori di un cantante inglese steso stecchito sul lussuoso letto di una camera d’albergo (che nemmeno in tre vite mi sarei potuta permettere), fatto marcio e appena morto per un’overdose di cocaina ed eroina? Posso, secondo te?
No che non posso. Quanto meno è discutibile che io possa. Se pesa di più un mancato stop, allora alzo le mani.
Guardai il volto di David, era di un color verde tutt’altro che distensivo. In un amen ritrovai di fianco, in piedi, la sua anima mentre osservava angosciata il proprio corpo da fuori e il tizio in camera insieme a lui – lo spacciatore – che imprecava e si affrettava a chiamare il 911.
Il nulla stava trascinando via David e me con lui.
Pareva ipnotizzato, poi a pieni polmoni (che non avrebbe dovuto più avere) urlò facendo tremare anche i sensi di colpa che colavano da ogni centimetro quadrato intorno.
«Cerca di stare calmo.»
Si voltò e mi vide. Il suo sguardo (che non avrebbe dovuto più avere) era carico di dolore e ansia. Non parlava, era bloccato. Come potevo dargli torto? Almeno in questo siamo stati uguali. Per tentare di metterlo a suo agio cercai di fargli capire che avevo capito chi era. Strano, visto che il suo volto mi era familiare da nemmeno cinque ore.
Capisci perché il concetto di caso credo non mi si addica?
Intorno l’agio era solo un ricordo e i sensi di colpa color ambra stavano danzando con il nulla per affogarci in un’eternità sconfinata.
«Feeling unknown, and you’re all alone, flesh and bone, by the telephone, lift up the receiver, I’ll make you a believer…»
Lo so anche io che ho una voce di merda, cosa credi? L’importante era ottenere l’effetto sperato.
Sembrò funzionare.
«Sono morto? Oddio, dimmi che non è così! Ho ancora troppo da farmi perdonare… ho sbagliato tutto… tutto.»
Stavo per spiegargli a grandi linee dove eravamo e perché (“PERCHÉ SEI STATO UNA PESSIMA INCARNAZIONE UMANA!”), stavo per dirgli che con l’autocommiserazione all’inferno non si va da nessuna parte – se non, forse, nell’inferno di qualcun altro, perché no? – quando una voce sparata fortissima in stereofonia ci investì. Poteva essere la voce di Dio, per quanto ne so. Si rivolse a David. Lo capii dal riflettore a occhio di bue che lo illuminò a giorno come fosse ancora sopra un palco.
«Non è il momento. Preparati.»
Un istante dopo David Calcott, alias Dave Gahan, non c’era più.
Come la vita che ti scorre davanti, vidi il suo futuro. Preso per i capelli, rianimato tre volte, due minuti di morte clinica. La disintossicazione. Un nuovo capitolo.
Fui quasi felice per lui, sinceramente. Ma per l’altruismo disinteressato era troppo tardi, niente punti premio per riportarmi ad A, qualunque cosa fosse A, dove una cicala-coccodrillo mi stava forse ancora cercando per portarmi a B, dovunque fosse B.
Dal 28 maggio 1996 sono intrappolato qui, nelle angosce e nei passati sensi di colpa di Dave Gahan, mentre David Calcott è risorto. Non pensavo di meritarmi il nulla eterno color ambra che cola da ovunque, ma non è più una questione di merito. Forse è stata tutta una questione di caso. Anche se non ci credo.
La sola consolazione è avere a disposizione un giradischi e un vinile. Lo sfondo nero e i fiori rosso sangue sono sempre bellissimi, per quanto quella copertina mi metta ormai i brividi. Peccato soltanto che i pezzi del disco siano cantati da un bambino vietnamita stonato.
Del resto sono all’inferno. Ma sarebbe potuta andare peggio, tutto sommato il mio è un lieto fine.
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