Due occhi così vispi li avrei riconosciuti anche al buio.
Ci guardiamo, dentro quella porta, ma mentre lei sorride distogliendo lo sguardo, io rimango immobile a fissarle un piccolo ematoma che ha sul collo. Vorrei chiederle cosa è successo, come se l’è fatto, ma un terribile presentimento precipita nel mio stomaco con un tonfo tale da darmi la nausea.
Non lo so dove sono, ma, luci e grattacieli mi suggeriscono un’idea. Non ho mai visto New York e certo non sarebbe il modo migliore cominciare a visitarla partendo da un umido scantinato popolato da donne e uomini che mi pare di conoscere, ma che non riconosco per via delle maschere che indossano.
Un uomo calvo, con una barba nera e pizzuta a ricoprire il mento, si avvicina a lei e le propone di abbandonare quel sudicio seminterrato per andare a una serata: divertirsi un po’.
− Lo sai che certe serate non fanno per me.
Vorrei dirle di rimanere, di addentrarci insieme nelle luci accecanti della città, ma resto muto in contemplazione del suo sorriso e di quel piccolo ematoma che continua ad occupare la maggior parte dei miei pensieri.
Dal fondo buio di quella piccola stanza emerge un uomo tanto alto da dover avanzare con la testa inclinata per non rischiare di sbatterla al soffitto; porta un vestito blu, troppo elegante per essere indossato di giorno.
− È tempo di andare. − mi dice osservando la luna che fa capolino da un lucernaio in alto.
− Dove?
− C’è qualcuno che ti segue.
− Non ho visto nessuno − rispondo sorpreso.
− Se non lo hai visto, è perché si sta nascondendo bene.
Mi accompagna fuori, alla porta, e piccole gocce di pioggia cominciano a bagnarmi i capelli.
Non verrà con me, mi dice prima di sparire. Lei intanto monta sullo scooter scassato del tipo con la barba pizzuta.
La strada è deserta e io non so dove andare, ma una Harley posteggiata proprio lì davanti, con le chiavi nel cilindretto, mi indica un’unica cosa. Il rumore di quella maledetta caffettiera a due cilindri è assordante e mi rende impossibile ascoltare i pensieri, capire le strade.
La pioggia intanto è diventata battente e i ricci neri mi ricadono davanti agli occhi. Non riesco a vedere né semafori né incroci. Solo i grattacieli ai bordi della strada che si fanno sempre più alti fino a perdersi oltre le nuvole basse.
Una curva. Scalo marcia. Decelero. Tiro il freno e la caffettiera derapa prima di spegnersi di botto.
Sono arrivato.
Li vedo scendere dallo scooter e infilarsi dentro un locale dall’insegna gialla. A lei basta un semplice sguardo per catturarmi e spingermi a seguirla.
Mi sveglio di soprassalto con la storia di Fancioulle sul comodino e il passo cadenzato di un cavallo che riecheggia tra i palazzi ancora addormentati. La luce arancione dell’alba dipinge il cielo autunnale di un azzurro limpido, macchiato qua e là dal rosa di piccole nuvolette leggere.
Mi serve qualche attimo per capire che il cloppitìo non fa parte di un sogno e che un calesse sta passando proprio sotto la mia finestra. Ancora mezzo intontito, mi affaccio per guardarlo mentre si allontana lungo la via e poi sparisce all’incrocio.
Un forte vento scuote le foglie della palma di fronte ed è proprio in quel momento che, da un angolo remoto della mente, riemergono parole che avevo dimenticato. Tanto tempo era passato dall’ultima volta in cui avevo visto Carmine, amico e filosofo di strada. “Meglio indossare il cappotto pesante quando tira vento; ché così ti ripari dagli strani incontri della vita” mi ripeteva sempre.
I vestiti sulla poltrona sono gli stessi di ieri e del giorno prima: non ho voglia di cercarne altri e li indosso come farei con una divisa. Prima di uscire, non dimentico il cappotto e chiudo la porta alle mie spalle.
Ci sono certe strade, al mattino, che amo percorrere perché illuminate di sbieco dal sole ancora timido; lì regna il silenzio e ogni palazzo, ogni cartaccia abbandonata, ogni passante a capo chino mi consola il cuore, facendomi sentire meno solo in mezzo alla solitudine.
Ce ne sono altre, invece, rumorose e popolate dalla gente del mattino: genitori di fretta che accompagnano i figli a scuola, ragazzi ciondolanti che fumano noiosamente, uomini d’affari in doppio petto immersi nel cellulare. E poi c’è sempre qualcuno che arresta il passo, si fruga nelle tasche, controlla nella borsa e infine si volta per tornare indietro. Imprecando, il più delle volte.
Dai bar viene fuori il tintinnio dei cucchiaini che rimescolano il caffè dentro le tazzine; l’aroma è troppo invitante per non fermarsi al chiosco di Piazza dei Libri. Sono sicuro che Sebi mi stia già aspettando con la solita colazione: latte freddo macchiato e un cornetto vuoto.
− Il solito? − mi chiede più per dovere che per incertezza.
− No, oggi no. Sono in ritardo.
− E chi non lo è?
Con i suoi piccoli occhietti neri che emergono da un viso paffuto guarda il cielo, al di là della tenda che fa ombra sul bancone.
− Capita pure a te? − chiedo.
− Impossibile. Tutta questa gente che vedi qui, dipende da me. Dipende da me il fatto che inizino bene la giornata oppure no.
− Ci saranno pure dei giorni in cui arrivi in ritardo. Che ne so?! Anche di soli cinque minuti…
− Pensi che la pendola laggiù possa permetterselo?
Mi volto per guardarla e quella, inopportuna, segna che il mio tempo è già scaduto e che dovrò correre per arrivare in tempo allo studio. Mollo tutto seduta stante e mi precipito giù dalla piazza. Quasi cado per non aver calcolato bene la distanza tra i gradini e la strada. Il cappotto pesante impaccia la mia corsa. Ci sono quasi. Ancora una traversa e poi troverò la porta subito dietro l’angolo. Afferro le chiavi dalla tasca e vado a memoria per prendere quella giusta. Cadono. Merda!
Le recupero facilmente, ma non faccio in tempo ad esultare che vedo qualcuno aspettare davanti all’ingresso.
Non li riconosco.
Sono in due.
Cadenzo il passo e regolo il respiro per darmi un contegno. Chiunque siano non è certo professionale presentarmi col fiato corto, il collo della camicia sudato, le mani che tremano per la fretta.
Infilo la chiave nella toppa.
− Lei è dello studio Farni? − mi chiede quello più alto con fare gentile ed elegante.
− Chi cercate?
− Vorremmo parlare con qualcuno.
− Avete un appuntamento? − domando con un piede già oltre la soglia.
− No. − risponde l’altro con voce gutturale − Volevamo solo delle informazioni.
Era tarchiato e un buffo naso rosso faceva capolino su un viso che pareva compresso, tante erano le rughe che accentuavano ogni sua espressione.
− Potete parlare con me, allora.
− Benissimo! − giubilò il primo, che si lasciò andare a un eccesso di entusiasmo.
− Datemi solo cinque minuti e vi faccio accomodare.
Quando sto per richiudere la porta alle mie spalle, con la coda dell’occhio scorgo Alessandro sbucare dall’angolo.
2.
Capisco quasi immediatamente che l’abbigliamento dei due sconosciuti ne rispecchia il carattere. Quello più alto, distinto nel suo abito blu, si muove con fare sinuoso, accompagnando ogni gesto con grazia ed eleganza. Dell’altro non riuscivo a distinguere le forme, goffamente celate da un paio di vecchi pantaloni scoloriti alle ginocchia e un buffo giaccone a quadri: mal rattoppato e con bruciature di sigaretta qua e là.
− Accomodatevi − dico.
− Perché? − mi risponde il primo.
− Non vorrete mica aspettare alzati!
− E perché aspettare quando possiamo risolvere velocemente la questione?!
Il tipo tarchiato resta in silenzio. Lascia che sia l’altro a portare avanti la conversazione.
− Direi quindi di andare subito al sodo, dico bene Nort?
− Benissimo! E aggiungerei di non perderci in inutili convenevoli. − grugnisce.
− Non essere sciocco! A volte, i convenevoli sono fondamentali.
Li ascolto senza riuscire a dir nulla: solo cercando di dare un senso al loro scambio di battute. Ciò che è certo, però, è che cominciavo a sentirmi come braccato in casa mia, messo al muro. Non ho idea di chi siano questi due né tantomeno cosa vogliano.
Vinco l’incertezza.
− Se è così − dico − in cosa posso esservi utile?
− Che ti avevo detto, Nort?! – fa l’elegante, non contenendo l’entusiasmo − Sapevo che saremmo stati fortunati, oggi!
− Io sono fortunato sempre − risponde l’amico, aggrottando la fronte.
− Mi chiamo Mister Gin. Lui è il mio socio in affari, ma prima di tutto amico. Siamo impresari alla ricerca dell’idea giusta per finanziare uno spettacolo.
− Che genere di spettacolo?
− Oh! Di ogni genere, amico mio. Recitazione, canto, drammi e tante luci quante non ne avete mai viste.
− Luci che dovrebbero illuminare ben altro. − bofonchia Nort.
− Le luci, caro Nort, illuminano ciò che il pubblico vuol vedere.
− Appunto. Forse dovrebbero illuminare le zone d’ombra.
− Non mi sembra questo il luogo per tali diatribe. Ti prego di tacere le tue considerazioni così da non infastidire il nostro ospite.
Li guardo confuso, eppure incantato. Le loro pose e il ritmo delle battute farebbero pensare a due pronti a litigare. Ma gli anni passati a osservare le persone andare e venire da questo studio mi erano serviti a riconoscere le pantomime, anche quelle meglio recitate.
− Mi taccio − conclude, infine, il tarchiato.
– Finalmente! – esulta l’elegante − Come le stavo dicendo, prima di essere volgarmente interrotto, vogliamo metter su uno spettacolo in grado di attrarre il pubblico. Qualcosa che lo faccia accorrere numeroso e che lo lasci sconcertato. Niente che abbia a che vedere con emozioni istantanee o per cui basti una breve e leggera attenzione. No. Vogliamo uno show totalizzante, che attiri la folla e che la catturi; che la costringa a riflettere seriamente su quanto accade in pista, oppure che la trattenga sugli spalti, inchiodata da una cieca curiosità, pur non capendo nulla di ciò a cui sta assistendo.
− Mi scusi − dico io − non ho capito l’ultima parte.
Mister Gin ride.
− Ha ragione. A volte mi faccio prendere…la lingua.
Dunque.
La cosa è molto semplice.
Ormai gli spalti sotto lo chapiteau sono sempre più vuoti. Ci serve un’idea. Ci serve che la psicologia entri all’interno dello spettacolo perché solo così esso potrà stimolare menti ormai addormentate.
− Penso di non aver ancora capito.
− Oh accidenti! − prorompe Nort – Questo è uno studio di psicologia. Noi cerchiamo la psicologia. Dove vuoi che la andassimo a cercare? Al mercato?
− Sta zitto, Nort!
− Sto zitto.
Mentre quella diatriba procedeva, io consideravo il da farsi. Potevo semplicemente non dare alcuna disponibilità, inventare una scusa e tanti saluti; d’altronde chi li conosceva quei due: magari non erano chi dicevano di essere. Magari erano impostori in cerca di guadagni facili o, peggio, complici di una qualche compagnia che voleva mettere le mani sullo studio per rubare i clienti. Potevo lavarmene le mani e passare la patata bollente ad Alessandro: in fondo io ero solo un segretario che faceva accomodare le persone in sala d’attesa prima di smistarle agli psicologi. Ma decisi di seguire la terza via. Una via che non avevo ancora considerato fino ad allora e che, nonostante tutte le incertezze e i rischi che ne sarebbero conseguiti, mi sembrò l’unica possibile. Valeva la pena seguire quei due, ovunque mi avrebbero portato.
− Il mio studio è a vostra disposizione.
Mentii. E la cosa mi elettrizzava.
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