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Il figlio della farmacista

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A volte un caso diventa un pensiero fisso, un’ossessione che occupa la mente come un ingombrante mazzo di chiavi nelle tasche, qualcosa che
devi portarti dietro per forza, ma di cui ti sbarazzeresti volentieri. Sono le storie che turbano le persone semplici, come Antonio Benciveglia, poliziotto per vocazione e uomo votato unicamente alla famiglia e al suo capo, il commissario Maria Laura Serralta. Insieme, i due si trovano a indagare sulla morte di Francesco Bianchi, il figlio della farmacista del paese, ritrovato nel letto della fidanzata con un foro di proiettile nella nuca.
Mentre uno scomodo passato torna a tormentare il commissario Serralta, le indagini si aggrovigliano al quotidiano e pacifico rimestare delle chiacchiere e all’intreccio di conoscenze altolocate, fra i riti, i vezzi e i pregiudizi della provincia italiana, dove apparentemente non succede mai nulla. Beghe piccole e grandi, ombre, misteri e dubbi si accavallano in un giallo che forse non è un giallo. A partire dal primo, e forse più inquietante enigma: siamo davvero sicuri che il ragazzo sia stato assassinato?

PROLOGO
Nessuno sembrò accorgersi del passaggio dell’auto civetta
tra le stradine del centro storico: era una Fiat Brava grigio
metallizzata, prima serie, diventata con gli anni talmente

riconoscibile da essere usata, ormai, solo per gli spostamenti.
La mattina del 7 marzo, poco prima delle otto, il piantone di

turno in ufficio aveva ricevuto una chiamata dal 113, e
senza perdere tempo aveva immediatamente telefonato alla
dottoressa Maria Laura Serralta, conosciuta da tutti come
“il Commissario” – in verità, il titolo corretto sarebbe vicequestore;

ma vi pare possibile chiamare una persona “vicequestore”?!
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Meglio commissario o dottoressa. E lei aveva
spedito subito due dei nostri sul posto, oltre che chiamare
me, come sempre.
Mi presento: sono e mi chiamo Benciveglia Antonio, da
Carano, provincia di Caserta. Anni quarantasei, diploma di
ragioniere, sposato con Angelici Santa. Figli: una, Antonia,
detta Ninetta, sedicenne. Sono tutt’ora sovrintendente della
polizia di Stato, in forza dal 1996 presso il commissariato di
pubblica sicurezza di Roccanuova, paese di ventimila anime
(più o meno) rassegnate in una terra di mezzo eternamente
irrisolta e in bilico tra il Mezzogiorno e un indefinito Centro
Italia. Nelle mie note personali si legge: “nessuna particolare
simpatia politica, ligio al dovere”. Si potrebbe anche aggiungere:

gambe irrimediabilmente storte e corte, faccia antica da
cafone zappaterra – di cui, modestamente, vado orgoglioso
–, molti capelli bianchi e nessuna ambizione. Aspiro a vivere
tranquillo, se possibile, a una bella vecchiaia senza pensieri e,
se Dio vuole, senza malattie invalidanti. Spero di andarmene
così come sono venuto al mondo, involontariamente e inconsciamente. Unico vizio: la lettura; soffro di bulimia da libri.
Conosco le vicende che sto per narrare perché vi ho partecipato personalmente.

CAPITOLO UNO
In silenzio, superata la piazza detta “degli Orti”, ci infilammo

nei vicoli dietro la muraglia dei palazzetti che la delimitano e

che rappresentano il cuore del centro storico di Roccanuova,

vale a dire la parte più vecchia del paese.
In piazza, ai bordi della rotonda centrale destinata ai pedoni e
rialzata rispetto al nastro d’asfalto mezzo dissestato della strada,

tra le fioriere fatte risistemare da poco dal comune e già infestate

da erbacce e rifiuti, una decina di donne provenienti dalla
campagna esibiva in bella mostra nei cesti la prima insalatina di
marzo, la cipolletta fresca e gli immancabili broccoletti.
Era una mattina qualsiasi: un primo annuncio di primavera
rendeva l’aria allegra, smossa appena dal cicaleccio delle

ambulanti e delle clienti. Un paio di pensionati, ciondolando

indolenti tra i cesti con finta aria di superiorità, confidava nelle
chiacchiere per dare colore a una giornata altrimenti desolata.
La notizia, inaspettatamente clamorosa e sapida, sarebbe
arrivata poco prima di mezzogiorno, quando anche l’ultimo
dei nonnetti si arrende all’idea di tornare a casa e le donne
iniziano a risistemare l’invenduto, pensando al pranzo.
A farne annuncio, affrettando il passo claudicante, ci
avrebbe pensato Maria, la vecchia e fedelissima serva dei
Sarti – quelli dei magazzini alimentari, dei molini e quant’altro –,

la depositaria dei segreti di famiglia e, si diceva, l’unica persona

che avesse voluto vicino la matriarca – la signora
Iole – al momento della morte, avvenuta più o meno un mese
prima.
Imboccammo prudenti via della Nunziatella, una stradina defilata

e silenziosa, larga appena quel tanto da consentire il senso
unico. Dalla piazza del mercato giornaliero delle verdure ci era
bastato girare l’angolo per ritrovarci stretti tra muraglie di mattoni,

balconi occhieggianti e portoni schierati come tanti fanti
a difesa dell’intimità dei padroni, interrotti di tanto in tanto da
viuzze sfocianti in altre strade e in altre vite. I richiami delle

ambulanti si erano spente, come grida di bambini richiamati

all’ordine da un maestro severo, insieme a quel poco di calore solare
che non riusciva a penetrare oltre l’imbocco della via.
In basso, sotto uno dei palazzetti esalanti umidità e vecchie
storie di paese – l’unico beneficiante di un minimo slargo
dove poter lasciare la macchina in sosta – avevamo trovato
una ossequiosa ragazza mora, bassina, sui vent’anni e nervosa
quanto necessario, se non altro perché piantonata da Luciani,
uno dei nostri, da poco tempo assegnato all’ufficio e arrivato
per primo con una collega.
La facciata di Palazzo Sarti si presentava elegante e pulita,

con la targa del Rotary a indicarne il patronimico e l’epoca

di costruzione, e un’altra, più discreta, indicante invece la
presenza nello stabile di uno studio notarile. Al piano terra,
separate dal portone imponente, due vetrine accoglievano
le grandi firme dell’outlet delle sorelle Mari, proprietarie di
boutique di lusso sul corso di Roccanuova. Dai due negozi non
v’era alcun accesso diretto all’androne né al cortile interno,
recante al centro l’ingresso allo scalone principale.
Luciani aveva già stilato una prima lista delle persone presenti

nel palazzo. Il primo piano risultava occupato dalla famiglia Sarti,

commercianti già da svariate generazioni e con
qualche gloria alle spalle a giustificare le ambizioni presenti:
un ex senatore della passata legislatura – di destra, ovviamente –

e un quasi vescovo.
Al secondo piano si trovavano l’appartamento dove prestava

lavoro la ragazza che ci aveva chiamato e lo studio notarile,
prestigioso ma ancora chiuso alle nove del mattino. Il terzo,
invece, era disabitato – sfitto, come precisò la giovane.
Capitolo uno Il figlio della farmacista
17
Luciani ci fece strada su per la scalinata, fino a guidarci

all’appartamento sorvegliato dalla collega, e poi verso la
stanza da letto della padrona di casa, la signorina Giulia Villabuona

, unica figlia dell’onorevole Vittorio Villabuona, seconda

legislatura di fila alla Camera, già sottosegretario alle
Politiche Agricole e Forestali, nonché sindaco e consigliere
regionale.
Un fischio e una parolaccia, pensata e non pronunciata, mi
partirono spontanei, incontenibili. Mi sembrò anche di scorgere

negli occhi del Commissario un lampo di malizia e subito
dopo, dell’imbarazzo.
Dopo tre anni di calma piatta – tanto era passato dall’insediamento

della dottoressa Serralta – e di tempo sprecato a
riprendere per i capelli i quattro tossici storici del paese e i
trentenni rampanti in cerca del Paese dei Balocchi, un morto

ammazzato altrove e fatto trovare nudo in casa della bella del villaggio

poteva diventare una svolta alla carriera, un
trampolino verso altre sedi e altre cariche. Ma non per lei, no!
Non è nel costume del Commissario giovarsi delle disgrazie
altrui. Doveva essersene resa conto subito anche lei, ecco
perché, leggendo la lista di Luciani, aveva storto le labbra in
una smorfia stentata e nervosa, immediatamente dissimulata
dai primi ordini: «Vai a chiedere ai Sarti di attendermi in casa
e senti questa… Maria? Sì, Maria. Io chiamo i colleghi della
scientifica e faccio avvisare la procura».
La dottoressa si muoveva con apparente disinvoltura, senza
lasciarsi impressionare – al contrario mio e degli altri colleghi –

dall’eccezionalità del momento: era da molti anni che
non capitava un caso così evidente di omicidio. A quanto ne
sapevo io, l’ultima morte violenta a Roccanuova risaliva alla
fine degli anni Settanta, ed era stata accidentale, durante una
lite tra fratelli. Ma il lavoro, in ogni caso, va fatto sempre bene
e subito: “Per il tuo decoro personale, Antonio, indipendentemente

se c’è qualcuno a controllare e dal profitto” era il mantra ripetuto

in continuazione in ufficio. Invece io mi sentivo
propriamente a disagio, e non lo nascondevo.
«Antonio, che succede? Ti vedo nervoso, non mi dire che
hai paura dei cadaveri!»
«Ma quando mai, dottorè. Al paese ne ho vestiti tanti, con
zia Lucia, figuriamoci! No, non è il morto… è ’sto profumo, la
casa, tutto l’insieme. Dottorè, qua girano soldi assai!»
In effetti, l’odore dell’appartamento e della stanza era stata

la prima cosa che aveva colpito anche la dottoressa. L’abitazione

di Giulia Villabuona sembrava pronta per un servizio di una rivista

d’arredamento, ma non si avvertivano gli
odori soliti di una casa, né v’era segno del vissuto di persone.
Anche le stampe alle pareti e i cuscini sul divano avevano
un’aria impersonale, quasi fossero stati messi lì da qualcuno
delegato ad arredare l’ambiente secondo standard predefiniti e

non frutto, per esempio, di viaggi o di ricordi felici. Solo
alcuni libri universitari – su di una mensola in una stanza
con scrivania –, due poltroncine, un portatile e una piccola
stampante tradivano la presenza di una studentessa.
La dottoressa si era messa in un angolo della camera da letto

e guardava il ragazzo.
Il gran pezzo di marcantonio, riverso bocconi sul lato sinistro

del letto di Giulia Villabuona, se ne stava con le braccia
aperte ad abbracciare i cuscini, come se fosse crollato esausto
dopo una nottata di battaglie e soddisfazioni.
Era chiaro però che le cose non erano andate così, e che il
ragazzo non aveva dormito lì né vi era stato sorpreso indifeso,
nel sonno, come la messinscena – perché di questo si trattava,
dopotutto – intendeva suggerire.
Non c’era sangue sulle lenzuola perfettamente pulite, almeno

per quello che era possibile vedere, e nessun segno di
colluttazione evidente: il lenzuolo e il copriletto erano stati
semplicemente spostati in fondo, non erano spiegazzati e

neanche un po’ maleodoranti, come è naturale che siano quando
li usi davvero (perlomeno, questa è la lamentela di Santina,
che li gira e rigira ogni santo giorno, tenendo stipate da

qualche parte le lenzuola di lino di Ninetta – e ancora non

ho capito a cosa le serva il corredo).
Il letto, chiaramente, non era stato usato. Non quella notte,
almeno. La scena era troppo pulita, come pulito era il piccolo
foro di proiettile sulla nuca del ragazzo, appena nascosto dai
capelli cortissimi. Solo un sottile rivolo scuro era scivolato
lungo il collo e si insinuava verso il basso, a turbare la compostezza del corpo.
«Antonio, hai ragione, è strano. Sento un odore di… sembra
limone, sicuramente è un detergente, e di… fiori, rose… Non
sento l’odore della morte, però.»
Ecco! E qual è l’odore della morte? I morti che avevo visto io
erano tutti trapassati per malattia o vecchiaia, esalavano lezzo
di medicine e di frutta troppo matura, ma un ragazzo così

giovane e a cui avevano sparato, non avevo idea di quale

odore dovesse avere. Forse avremmo dovuto percepire polvere da sparo
o, che so, un sentore di sudore. Invece, niente di particolare:
solo un’insistente e indefinita mistura di limone e fiori.
Mi ritrovai a cercare con gli occhi uno di quei contenitori
che spruzzano profumo ogni tanto, un deodorante per l’ambiente,

ma dalle prese della corrente non spuntava niente, e
sulla cassettiera posta di fronte al letto c’erano solo due statuine,

una scatola con collanine e poco altro.
Con due dita avvolte in un fazzoletto, la dottoressa aveva aperto

un cassettino di uno delle due specie di cubi – facenti funzioni di

comodini – situati accanto al letto di Giulia Villabuona,
prelevandovi un bigliettino piegato in quattro. «“Ti prego di
una risposta, anche un non liquet ma non l’odiosa indifferenza
e l’indice puntato.”» Il Commissario ne aveva letto il contenuto
a voce alta, prima di ripiegare il foglietto e riporlo con cura dove
lo aveva trovato, quasi scusandosi della sua intrusione. «Forse
è un pezzo mancante di maggiori argomentazioni, un appunto…
Antonio, questo poi lo prendiamo, ricordami di chiedere spiegazioni

alla padrona di casa. Anzi, prendi nota.»
«Perché, dottorè? Che significa non liquet?»
«È una formula giuridica, mi pare che stia a indicare quando

non ci sono gli elementi per decidere. Poi controllo meglio,
non mi ricordo bene… Mi incuriosisce, tutto qui…»
20
Per mia buona pace, la dottoressa mi spiegò che le due sfere
bianche posate sui due cubi accanto al letto avevano un nome
proprio, si chiamavano nientedimeno che Castore e Polluce,
e si trattava di oggetti di design rinomati. Non erano come i
due lumini che avevo in casa, sistemati da un’amica di Santina

– «Shabby, Antò, vanno di moda, si dice shabby…». Pure
il lampadario che pendeva al centro del soffitto della stanza
era un’opera firmata da un tale piuttosto famoso – chi fosse,
però, l’ho dimenticato subito, tanto non serviva alle indagini.
A detta del Commissario, da soli, lampadario e lumini valevano

quasi quanto il mio stipendio mensile.
«Dottorè, pure senza la scientifica, io dico che questo l’hanno

sparato da qualche altra parte e poi spogliato e messo qui
già nudo» mi ritrovai a sentenziare, dopo aver girato attorno
al letto per la terza volta, stando attento a dove posavo i piedi.

«Vedete, è evidente che le lenzuola non siano state usate.
Sono sicuro che il morto non ha dormito qui.»
«Antonio, che scoperta hai fatto! Bravo, complimenti, non
me ne sarei mai accorta da sola… Cammina, va’, vai a sentire la

vecchietta, poi parliamo con la filippina e i Sarti, hanno
aspettato abbastanza.»

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Commenti

  1. sharaba

    (proprietario verificato)

    Il figlio della farmacista, un mondo dove si è conosciuti per la nomea di un genitore, poco lascia spazio a percorsi individuali, se non si ha molto coraggio. Il titolo intrigante di un giallo, la comparsa di un cadavere che rompe l’apparente tranquillità di un paese, diventa pretesto per far emergere quelle figure minori, corali, comuni che non avrebbero mai voce nella narrativa classica. Raccontano verità sussurrate a mezza bocca e in pubblico negate, di tradizioni e di quei buoni sentimenti che sembrano persi, nei personaggi caricaturali. È lo spaccato d’ l’Italia: una grande Nazione… provinciale, dove la lotta per la meritocrazia ha sempre parenti scomodi se si vale, che oscurano autentiche brillanti carriere. È un Barnaby nostrano dalla lettura leggera, rilassante, agile, ed elegante per un’estate afosa, lasciando fuori grandi drammi, pur nell’apparente veste di thriller, senza violenza e sangue, nonostante la morte misteriosa di un ragazzo. Mi restano dentro pensieri positivi per un bonario: “Lasci campare”. Il male, per una volta, resta fuori e lontano.

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Mirella Marchione
MIRELLA MARCHIONE è nata e vive da sempre a Sora (FR). Avvocato civilista,
sposata e con due figli, racconta nelle sue storie la vita e gli umori della
provincia italiana dove vive, fra le mille suggestioni dei romanzi che divora
con passione. Il figlio della farmacista rappresenta il suo esordio letterario
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