Visto da lontano il bosco è un pugno chiuso e la nostra casa non esiste.
La neve spinge contro la porta, non mi lascia uscire. Salto dalla finestra. La luce della stalla è accesa ma di Marì nemmeno l’ombra. La chiamo in direzione del bosco e il suo nome torna indietro vuoto.
Controllo sul tetto, in cantina, nel retro. Non può essere lontana. Batto i dintorni e ogni tanto sento la sua risata arrivare da dietro le spalle ma è sempre e solo il vento, un vento obliquo che tira sempre più forte, quasi volesse portarsi via anche me.
Spalo per ore. A ogni tonfo di neve, mi volto ma non è lei. I muscoli del mio corpo sono sempre più caldi, le dita delle mani e dei piedi invece non rispondono più ai comandi.
Torno a casa nella speranza di un suo ripensamento. In fondo, per nessuna ragione lascerebbe la casa che ha cercato per anni prima di abbandonare la città.
Nelle stanze tutto è immobile. Riempio la vasca da bagno di acqua bollente, m’immergo e mi addormento senza peso.
È mattina, dalla finestra filtra la luce bianca del sole invernale. A svegliarmi però è il caldo del sangue che cola dalle labbra che ho sbattuto contro la vasca durante il sonno. Nell’acqua, un dente: il mio ultimo dente da latte.
Mi rivesto e mi precipito nella stanza di Marì, la porta è spalancata perché da ieri nessuno è più entrato né uscito da qui. Infilo il dente in tasca.
La neve non smette di cadere da giorni, solo il ruscello continua a scorrere senza darle retta.
Ricomincio a spalare, con le mani dentro guanti di cuoio a proteggere i calli. La pala affonda nella neve, morbida e asciutta. Sono sempre più rapido, ma di colpo si blocca. Qualcosa, nel sottosuolo, la respinge. Inizio a scavare con le mani, finché non emerge una sagoma scura.
Trascino Marì in casa e resto seduto con il fiato corto come se avessi corso per ore. La scaldo. La prendo a calci e a pugni. Ma è testarda e non riprende a respirare.
Il ghiaccio si scioglie e allenta la morsa dal suo corpo, il suo viso invece resta incastrato in un sorriso. Tutto si fa lentamente più liquido tranne il mio sguardo.
Mi chiudo in camera, le do tempo, forse deve solo pensarci un po’, prima di tornare da me.
È buio, è quasi notte.
Esco e scavo una buca.
Avvolgo Marì in una coperta di lana, afferro due lembi e tiro con tutte le forze. Niente, non si muove.
Mi siedo, punto i piedi e spingo con le gambe contro il grande bozzolo che comincia a scivolare sulla neve.
La buca non è profonda ma a me sembra senza fondo. Chiudo gli occhi, non ho il coraggio di guardare. Un ultimo colpo di gambe e il suo corpo se ne va.
Cerco nella tasca il dente e lo lancio laggiù. La neve lo ricopre e copre anche Marì, che è lontanissima ormai. Nessuno sa più dove.
Mentre cado all’indietro, prima di svenire, mi accorgo che il bosco è scomparso ed è la prima volta, da quando sono nato, che resto solo al mondo.
***
Il bosco è pieno d’impronte, centinaia d’impronte solo mie.
Nonostante la solitudine del corpo, questo labirinto di alberi mi tiene con sé, sa proteggermi. Vorrei perdere la strada di casa e rimanere intrappolato qui.
Appoggio la schiena a un tronco e scivolo verso terra. Mi sdraio solo per un attimo.
Ho sonno. Fame e sonno, ma devo rimanere sveglio per non morire assiderato.
So che mia madre, quella vera, mi ha partorito qui. Che qui ha gridato il suo dolore per avermi creato e perso nello stesso istante. Così diceva Marì.
La notte passa, non si muove niente fino a mattina, quando la suola di uno scarpone mi strattona un fianco.
Apro gli occhi e vedo un gigante con la faccia pallida.
Sei morto?
Ti pare?
Credevo fossi morto. Michele. — dice lo spilungone allungando la mano per presentarsi.
Ti sei perso?
No, e tu?
Io abito qui.
Nel bosco?
Michele indica la punta di un campanile che spunta tra gli alberi.
Mi rialzo a fatica e anche lui capisce nello stesso istante che ho rischiato di morire assiderato.
Sai giocare a basket? — chiede mentre lancia in un canestro fantasma un pallone fantasma.
No.
Mi aiuta a rialzarmi. Sento il sangue tornare a scorrere nelle gambe. Lentamente.
Camminiamo senza chiederci altro.
La luce improvvisa è segno che il bosco è finito. Passiamo davanti a un cancello. Lui tira dritto, io no.
Vieni? — mi chiede indicandomi la direzione apposta.
Cos’è? — chiedo continuando a fissare il cancello.
Il cimitero, ci vivono i morti.
Io entro e lui mi segue continuando a giocare nell’aria.
Conosci qualcuno? — Mi chiede.
Mi guardo attorno. — Vedi nessuno?
Intendevo se ti è crepato qualcuno.
No.
Michele non sa che dopo Marì lui è la prima persona che incontro nella vita. Guardo il suo naso lungo e storto e ripenso a quello di Marì che usciva rapido dal suo viso per darle una traiettoria lineare da cui guardare.
Risalendo quella curva, trovo due occhi minuscoli e vicini: forse i giocatori di basket ne hanno davvero bisogno per arrivare a canestro.
Mi volto, cerco la nostra casa isolata in cima alla collina. Il bosco è così fitto, da respingere chiunque, tranne mia madre, che è la sola che sia arrivata quassù in tutti questi anni.
Lei e Marì non si erano mai incontrate prima di quel giorno in cui, dodici anni fa, mi ha partorito lasciandomi tra le sue braccia. Le sue grida hanno guidato Marì fin qui. Ha tagliato lei il cordone ombelicale e con le mani insanguinate guardava mia madre cercando di calmarla. In fondo, aveva fatto nascere un mucchio di animali e io ero soltanto uno in più.
Mia madre promise che sarebbe tornata. Da allora nessuno l’ha più vista.
Sono cresciuto con Marì, è tutto quello che so. Me la sono tenuta senza discutere, in fondo lei aveva fatto lo stesso con me.
Non ho mai lasciato quel bosco, non perché me lo avesse vietato. È che a me andava bene così.
Ho portato con me i suoi occhiali, quelli che ha avuto in eredità da suo padre, perché lei un padre l’ha avuto.
Era muratore. Costruiva case e lei lo guardava seduta in un angolo del cantiere. Ogni volta che ne finiva una, lei pensava alla loro, quella casa di cui proprio lui, suo padre, non si occupava mai. La lasciava invecchiare senza esserne turbato.
La mamma di Marì lavorava in una stireria all’angolo di una piccola piazza. A differenza del marito, era taciturna, ma quando il proprietario la lasciava sola, cantava a squarciagola. A casa invece non cantava mai.
Gli occhiali di Marì sono neri, con lenti grandi e consumate. Vedo tutto sfocato, i suoni cambiano e tutto sembra improvvisamente più vicino, come la ghiaia di questo cimitero sotto le suole dei miei scarponi.
Davanti a me, una lapide di marmo. Intuisco la scritta: Vittorio Massa. Ma solo quando li tolgo, riesco a vedere a fuoco, la fotografia di Vittorio il vedovo.
Era fortunato — dice Michele.
Questa — continua indicando la donna nella fotografia accanto — era sua moglie. È morta troppo tempo fa, altrimenti me la sarei sposata.
Michele si sposta tre tombe più avanti.
Il prete e sua madre. Più prete la madre del prete.
Michele lascia il cimitero, io resisto ancora per un po’. L’odore rancido dei fiori mi fa venire voglia di conoscere tutti i morti in silenzio sotto di loro.
Passiamo accanto alla stazione del treno. Ci sono due porte a vetro, l’entrata e l’uscita. Nel mezzo, c’è la sala d’attesa con sedili di legno scuro. Oltrepasso l’uscita. Il binario è uno solo, non ci si può sbagliare.
Seduta fuori al freddo c’è una donna.
Sta sempre seduta lì.
Sempre?
Controlla chi viene e chi va. Ma è invisibile.
In che senso?
Non la vede più nessuno ormai.
I treni passano, ma lei non alza la testa. A guardarla però sembra convinta che quello sia il posto giusto dove aspettare. Indossa uno, due o forse tre cappotti per resistere al freddo. Si difende come può anche dagli occhi della gente che parla di lei.
L’hai persa? — chiedo a Michele.
Cosa?
La palla.
Michele ride. Ecco un sorriso maschile. Quello di Marì era più rapido, più chiuso. Il suo invece sembra avere l’apertura alare di un falco che plana sulla preda.
Dove giochi?
Nella Nazionale.
Allora non scherzi.
Ho fame. Andiamo?
Non ho più una casa, Marì è morta e io invece sono ancora qui.
Conosco bene l’inverno. Per me era divertente sfidarlo, anno dopo anno. Anche se, più crescevo, più la cattiva stagione mi sembrava diventare interminabile. Ma la tua morte, Marì, è più dura di qualsiasi freddo mai sentito prima.
Devo andare.
Mangi e poi vai.
Non so dire né sì né no.
Andare dove? — mi chiede Michele tentando un lancio lunghissimo.
Mi aspettano — rispondo senza aggiungere altro.
Michele mi riempie di domande anche se non gliene frega niente delle risposte. Forse la velocità è il suo vero talento.
Guardo il bosco da lontano, lo sento schiudersi. Quasi m’incoraggiasse a lasciarmi dietro le spalle l’albero sotto il quale sono nato, custodito dalla sagoma del mio corpo dove sono rimasto sdraiato per tutta la notte.
Quella sagoma è il fossile di un animale morto di fame o di freddo o di solitudine. Un animale ferito che ha fissato lì la sua infanzia per sempre.
***
È una grande casa di legno.
Michele apre la porta, toglie gli scarponi e li appoggia sugli scalini all’ingresso. Mattia si muove dietro di lui in leggero ritardo, quasi fosse la sua ombra.
È Capodanno. Michele sfila dallo zaino le pigne ancora innevate e le conta ad alta voce. È tradizione raccoglierne tante quanti i buoni propositi per l’anno nuovo e bruciarle a mezzanotte nel camino. Piccoli rimedi per la felicità.
La madre scola la pasta e fissa Mattia.
Lui è… — solo allora Michele si accorge di non sapere il suo nome.
La madre maledice con gli occhi il volume della tv.
Il padre si volta di scatto e gli chiede: — E tu?
Era nel bosco — risponde Michele sostituendosi a Mattia.
È vero? — domanda il padre.
Mi sono addormentato. — risponde Mattia.
Il padre si alza in piedi: se Michele è un gigante, lui è il gigante di un gigante. Gli tira un colpo sulla schiena, lo invita a tavola e gli versa del vino.
Silvia. — sussurra qualcuno dietro le sue spalle.
Si volta e vede una bambina.
È pronto — grida la madre.
Tutti parlano. Forse nessuno per davvero.
Il padre spegne la tv.
Mattia mangia senza alzare lo sguardo dal piatto e pensa che Michele gli abbia salvato la vita.
Che ci fai qui? — gli chiede la donna.
Cerco mio padre. — risponde secco, ma non appena finisce di pronunciare quella parola si stupisce di averlo fatto. Non sta cercando nessuno, tanto meno suo padre.
Come si chiama? — chiede il padre di Michele.
Giovanni.
Quando l’hai visto l’ultima volta? — continua la donna.
Un anno fa — risponde infilando una bugia dietro l’altra.
Dove vivi? — insiste lei.
Domani vado in città. Festa per l’anno nuovo con la squadra — interrompe Michele, percependo lo stato d’assedio contro Mattia.
Verrai? — chiede alla sorella.
No, ma scendo con te.
Il padre riaccende la tv. Con lo sguardo fisso sullo schermo che macina immagini senz’audio, ride come se potesse sentire le battute. La madre continua a studiare Mattia senza parlare. Forse conosce la sua storia, sa chi è sua madre o ha la certezza che suo padre non sia mai esistito. Oppure, più semplicemente, gli ricorda qualcuno, un amico, d’infanzia, un compagno di scuola. Ma più si guardano, più Mattia pensa che lei stia aspettando che lui dica la verità.
Sono un duro. — pensa Mattia mentre la sua testa ripete in continuazione Marì, Marì, Marì, quasi fosse l’unica cura per l’abbandono.
In questa famiglia così numerosa si sente scomodo. Più di due, per lui è tanto. Troppo.
Una casa è il luogo perfetto in cui vivere solo se riesci a dormirci bene di notte. La sua era sempre stata perfetta.
È mezzanotte. Le pigne bruciano nel camino e domani andremo in città. Questo il primo pensiero del nuovo anno.
***
Si muovono tutti come fossero i legittimi proprietari della città. Anche Michele cammina sicuro sul marciapiede innevato mentre va all’allenamento di basket.
Silvia afferra la mia mano e mi trascina con sé, come se il mio corpo fosse improvvisamente diventato suo.
Il tram ci sfiora ma lei è tranquilla, non si spaventa per quel rumore secco e acuto che fa mentre si sposta da una fermata all’altra.
Punta il dito sul citofono di un palazzo.
Sì? — chiede una voce sgranata.
Silvia — dice lei.
Il portone si apre.
L’amica abita al quarto piano. Silvia preferisce le scale all’ascensore. C’incrociamo al primo e al secondo ma io e l’ascensore rosso siamo più veloci.
Sul pianerottolo ci sono tre porte, una è semiaperta. Qualcuno aspetta nella penombra, un passo in avanti e l’esile figura di una ragazzina prende il suo posto.
Silvia è piegata, una mano sul corrimano e l’altra sul ginocchio. Riprende fiato, le manca solo un piano per raggiungerci.
Esco dall’ascensore e la ragazzina mi sorride senza sorridere. Una piccola cicatrice sopra l’occhio sinistro, le dita delle mani rilassate che puntano verso terra, arrese alla forza di gravità.
Come un cowboy che sa di avere solo un ultimo colpo in canna, sfilo gli occhiali di Marì dal mio cinturone. Osservo con attenzione le particelle più piccole dell’oggetto sfocato davanti a me: la ragazzina.
Cerco di capire perché il mio muscolo cardiaco ha iniziato a galoppare e si fa largo tra le ossa della gabbia toracica tentando la fuga.
Mi tolgo gli occhiali e tutto torna a fuoco. Retrocedo piano per cercare di ricreare ordine ma la ragazzina si avvicina. Mi cadono gli occhiali, li lascio a terra e corro via veloce fino a sparire tra le curve della scala. Sono fuori ma, non appena tocco il marciapiede, svengo.
Tutt’attorno, la pretesa del mondo di volermi fermare.
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