PROLOGO
I fiori velenosi sono così affascinanti, sembrano chiamarci con la loro fatale bellezza. Come le Sirene di Ulisse che “sedendo in un bel prato,/mandano un canto dalle argute labbra,/che alletta il passeggier”. L’essenza di quel fascino è il profumo del proibito, e la pericolosa natura che li ha generati li rende tanto desiderabili da nascondere la morte che si portano dentro. Coloro che si avvicinano, non riescono a scappare, prigionieri per sempre di quel canto mortale. “D’ossa d’umani putrefatti corpi,/e di pelli marcite, un monte s’alza.”
Sono Sirene immobili, sui prati verdi, che incantano con la loro melodia di colori.
Tu veloce oltrepassa…
1. LE SIRENE
APPENNINO TOSCO-EMILIANO, GIUGNO 1998
Era silenziosa quella sera d’inizio estate. Si erano fermati gli uomini e le altre creature del giorno, mentre quelle della notte iniziavano, poco alla volta, a cantare la loro melodia. La brezza che scendeva dai monti circostanti rinfrescava rapidamente la terra, e portava con sé l’odore dell’erba tagliata di fresco e tutti gli altri profumi della campagna, tanto intensi da fare più rumore del torrente che scorreva veloce a fondo valle.
I profumi portavano i ricordi, così tanti che la testa di Flavio quasi non riusciva a contenerli. Sembrava volassero via come sbuffi di vapore cerebrale, che, mischiati al fumo della marijuana, si perdevano nel vento che soffiava su quella valle remota.
Tra i tanti pensieri che la “maria” gli aveva messo in orbita nel cranio, ne afferrò uno a caso: una memoria sbiadita di un passato remoto: le Sirene di Ulisse.
Tu veloce oltrepassa.
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Flavio era forse l’unico criminale in tutta Roma capace di citare Omero mentre pianificava una rapina con la sua banda di balordi. Recitava Dante a memoria, e lui stesso scriveva, ma di nascosto, per non mostrare quello che i suoi amici avrebbero interpretato come debolezza. Era il cantore di un mondo violento che solo la sua poesia riusciva ad abbellire. Era un poeta sì, ma svelto quando c’era da sparare.
Tu veloce oltrepassa, pensava, quando attraversava la povertà della borgata e, a piedi, arrivava al suo liceo. Le stesse parole gli erano tornate alla mente tanti anni dopo, mentre tentava di raggiungere la macchina, attraverso una fitta sparatoria con una banda rivale.
Tu veloce oltrepassa, mormorò anche quella sera, portandosi alle narici un pugno di quell’erba appena tagliata e destinata a diventare fieno per l’inverno.
Sorrise malinconico e pensò che solo pochi mesi prima erano ben altre le cose che passavano da quel naso. La sua fervida fantasia, unita agli effetti della droga, lo portarono per un momento, a immaginare una vita diversa, in quel piccolo villaggio perso tra le montagne, ma pervaso da un’anima magica che sembrava sgorgare dalla terra, pura come acqua di sorgente. Pensò di vivere come non aveva mai vissuto, come uno qualunque, Flavio Angelucci, padre e marito. Si immaginò seduto alla guida di un trattore mentre arava la terra che avrebbe seminato. Si vide tornare a casa stanco la sera e dormire quel sonno che solo la vera stanchezza sa regalare.
Poi lo sguardo si fissò sulle sue mani. Non erano certe quelle di un agricoltore e pensò che in fondo, la sua nuovissima BMW fosse molto più comoda di un trattore e che la vita di campagna avrebbe potuto rovinargli il suo Rolex d’oro e i meravigliosi vestiti che amava indossare. E poi che c’entrava lui con quel posto di montagna? In fondo non era nemmeno di quelle parti, era nato a Roma, e a Roma lo chiamavano Er Cobra!
*
«Amore, amore corri! È successo qualcosa a Roma. Corri!» Flavio si girò di scatto, in una frazione di secondo l’effetto della marijuana svanì così come i suoi sogni bucolici e lui tornò a essere quello che era sempre stato: un predatore. La mente fredda e i sensi all’erta come un lupo nella notte, con la mano che d’istinto volò verso la cintura, dove era di solito appesa la sua fedelissima Glock. Ma il gioiello di metallo austriaco non era lì, non avrebbe potuto in quel posto magico che evocava solo pace e tranquillità.
Vide sua moglie Simona corrergli incontro, trafelata. «Amore, c’è il telegiornale! Hanno ammazzato il Mago! Hanno ammazzato il Mago!» gli urlò stravolta, eppure bellissima, con i suoi occhioni verdi sgranati e la paura che le alterava i lineamenti delicati.
Era il 17 giugno 1998. Una data che Simona non avrebbe più dimenticato.
Si diressero di fretta verso casa, la vecchia casa costruita in pietra, piccola ma accogliente. L’unico luogo in cui Er Cobra poteva essere veramente Flavio e dimenticare il mondo violento da cui proveniva. Ma quello che gli aveva anticipato sua moglie avrebbe cambiato tutto: non ci sarebbe stata più pace, nemmeno in quel luogo tranquillo.
Il loro bambino era seduto davanti alla televisione, troppo giovane per capire. Le sue manine piccole toccavano lo schermo proprio nel momento in cui scorrevano le immagini del corpo senza vita di Renato Pericolli detto Er Mago: il capo di una delle più potenti organizzazioni criminali che avessero mai operato a Roma da quando Romolo fondò la città.
Simona faceva la professoressa di italiano, era nata a Modena e aveva sempre cercato di restare lontana dagli affari del marito, però sapeva benissimo chi fosse Pericolli, e che quella morte inattesa avrebbe agitato con violenza il mare di traffici loschi della Capitale. In cuor suo Simona sentiva che qualcosa di terribile sarebbe successo alla sua famiglia, però non disse nulla a Flavio, che tradiva nei gesti una fredda preoccupazione. L’uomo non fece nemmeno in tempo a dire: «Mo so’ caz…» che squillò il telefono. Non ebbe bisogno di guardare il numero, sapeva già chi era e lo sapeva anche Simona, che prese in braccio il bimbo e se lo strinse al seno torcendosi i ricci neri, come faceva inconsciamente ogni volta che era agitata.
«Signor Goriani, sono Mario, il portiere. Sì, c’è un problema nel suo appartamento, dobbiamo chiudere l’acqua. Deve tornare subito.»
«Va bene, sarò lì appena possibile.» Flavio attaccò sospirando. Era Ivano Mancini, detto Er Palle, il suo gemello criminale e suo amico da decenni.
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