«Tuo padre è stato un vigliacco, River» continuava a ripetere ogni santissimo giorno come un mantra. E più lo ripeteva, più rafforzava la sua tesi.
Per tutta verità, non ho mai incolpato mio padre di aver trasmesso a Jonas l’Huntington, e neanche di avermi fatto abbandonare gli studi così presto, dovendolo poi sostituire nel suo lavoro da fornaio. Alla fine, come diceva mia madre, qualcuno doveva portare la pagnotta a casa e io credevo fortemente nel mio sogno di diventare un giorno uno scrittore di successo. Sì, è vero, potevo avere tutto il giorno libero: dovevo svegliarmi la notte alle due, salire in sella della mia bici e farmi quattro chilometri prima di arrivare a destinazione ed essere operativo fino alle undici del mattino, per poi tornare a casa fino al giorno dopo, sei giorni su sette, tutti i giorni – fatta eccezione per il mercoledì che era il mio giorno di riposo; ma, cazzo, tornavo a casa davvero esausto e dovevo anche sentire le continue lamentele di mia madre sulla nostra orribile esistenza. Voler intraprendere la carriera dello scrittore, quindi, mi sembrava come voler provare a scalare tutte le cime dell’Himalaya.
Ricordo ancora che alla messa per il suo funerale fui l’unico della famiglia a versare lacrime. Mia madre fu seria per tutta la cerimonia, non capivo bene se quel giorno avesse il diavolo in corpo, oppure avesse sempre mascherato bene l’odio per mio padre; mio fratello Jonas aveva solo sei anni e, dopo qualche tempo dalle analisi, si intravidero i primi sintomi di demenza e per lui fu come se papà non fosse mai morto davvero.
Si evidenziò una forte forma di ritardo mentale, tanto grave che iniziai sin da subito a vederlo con occhi diversi. Padre Jacob, che conoscevo dalla tenera età e al quale tenevo molto – sentimento da sempre ricambiato –, celebrò una funzione bellissima, rendendo onore a mio padre, che oltre a essere un lavoratore umile e onesto conosciuto da tutti in paese, era uno dei suoi più fedeli frequentatori della chiesa.
«Figliolo, ti piace leggere? Tieni questa, ti ho visto molto scosso in chiesa, potrà farti solo bene» mi disse porgendomi una vecchia Bibbia. «Mi dispiace non potertene dare una nuova, ma a questa tengo particolarmente, me la regalò un frate americano quando da piccolo visitai Assisi, in Italia, con mia mamma» aggiunse giustificandosi.
Gli risposi che adoravo leggere, che per la maggiore preferivo romanzi classici, che i miei idoli più grandi provenivano tutti dai libri e che Edmond Dantès era il mio eroe, ma gli nascosi che aspiravo a essere uno scrittore di successo.
«Ah, il conte di Montecristo è stato anche un mio eroe! Un grande capolavoro di Dumas» disse.
Presi senza esitare il piccolo volume e lo ringraziai, tornai a casa e lasciai la Bibbia sulla scrivania di camera mia senza farci troppo caso.
Non ebbi neanche tempo di elaborare il lutto che, dopo un giorno dal funerale, dovetti andare al forno per imparare a fare il pane. George Harris col tempo aveva instaurato un’amicizia fraterna con mio padre e mi prese subito a cuore dalla prima stretta di mano.
«Ragazzo, tuo padre per me era un fratello, un amico fidato, un valido collega. Anche se negli ultimi mesi lui ha avuto difficoltà nel lavorare, non mi è mai passato per la testa di andargli contro, gli ho sempre voluto un gran bene» disse Harris.
Mi spiegò che papà da un giorno all’altro aveva iniziato ad avere movimenti motori poco regolari, perdeva spesso il controllo dei suoi arti, gli cadevano le cose dalle mani, a volte gli tremavano le gambe ed era costretto a sedersi per alcuni minuti, oltre a crollare emotivamente e piangere come un bambino capriccioso. Era stato proprio lui a spingerlo a consultare un medico, perché quei comportamenti non erano normali e in un primo momento Harris aveva pensato che fosse stress dovuto a qualche problema in famiglia. Mio padre, però, gli diceva sempre tutto, e quella volta il collega non aveva idea di quali potessero essere i motivi.
Mi disse anche che, una volta ricevuto da Kenneth il risultato del test, lui e mio padre avevano nascosto al signor Clifford – titolare del forno – la malattia. L’uomo, infatti, lasciava interamente la gestione del forno ai due collaboratori e si assentava la maggior parte delle volte, così quando mio padre era colpito da qualche crisi, in laboratorio non c’era mai nessuno, fatta eccezione di Jody, un’anziana signora addetta alla vendita del pane. La donna arrivava tutte le mattine alle cinque e quarantacinque, apriva la serranda, accendeva le luci, e dalle sei era pronta ad accogliere il pubblico con il pane appena sfornato.
Un corridoio lungo collegava il negozio al laboratorio e, per entrarvi dall’esterno, c’era una porta secondaria che consentiva di non passare per forza dall’entrata principale. Harris mi disse che molte volte i vicini, data l’ora, si erano lamentati del rumore che faceva la serranda una volta alzata, quindi preferivano passare da quella secondaria.
Jody sapeva dei problemi di mio padre, ma entrambi avevano deciso di tenere chiuso il becco per salvaguardargli il posto di lavoro.
Mentre imparavo il mestiere del fornaio, mio fratello peggiorava inevitabilmente e mia madre mi addossava ogni responsabilità o compito che le capitava sotto mano.
«River, quando esci dal forno passa da JoJo a prendere un po’ di latte! Ah, e non scordarti il sugo al pomodoro che piace tanto a Jonas.»
«Va bene, mamma.» Quello era il rito che ripetevo più volte nell’arco di una giornata.
Finché si trattava di servizietti, però, non era un problema, ma iniziava a girarmi male quando mi dava la colpa di come era cresciuto mio fratello, con la malattia che sarebbe potuta diventare mortale nel giro di vent’anni. Lei avrebbe voluto che Jonas vivesse una vita degna anche se breve, e mi spingeva sempre a fare e dare il massimo per lui, a essere paziente, disponibile e soprattutto responsabile nei suoi confronti.
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