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Follia Riflessa

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Consegna prevista Aprile 2026

Ogni anno, lo stesso gesto: aprire un diario e scrivere. Non per ricordare, ma per non dimenticare chi è stata. E tutto ciò che le è costato diventarlo. A trentadue anni, una donna vive una vita apparentemente ricomposta: un amore che sembrava solido, una gravidanza desiderata, un passato che sembrava finalmente distante. Ma i traumi non restano fermi dove li lasci. E quando la felicità si incrina senza preavviso, le crepe si allargano fino a riportarla lì dove aveva giurato di non tornare.

L’infanzia, la madre, la solitudine. La sorellina che ha cresciuto come una figlia. Il padre, unica figura rimasta in piedi mentre tutto il resto crollava. E poi lei, la bambina che ora porta in grembo, che diventa al tempo stesso sicurezza e tremore. Non è la storia di una vittima, né quella di una rinascita eroica. È il racconto crudo, intimo, di una donna che attraversa la frattura tra ciò che ha vissuto e ciò che ha scelto di diventare. E del prezzo invisibile che ogni scelta si porta dietro.

Perché ho scritto questo libro?

Ci sono esperienze che, per quanto passino gli anni, continuano a vivere in una parte di noi. Alcune si attaccano all’infanzia come radici invisibili, crescono in silenzio e ci parlano con voci che non sempre capiamo. Scrivere questo libro è stato, per me, un modo per ascoltare quelle voci. Ma soprattutto per rimetterle in ordine.
Non tutto ciò che racconto in queste pagine è accaduto così come lo leggete. Ma tutto ciò che ho scritto è vero, in un altro modo. È vero il dolore che ho rielaborato.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Introduzione

Quando lei pensò di sbloccare la serratura con la chiave, si sentiva quasi incapace di muoversi. Il mostro poteva essere ancora lì, ad attendere un suo passo falso, pronto ad aggredirla per qualsiasi ragione gli passasse per la mente in quel momento. In quella casa c’era un clima di tensione, un’aura inquietante che si percepiva anche semplicemente respirando. Fino a pochi istanti prima era chiusa a chiave in quella camera, mentre dei pugni sbattevano violentemente contro la porta dall’esterno. Gli insulti, le urla e la paura la immobilizzavano e rannicchiata in un angolo, si stringeva a sé stessa per tenere a bada il cuore che  minacciava di detonare. Pensava che anche questa volta, nessuno la avrebbe salvata: il mostro avrebbe avuto la meglio, come sempre, e ogni volta si sarebbe portato via con sé un pezzetto della sua anima. Ormai era calato il silenzio, le urla feroci si erano interrotte e i pugni avevano cessato da un po’ di colpire con violenza, anche se non era in grado di quantificarne il tempo trascorso in quel limbo pregno di terrore. Era combattuta tra restare chiusa a chiave in quella camera illudendosi di essere al sicuro, oppure uscire e correre il più in fretta e il più lontano possibile; non aveva molta scelta, doveva scrollarsi di dosso quel terrore paralizzante e reagire. Dopo aver dato una sbirciata oltre il corridoio buio, percepì quella sensazione di vuoto, quello che si prova dopo un incubo, quando non sai ancora se sei sveglio e tutto è finito o se il mostro potrebbe tornare per completare il lavoro. Prese coraggio e mise fuori la testa dalla camera, aveva fretta di andare via, ma i suoi arti non collaboravano: erano lenti e poco stabili. Cercava farsi spazio il più silenziosamente possibile per andarsene finalmente da quella casa, quando sentì la porta di ingresso chiudersi in un colpo secco.

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Siamo tutti condannati a vivere in uno specchio, a cercare l’immagine di ciò che siamo, senza mai poterla toccare davvero“.

Mi fermo davanti alla vetrina di un negozio, il freddo della mattina mi sfiora la pelle mentre l’insegna luminosa si riflette nel vetro lucido. Il mio sguardo scivola sulla superficie, e l’immagine che vi appare sembra un’istantanea sospesa nel tempo. Il volto che mi restituisce la vetrina è mio, eppure, per un momento, non mi riconosco. Gli occhi sembrano raccontarmi una storia che non avevo mai ascoltato. La luce che filtra dalla strada accarezza il mio viso, ma sembra che quella stessa luce mi porti in un altro luogo, un altro tempo. In un lampo, sento una risata lontana, un ricordo di un pomeriggio estivo, di una conversazione che sembrava non finire mai. La vetrina, come un portale, mi riporta indietro, a un momento in cui ero diversa, ma allo stesso tempo la stessa. Mi sembra di attraversare un confine invisibile, tra ciò che sono e ciò che ero, e quel riflesso diventa un simbolo di qualcosa che non riesco a afferrare.

I pochi ricordi che ho di me bambina, mi riferiscono che ero piccola, di statura, ma non tanto da sembrare fragile. Due grandi occhi verdi erano come due specchi che riflettevano un mondo che non riusciva mai a farsi comprendere del tutto. Le lunghe ciglia che li incorniciavano avevano un fascino dolce, ma le occhiaie sotto, scure e persistenti, sembravano raccontare una storia di stanchezza che nessuno si fermava mai a leggere fino in fondo. Il mio viso, pallido come se avessi mai visto la luce del giorno , sembrava venire da un altro posto, da una dimensione sospesa dove le cose non trovavano mai il giusto posto. Ogni tanto, mi chiedevo se fossi mai riuscita a vedermi davvero, se in qualche modo fossi io quella che vedevano gli altri o se fosse una proiezione di un’immagine che non mi apparteneva. La memoria della mia infanzia è come un album dei ricordi sbiadito, dove non ci sono foto nitide a fermare il tempo, ma solo flash di momenti che scoloriscono velocemente. Quello che ricordo meglio sono le parole, quelle che arrivavano come piccole frasi insidiose, che distorcevano il modo in cui vedevo me stessa. Non ricordo di essere mai stata particolarmente in carne, eppure tutto ciò che mi arrivava da Linda mia madre, sembrava voler dire il contrario. Mi parlava come se fossi stata un’ombra troppo grande per il corpo che occupavo. Le osservazioni su quanto fosse più agile mia cugina Carla, su come lei potesse mangiare quanto voleva senza perdere grazia, su quanto fosse in forma mentre io sembravo troppo goffa, mi arrivavano addosso come colpi lenti e costanti. Carla era una specie di ideale. Carla sapeva cantare e io, beh, io facevo ridere. Non che fosse un problema, ma mi chiedevo perché mai far ridere fosse l’unica cosa che mi venisse bene. Questi paragoni, però, non mi definivano davvero, eppure, quella distorsione, quell’idea di essere “troppo”, ha creato una sorta di ombra che mi ha seguita per anni. Non era una questione di peso, ma di spazio. Ero un corpo che si muoveva nel mondo come se avesse sempre occupato più spazio di quello che meritava, una dimensione che non riuscivo a contenere. Mi chiedevo, ogni volta che guardavo la mia immagine riflessa, se quella che vedevo davvero fossi io, o solo un’ombra di quello che avrei dovuto essere. Forse a causa di questo forte senso di inadeguatezza ero una bambina silenziosa, sempre ai margini dei giochi, un’osservatrice piuttosto che una partecipante. Non che ne avessi veramente la possibilità. Linda, era estremamente selettiva con le persone che mi permetteva di frequentare, sempre convinta che solo certi bambini fossero “frequentabili”. La prole delle sue rispettabili amiche erano le uniche persone  che avevano accesso alla mia vita sociale. I compagni di scuola, i vicini, quelli che dovevano essere gli amici naturali della mia età, non erano mai considerati affidabili per lei. Forse il suo eccessivo controllo ha influito su di me, o forse ero semplicemente una bambina introversa. Ricordo una festa, una di quelle rarità in cui mia madre decise di farmi partecipare, probabilmente perché la bambina che la celebrava era considerata “adeguata”. La casa era piena di bambini che ballavano e giocavano, e io, come sempre, mi ritrovai a restare in un angolo, lontana da quella frenesia che non riuscivo a comprendere. Non mi divertivo, non sapevo come interagire, e mi sentivo come un’intrusa. Fu allora che il padre della bambina, notando la mia solitudine, si avvicinò. Inizialmente pensai che mi stesse per incoraggiare, forse che mi avrebbe dato quel piccolo stimolo che mi mancava per rompere il ghiaccio. Invece, con un tono forte, quasi per farsi sentire da tutti, disse: “Basta parlare, non ne possiamo più di sentire te”. Le sue parole, dure e umilianti, mi colpirono. Il mio imbarazzo crebbe all’istante, ma almeno l’idiota sembrava soddisfatto, come se avesse finalmente trovato un’occasione per sentirsi importante. Non potevo fare altro che chiudermi ulteriormente, incapace di reagire.

Al mio nono compleanno, la nostra vita cambiò. La casa necessitava di lavori di ristrutturazione, e ci trasferimmo in un’abitazione temporanea. In quel periodo, Linda aspettava mia sorella Irene, e forse proprio per la gravidanza o per i lavori in corso, sembrava meno attenta a ogni dettaglio della mia vita. Fu in quel momento che mi permise di fare un passo fuori dal mio mondo protetto, permettendomi di frequentare Anna, una bambina della mia età che viveva al piano inferiore. Anna era una bambina esile e slanciata. I suoi occhi, di un color nocciola caldo, avevano una forma a mandorla che le conferiva un aspetto leggermente orientale e quando sorrideva, si stringevano in modo così particolare che quasi sparivano, dando un’aria di dolcezza disarmante.

Io e Anna trascorrevamo le giornate nel pianerottolo o nel cortile fuori casa, un angolo che per noi era un piccolo regno da conquistare. Ogni giorno portavamo con noi giochi diversi, cambiando continuamente le regole e le risate. Poco a poco, il cortile non ci bastò più. I nostri passi ci portarono fino al piazzale del monastero, un luogo che sembrava fatto apposta per noi. Più grande, più aperto, ci offriva la libertà che cercavamo. Le scale di pietra, il vento che passava tra le vecchie finestre e il l’eco dei nostri passi, tutto sembrava assorbirci totalmente . Non eravamo più solo io e Anna; altri amici si aggiunsero, formando una piccola banda che condivideva lo stesso spirito di avventura. Non tornavamo a casa fino a quando l’ultimo filo di luce non svaniva, segnando la fine di un’altra giornata estiva.

Non so se fu la voglia di poter finalmente sperimentare o la genuinità del nostro incontro, ma quella piccola concessione di libertà cambiò tutto. Con Anna, per la prima volta, mi sentii davvero una bambina. Non più in disparte, non più osservatrice, ma parte di qualcosa che mi faceva sentire viva e compresa. Con lei nacque una profonda amicizia che sarebbe durata più di trent’anni, un legame che mi avrebbe accompagnata nel corso della vita .

Poi nacque Irene, e in quel momento, tutto cambiò. Per la prima volta, davvero, compresi cos’era l’amore vero, quello che non chiedeva nulla in cambio, quello che non ha paura di dare tutto se stesso senza riserve. Dopo dieci anni passati come figlia unica, la mia vita prese una forma nuova. Diventare sorella maggiore, un sogno che avevo cullato per anni, finalmente si stava realizzando. E la felicità che provai non era fatta di parole o di gesti. Era una consapevolezza silenziosa, come se avessi ricevuto una missione che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita. Ricordo con una nitidezza strana il momento in cui arrivai in ospedale. Mia madre, stesa sul letto, si lamentava per il dolore dei postumi del cesareo, ma io non riuscivo a concentrarmi su nulla di quello. In quel momento, lei, che mi aveva dato la vita, sembrava quasi un’ombra rispetto a Irene, che stavo per prendere tra le braccia. Era così piccola, così fragile. Quando finalmente la strinsi a me, tutto il mondo intorno a me sembrò fermarsi. Cresceva in me una sensazione potente di protezione, quella sensazione di essere diventata qualcosa di più. Non solo una sorella, ma una custode, una guardiana. Il mio cuore batteva forte mentre pensavo che quella bambina sarebbe stata la mia vita, il mio piccolo tesoro da proteggere a ogni costo. Ma la vita, mi aveva riservato una lezione difficile. Mi accorsi ben presto che la mia missione sarebbe stata più complicata di quanto avessi immaginato. Proteggere Irene non significava solo vegliare su di lei, ma anche su di me, su chi eravamo entrambe. Avrei dovuto proteggere Irene da un amore che non sempre sapeva essere amore. Avrei dovuto proteggerla da chi non sapeva come darci il sostegno di cui avevamo bisogno. La sicurezza che ci veniva offerta era spesso distorta, un affetto che, purtroppo, non riusciva a superare le barriere dei suoi limiti. Vivevamo in una casa modesta, con due piani separati da una scala a chiocciola, una di quelle strette e ripide, che rendevano tutto un po’ più faticoso. Al piano superiore, io e Irene passavamo ore interminabili da sole. Lei era piccola, appena nata, e io, una bambina che non aveva ancora imparato a essere tale. Mi ritrovavo a tenerla in braccio, e sentivo il peso di quella responsabilità come una pietra fredda sul cuore. Lei piangeva, cercava attenzioni che io non sapevo come dare. Eppure, in quel momento, ero l’adulta. Io, con i miei pochi anni, ero l’unica a cui Linda affidava quella piccola vita, la mia piccola sorella, ma non sapevo come farlo. Non sapevo come farlo bene. Io seduta sul letto al piano superiore, con la piccola tra le braccia, mentre Linda passava tutto quel tempo al piano di sotto,mi chiedevo cosa facesse per tutto quel tempo. Ma la risposta non arrivava mai, solo il silenzio di quei pomeriggi interminabili. Mi vietava persino di muovermi, mi diceva che sarebbe stato pericoloso, ma non mi spiegava mai perché. Le mani sudate, i nervi a fior di pelle, passavo quelle ore guardando fuori dalla finestra, senza nulla con cui distrarmi. Non c’erano giocattoli, non c’era un libro, non c’era nulla. Solo il vuoto di quella stanza silenziosa. Eppure, nonostante il mio bisogno di fare qualcosa, non potevo fare altro che stare lì. Avevo solo il vecchio armadio wengé davanti a me, appartenente ad una anziana zia di Linda, con le sue decorazioni floreali, sbiadite dal tempo. Al  centro c’era uno specchio grande e antico, il cui vetro, lievemente opaco, rifletteva un’immagine che mi lasciava un senso di inquietudine profonda. Non riuscivo a decifrarla, come se fosse un enigma che si sottraeva continuamente alla mia comprensione. C’era una donna, i suoi capelli castano chiaro le cadevano morbidi sulle spalle, incorniciando il suo viso pallido come se la luce stessa fosse riluttante a toccarlo. Portava occhiali rettangolari, di un rosa antico che sembravano appartenere a un tempo lontano, quasi a voler nascondere uno sguardo che pareva troppo pesante da portare. Gli occhi, nascosti dietro quelle lenti, sembravano vuoti, persi in un abisso di pensieri che non riuscivano a trovare pace. La sua espressione, però, non era solo triste; era un misto di malinconia e rassegnazione, come se stesse portando dentro un dolore di cui non riusciva a liberarsi, un peso che le gravava sul cuore. Mi trasmetteva una certa tenerezza, ma quella stessa tristezza innegabile mi metteva anche paura, come se potesse essere contagiosa, come se quella sofferenza fosse destinata a colpirmi . Non riuscivo a distogliere lo sguardo, ma allo stesso tempo non osavo fissarla troppo a lungo. Mi sembrava che se la guardassi per troppo tempo, qualcosa nel mio stesso essere avrebbe iniziato a riflettere la sua solitudine, la sua perdita. Quella donna nello specchio sembrava prigioniera di un tempo che non passava mai, sempre lì, a fissarmi senza mai muoversi, come un silenzio che urlava dentro di me. Mi chiedevo chi fosse davvero, quella figura che sembrava appartenere ad un altro mondo che era inevitabilmente legato al mio. Ma poi, con un brivido, realizzai che forse non era una donna, ma una bambina, una di quelle bambine che non avevano mai avuto il tempo di crescere, che non avevano avuto il tempo di imparare a sorridere. Eppure, perché sembrava così trascurata? Perché quell’aspetto pesante, quel senso di solitudine che sembrava permeare ogni sua fibra? Mi domandavo dove fosse la sua mamma, e perché non si prendeva cura di lei. In quei pomeriggi senza fine, senza parole, l’unica compagnia che avevo era quella silenziosa figura riflessa nell’armadio. Nonostante tutto, la nascita di Irene fu anche la nascita di un legame profondo, di una forza che avevo sempre ignorato di possedere.

Mi resi conto che l’amore vero, non aveva niente a che fare con quello che ci era stato mostrato, e che dietro quella facciata si nascondeva qualcosa di molto più complesso qualcosa con cui avrei dovuto imparare a fare i conti da sola.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Maria Di Stefano
Mi chiamo Di Stefano Maria, ma tutti mi conoscono come Mary. Ho 33 anni e vivo ad Agrigento, una città dove il sole sembra non andare mai via. Curiosa per natura, ho svolto lavori molto diversi tra loro, spinta dalla voglia di imparare e mettermi in gioco in ogni contesto. La scrittura è con me da sempre: una compagna silenziosa fin da bambina, oggi tornata al centro della mia vita. Sono laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche e sto proseguendo il mio percorso per diventare psicologa. Tre anni fa sono diventata mamma: un’esperienza che mi ha cambiata, rendendo più chiari i miei valori e le mie priorità. Così ho ripreso a scrivere con più consapevolezza e determinazione. I miei progetti? Completare il mio percorso professionale e non smettere mai di raccontare, imparare, crescere.
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