«Grande Luna piena, grande Luna, me l’hai detto in sogno di venire. Ossa di morto, sangue di rane sparso su stracci vecchi di una sagrestia. Ci vogliono il fuoco vivo e il suono sordo di cento campane.»
Adesso saltano fuori, veloci e cattive, e colpiscono il segno. Centrano e increspano la volta celeste. Esplodono senza un suono le stelle. Il cielo notturno si sbriciola in milioni di scintille accecanti che in un attimo si perdono nei miei occhi di fiamma. È giorno pieno, con un sole rovente allo zenit, poi notte profonda. Una notte senza luna.
«Oh Signore, disperdi come frammenti di stelle chi di me non ebbe pietà. Disperdi in mille scaglie infuocate chi mi indicò come essere perverso, signora del male e delle tenebre, mentre il mio cuore desiderava solo aprirsi al loro amore.»
Tutti gli esseri di quest’universo desiderano essere accolti e amati. Storpi e perfetti. Intelligenti e stolti. Puliti e lordi. Legati e sciolti. Tutti anelano al calore di uno sguardo, di un solo bacio, di una carezza fresca ch’io non ebbi mai. Nunc amiti, ego amo simul, quoque sincerit in me ex caritate. Amore, per carità. Datemi amore, voi che vi innalzate più dei monti con le vostre parole d’orgoglio e di giudizio!
Ma non esistono formule magiche per farsi amare e benvolere. Tutti gli esseri, animati o inanimati, dovrebbero essere amati e carezzati. Io non lo fui. E come il diluvio spazzò via con l’acqua i peccati di uomini e donne di questo mondo, così il cielo spazzerà via i peccati con la polvere di fuoco che scenderà su questa Montagna per purificarla e sanarla. Spariranno l’odio e la maldicenza. Sparirà il desiderio di fare il male e la morte diverrà liberazione e non angoscia.
«Grande Luna piena, grande Luna, me l’hai detto in sogno di venire.»
Fine anno-Inizio anno
L’anno in cui scoppiarono le stelle iniziò come gli altri che, come sanno gli uomini e le donne di questa terra, principiano di gennaio. Non che gli anni comincino e finiscano tutti allo stesso modo. Ci sono anni interminabili, noiosi, impossibili da vivere, che per finire devi soffocarli. Devi saltargli in groppa appena capisci la rovina che ti porteranno; saltargli addosso mentre ancora corrono, giovani e forti, e cancellare in qualche modo la loro esistenza con le tue mani, senza compassione, senza pensarci due volte. Perché o li finisci tu, oppure ti finiranno loro. Non c’è scelta. Con certi anni non puoi scendere a patti.
Altri, invece, non vorresti terminassero mai. Non necessariamente anni di gioventù o di vecchiezza. Anni nati per caso, dolci, che ti regalano la forza meravigliosa della vita. Ti regalano serenità e gioia di vivere, bellezza e speranza. Anni in cui credi che tutto sia possibile, persino volare o respirare sott’acqua. Questi anni si perdono in un baleno. Ti svegli un mattino e non li trovi. Spariscono. Non c’è modo di farli rimanere neanche un secondo in più. Puoi cercarli ovunque, non li troverai. Non serve pregare. È inutile sillabare filastrocche magiche a labbra chiuse, come facevi da bambino per far durare un sogno. È inutile persino bestemmiare per la disperazione di averli persi. Inutile recitare le preghiere del mattino e della sera col cuore e con la bocca. Non li troverai, non torneranno!
Ci sono anni che durano un secondo, altri che durano un secolo. L’anno felice durò, giorno più giorno meno, trecentosessantacinque giorni e qualche secondo. C’è però chi è pronto a giurare, anche adesso che è passato tanto tempo, che durò molto più a lungo. Altri, al contrario, sono pronti a giurare che già era terminato tra la notte dell’ultimo dell’anno e il primo giorno di quel nuovo gennaio, e che in fondo fu tutto un imbroglio. Comunque sia, in quel lasso di tempo accaddero cose degne d’essere tramandate a tutte le generazioni degli esseri viventi di questo paese di Montagna.
A San Pier successero fatti impossibili da spiegare. Rimasi scosso anch’io che di cose strane ne ho viste tante e non solo per via del mio mestiere. Da qualche anno m’ero addottorato, con non poca fatica mia e della mia famiglia, a Parigi. A Parigi, non a Napoli, come pochi altri figli di questa terra prima di me. Da poco i treni portavano più lontano dell’immaginazione; vicino ai confini del mondo portavano uomini e donne che avevano desiderio di conoscere le tante altre cose che abitavano fuori dall’esistenza ordinaria. Avrei curato i mali devastanti della povertà con la scienza che veniva dai confini di quei mondi lontani. L’avevo giurato sul mio sangue e sul sangue di mio padre, appena salito su quel treno fantastico che viaggiava sbuffando verso il mio futuro.
Nella mia Montagna non c’era casa in cui le scrofole di mali sconosciuti non si aprissero come torrenti in piena sul collo di adulti e bambini. Non c’era casa in cui mali oscuri non li storpiassero, rendendoli soggetti più da miracoli che di scienza medica. La malaria uccideva inesorabile con febbre altissima, come avevo letto nei libri e visto negli ospedali della grande città lontana. C’era poi la malattia infame, la peggiore di tutte, impossibile da curare: la fame. La fame nera che si mangiava le famiglie. Intere generazioni. Una dopo l’altra con sadico piacere. Era come se mangiasse ciliegie, non uomini, donne e bambini. Ne storpiava più del male misterioso. Ne uccideva più della malaria.
La gente cercava riparo dai mali non più nella Chiesa, non più nella scienza. La magia correva per le contrade. Entrava nelle case e vi si fermava. Rovistava le menti, riducendole a intrugli magici: “Ossa di morti, sangue di rane, fai questi cristiani tutti sani. Io adoro gli idoli antichi, quelli di Megara. Sono la maga delle maghe e vita e morte tengo nelle mani”. Arrivavano da lontani paesi, sconosciuti ai più, a predicare la loro magia. Erano di ogni colore e proponevano riti e misture d’ogni genere. La mia gente apriva le case e dava più di quel che aveva solo per essere truffata.
Nell’anno in cui scoppiarono le stelle ogni male si fermò. Personalmente non credo sia stata un’esaltazione collettiva, di quelle che dipingono i sogni, ché la fame, i dolori e l’infelicità producono mostri mentali difficili da interpretare, impossibili da curare. Non so dire se fu un miracolo o soltanto l’incantesimo di una di quelle streghe vagabonde. Ma accadde!
Tutto ebbe inizio il primo di gennaio, dalla mezzanotte esatta in poi. Non un secondo in più, non un secondo in meno. Almeno su questo si è tutti concordi. La notte di quel fine anno, a San Pier, i cani non abbaiarono ma la terra tremò più volte, scossa nelle fondamenta, pronta a essere sradicata da una forza misteriosa. Le stelle lontane pulsarono all’unisono come una grande orchestra armoniosa, regalando una spessa luce gialla e azzurra che inondò il cielo e le strade del nostro paese di Montagna, come fa la nebbia quando scende d’inverno e avvolge da padrona ogni cosa. Non arrivò il freddo che faceva tremare le ossa, battere i denti e affondare i piedi nella cenere spenta, a caccia del calore nascosto.
Quella notte di fine anno soffiò il vento. Cominciò spirando piano. Poi alitò forte contro le porte delle case e contro gli alberi dei giardini a terrazza. Graffiava come un lupo affamato alla porta. Era il vento del Nord che spezzava i grossi rami d’ulivo e piegava le querce centenarie. Tutti lo conoscevamo. Era il vento che strappava le foglie dei limoni e i tetti delle case. Quello che non lasciava fiato alle campane delle chiese, che battevano le ore come fossero minuti e i minuti come fossero secondi. Soffiò tutta la notte, forte e deciso, poi cadde di colpo come una mela da un ramo. Smise di ruggire e si quietò.
Al mattino andammo per le vie spinti dal mistero di quel vento. Non c’erano foglie da spazzare, non c’erano rami spezzati da raccogliere. Niente polvere nelle case, né per le vie. Tutto era pulito come un cielo limpido. Lo sporco del mondo era stato ingoiato dal vento, incanalato nella valle e trasportato in chissà quale angolo di universo. Fu come non avesse mai soffiato davvero. Era il primo di gennaio. Un gennaio insolitamente mite per la Montagna. Il mese passò senza freddo, senza malattie, senza i morsi della fame. Tra la gente si diffuse subito la certezza che quello era l’anno della fine del mondo, tanto temuta e aspettata dall’inizio dei tempi del genere umano. A metà febbraio lo pensavano tutti, anche gli scettici, che smisero di prendere in giro chi si faceva ripetuti segni della croce. Era chiaro: stava prevalendo il timore che qualcosa di terribile stesse per accadere.
Don Calarco, il prete della Montagna, fu costretto a cercarsi un aiutante perché le messe in suffragio delle anime dei defunti e, di più, in suffragio delle anime dei vivi, a San Pier di San Roberto come in tutti i paesi della Montagna, erano aumentate a dismisura. Le prenotazioni avevano ormai preso una china inarrestabile, e niente e nessuno pareva potesse fermarle. Anche don Giuseppe, che veniva da una parrocchia della grande città del mare, dovette ammettere che il fenomeno era di una certa portata. Dichiarò infatti, al termine della messa dell’ultima domenica di gennaio, che neanche in Vaticano, a Roma, si dicevano tante messe in un solo giorno come in questi sperduti paesini di Montagna.
Un’immortale primavera s’impadronì dell’anno: piogge abbondanti e frequenti si alternavano a giornate tiepide e luminose in cui il sole scaldava la terra, asciugandola da quella pioggia che era pronta a ricadere per saziarla di nuovo. Acqua e sole, in un clima mite, anticiparono la fioritura dei limoni e degli altri agrumi, e l’intero loro ciclo di crescita. Dai fiori bianchi e delicati vennero fuori arance luminose e limoni robusti e profumati, di un giallo brillante mai visto prima. I raggi del sole si riflettevano sulla buccia dorata che a sua volta rimandava la luce a tutto quello che c’era intorno, esaltandone la presenza e i colori. Così le stesse foglie degli alberi parevano delle stelle pulsanti in un cielo notturno e l’erba dei prati somigliava al morbido giaciglio degli eroi padroni delle costellazioni. Erano i limoni migliaia di pietre preziose sfaccettate, che parevano seminate a bella posta in ogni angolo della Montagna.
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