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Frammenti di tempo

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Frammenti di tempo è un viaggio introspettivo alla ricerca dell’origine di alcuni aspetti della mia personalità. Una serie di sedute psicologiche in cui ho immaginato che il foglio di carta mi facesse le domande giuste per consentirmi di analizzare attraverso il ricordo. Le mani delle persone che ho incontrato, nell’arco della mia vita, sono il collante di questo manoscritto. Ciò che mi hanno trasmesso e che hanno saputo insegnarmi è rimasto impresso sulla mia pelle come un tatuaggio indelebile. Attraverso questo percorso di autoanalisi passo dalla presa di coscienza dei miei sbagli, e di ciò che li ha causati, all’accettazione di essi e al perdono delle mie imperfezioni. La morte di mio padre, sopraggiunta durante la stesura di questo libro, è il colpo di scena che ha sorpreso anche me. Punto cardine del testo è la relazione con la mia amica-simbiosi, inizialmente caratterizzata da una morbosa dipendenza a senso unico.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro per il bisogno di analizzare me stessa e poter donare a mia figlia e al mio compagno la mia versione migliore. Queste pagine sostituiscono il taccuino dello psicologo che ho immaginato nella mia testa mentre prende appunti sulla mia vita, mi interroga, mi sprona a sviscerare episodi e relazioni fin nel profondo, alla ricerca di cause e rimedi. Ho sempre amato scrivere, fin da bambina, ma queste pagine hanno avuto una propria indipendenza e pretesa di libertà.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Da bambina correvo spesso tra l’erba, a piedi nudi, per sentire la freschezza delle goccioline che con forte tenacia restano aggrappate ad ogni singolo stelo. Mi piaceva giocare fino allo sfinimento su quelle aiuole, “un, due, tre…stella!”.

Mi ha sempre divertita questo assurdo gioco, lo trovavo molto buffo. Era semplice, caratterizzato da poche regole. Il bambino addetto alla “conta”, con la faccia rivolta contro il muro, doveva girarsi al tre ed eliminare gli allegri compagni buontemponi che riusciva a scorgere in movimento. Lo scopo era quello di avanzare fino a toccare il muro, con l’obbligo di rimanere immobili nel momento in cui scattava a gran voce la fatidica e squillante parola…STELLA!!!

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Era bello far parte del gruppo attivo, era bella quella sorta di adrenalina mista al timore di farsi scoprire. Era bella la continua sfida tra la prudenza del fermarsi in una posizione comoda, in modo da poter reggere l’immobilità, e la voglia che ti pulsava dentro di bloccare il tuo corpo in microsculture d’arte contemporanea, che neanche il più spinto corso di yoga avrebbe mai potuto contemplare. Era bello, tremendamente. Sorprendente, poi, l’inaspettata resistenza dei muscoli facciali al collasso di una spontanea risata infantile che era ormai al limite, incantevole la complicità con quei compagni d’avventura in grado di condividere con te un divertimento scaturito da piccole cose. Altrettanto bello era però essere il “pescato”, lo sfortunato di turno a cui toccava la conta, avere la possibilità di scorgere, nei loro volti, quell’espressione bizzarra della loro immobilità, era un privilegio non da poco. Mi è sempre piaciuto osservare l’espressione di un volto, mi è sempre piaciuto.

Mi sono chiesta spesso come facciano le persone a ricordare particolari della propria infanzia, in modo nitido e concreto, anche a distanza di vent’anni, io ho sempre avuto problemi di memoria irrisolvibili! Eppure mi è capitato di sedermi qui, di pensare al tempo, in generale, senza grandi pretese e mi sono resa conto che i ricordi scorrevano a fiumi da soli, senza che qualcuno li chiamasse. Deve forse trattarsi di logica, nel momento stesso in cui ti soffermi a pensare al tempo il tuo cervello, preso da un impeto da dittatore, decide per te…bisogna cominciare dall’inizio, associare al concetto del tempo quello del ricordo, bisogna ricordare.

Mi compiaceva essere l’unica bambina in mezzo ad un gruppo di maschietti, mi faceva sentire forte essere parte del “clan”, ben accetta pur essendo di altro “genere”. I bambini non amano molto avere tra i piedi una femminuccia, si sa. Eppure quell’aria da maschiaccio, amante dei loro giochi, mi ha sempre dato quel piccolo pass di accesso alle loro ludiche rimpatriate, era eccitante essere un membro della confraternita. Ho passato così le migliori estati della mia infanzia, nel quartiere di mio cugino ad un’ora dal paese, ma una sorta di penitenza per l’affronto di essere una piccola donna, in mezzo ad un gruppo di bulletti, ovviamente non mi veniva risparmiata…in qualsiasi gioco in cui ci fosse la conta, come un sacro abbonamento era mia!

Ambarabà ci ci cocò….e vediamo a chi tocca! E’ così che succede no? Non è così che accade sempre nella vita? Armiamoci di canzonette, di ritornelli e filastrocche buffe e vediamo un po’ a chi tocca questa volta contare, restare immobile e annoiarsi appoggiato alla corteccia di un albero senza poter correre e ridere, a chi tocca l’attesa. C’è qualcuno che gioca con le nostre vite in una dimensione che non possiamo comprendere né gestire, qualcuno deve pur esserci. Qualcuno che pilota le nostre azioni e sceglie se è il caso di fare la conta o di scovare il migliore tra i nascondigli, che sceglie quale ricordo in un preciso momento sia meglio di un altro, quale sia più giusto.

Ricordo è una parola molto bella davvero ed io di ricordi ne ho sempre collezionati tanti.

Mia madre, le mani di mia madre. Sembravano così grandi a confronto delle mie. Quel movimento circolare dell’ago che si immergeva nei tessuti e come un tuffatore ne usciva vittorioso. Che buon odore quella scatola di latta piena di rocchetti di filo colorati, che buon odore la lana intrecciata da un piccolo ferro ad uncino…che buon odore di crema al limone le mani di mia madre.

Mio padre, le mani di mio padre. Quel calore che ad ogni carezza mi avvolgeva e che ogni volta che mi abbraccia sento ancora. Il nailon srotolato e riavvolto infinitamente da quelle mani, quel forte odore di mare che non andava e non va mai via. E le sue barche di legno, le sue sculture, i suoi quadri di nodi, l’arte nascosta in quelle dita di ferroviere appassionato pescatore.

Mi sono seduta qui a pensare al tempo senza alcuna pretesa, mi sono seduta qui a vestirmi di ricordi e mi sorprendo a capire tante altre cose di me, dall’immagine impressa nella mia mente delle mani di mio padre, di quelle di mia madre.

Ciò che erano le mani di mia madre è forse una delle poche cose che mi rende simile a lei, come erano capaci un tempo di creare, imbastire, reinventare…tutto il resto è una continua e amorevole discordia, un abisso di scontro dolce.  Per lei il cielo è azzurro e il sole giallo, io mi diverto a pensare che siano di altro colore. Ha sempre ritenuto importante stare attenti a ciò che può pensare o dire la gente, io molto spesso non mi rendo neanche conto che intorno a me ci sia “la gente”.

L’arte nascosta nelle mani di mio padre la sento formicolare anche tra le mie dita. Le mani dell’uno, le mani dell’altra…le loro mani nelle mie mani.

Tra me e mio padre non c’è, forse, mai stata discordia ma non posso neanche dire che tra di noi ci siano grandi similitudini. Le sue sfaccettature caratteriali rappresentano molto di ciò che non sono. Lui recita la vita da protagonista ed ama il calore delle luci sulla pelle, il compiacimento della platea…io amo rimanere dietro il sipario, spiare da un angolo i volti senza troppa esposizione.

Mio padre e mia madre li amo, anche nei momenti in cui li scruto a distanza notando l’abisso di cose che non ci uniscono. Li amo per i valori saldi che hanno impresso in me con la naturalezza di una famiglia sana, presente, piena di amore, piena di quei “qualunque cosa accada noi ci saremo sempre”, mai troppo scontati. Li amo per i loro 48 anni di unione che mi hanno resa una sognatrice ad occhi aperti. Amo mio padre per la sua spinta a credere nei miei progetti e a non mollare mai. Amo la sensibilità di mia madre nel chiedermi, senza che io dica nulla, cosa c’è che non va come se anche a distanza di centinaia di km potesse sentire il sapore amaro dei miei turbamenti. Amo ed odio la durezza delle sue critiche, la sofferenza che hanno causato in me e che io ho saputo trasformare in forza. Amo quello che sono diventata grazie a tutto questo.

Amore…una parola bella quanto il ricordo, mi chiedo ancora oggi cosa voglia dire.

Ho tanti ricordi dell’Amore, ho passato quasi tutta la mia vita ad amare qualcosa. Potrei dire che c’è una sorta di amore in ogni mio ricordo. Ho amato fare la ruota da bambina quando avevo appena cinque anni, quell’opposizione alla gravità, quel volteggiare nell’aria seguendo la fantasia delle note. Le mie mani poggiate al suolo pronte a reggere per pochi istanti la pesantezza di un intero corpo, quelle dieci dita al servizio di un equilibrio che si rincorre per anni, mai scontato.  Ho continuato ad amare quel linguaggio del corpo per i 12 anni a venire, il mutare dei miei muscoli, il crescere di una forza fisica ma soprattutto interiore. Ho amato l’adrenalina di un’esibizione, di una gara, la paura di sbagliare, il sudore, lo sforzo, la tenacia e l’impegno che una ginnasta nasconde dietro i sorrisi, dietro quel perdersi cullata da una musica, fedele al tempo come si porta rispetto ai grandi.

Un amore inebriante, autentico, l’unico che mi abbia consentito di mostrarmi in totale esposizione senza il rischio di farmi del male…spoglia, priva di difese, a lasciarmi guardare mentre mettevo a nudo l’anima e lasciavo che danzasse sorretta dal mio corpo alla mercè di tutti. L’unico modo di esibire me stessa che abbia mai amato, nella più totale perdizione di una sequenza di passi, nell’estasi di un movimento…l’unico che amo tuttora, il rapimento di una danza.

Ho smesso di allenarmi all’ultimo anno di liceo per concentrarmi sullo studio, in vista del diploma, ma la verità è che quell’anno un altro tipo di amore mi ha travolta, quello vero, autentico, il primo che ti fa battere il cuore e mancare il respiro allo stesso tempo. Le sue mani su una stratocaster nera, il suono che ne usciva, i suoi occhi profondi e quei capelli biondo scuro arruffati erano la cosa più bella che avessi mai visto. Colpo di fulmine? Amore a prima vista? Scegliete pure la definizione che preferite.

La prima volta che mi ha baciata mi sono sentita avvolta in una nuvola, la prima volta che mi ha preso la mano ho sentito i brividi in tutto il corpo. Quelle sue mani così ricche di talento e calli duri, come il marmo, sulla punta delle dita. E’ stato il mio primo vero amore, per  appena un anno e mezzo, e in quel poco tempo l’ho amato davvero, di un amore sincero e autentico, di quell’amore puro e ingenuo che, a cavallo dei 18 anni, può risultare a volte troppo fugace. Eravamo giovani e con ambizioni e prospettive di vita, nell’immediato, troppo diverse. E’ proprio a 18 anni in fondo che cominci la tua seconda vita o forse la terza, è proprio a 18 anni che hai le prime decisioni importanti da prendere. Le mie mi hanno portato a  seguire il luccichio degli occhi, nel vedere l’ago da cucito tra le mani di mia madre.

Le mani di mia madre, le mani di mio padre, tutti gli anni in cui quelle mani hanno lavorato e sudato mi hanno permesso di studiare per inseguire la mia passione. Si dice spesso “inseguire i propri sogni” ma non ci si sofferma mai troppo a pensare a  quanto questo verbo sia azzeccato…i sogni sono come le foglie d’autunno, una folata di vento li fa volteggiare nell’aria, come fosse la danza più bella del mondo, ma te li porta lontano in un attimo e a te tocca inseguirli di continuo. Io avevo un sogno nitido, concreto, radicato, ma la mia personalità è ahimè molto meno nitida, concreta e radicata. Un sogno ha bisogno di organizzazione ed io ho sempre avuto in testa fin troppa confusione. Sono un segno di terra ma mi sento decisamente più legata all’aria.

Sono forse una foglia d’autunno anch’io sempre in balia del vento, incapace di ancorare bene i piedi a terra troppo a lungo, quel tanto che basta a progettare qualcosa nella maniera più efficace. La mia mente è come un’immensa cassettiera sempre aperta e in disordine in cui ci si orienta a fatica.

Ho dei pilastri a cui, per fortuna, posso aggrapparmi quando il vento nella mia testa è talmente forte da non riuscire a rimanere a terra, amici che hanno condiviso con me lo stesso angolo di strada per così tanto tempo da non riuscire più a distinguerne le vite. La mia è la loro, la loro è la mia.

I miei pilastri mi vogliono un bene dell’anima, un bene fraterno e proprio come fratelli di sangue mi spronano, mi sostengono e mi gridano contro quando serve a svegliarmi e ad uscire dalla nebbia. Sono la mia memoria storica, la catalogazione ambulante di tutti i miei successi o fallimenti, ma soprattutto di tutto ciò che, di più imbarazzante, ho fatto nella mia vita e che la mia mente ha pensato bene di rimuovere. La cosa buona di una memoria storica tra amici fraterni è che, per fortuna, è a doppio senso e nonostante io non ricordi assolutamente nulla di ciò che conta davvero ricordare avrò sempre un angolino del cervello dedicato ai loro misfatti da risvegliare al momento del bisogno. Amicizia…altra sublime forma d’amore.

Mia nonna, le mani di mia nonna. Quelle dita leggermente deformate che mostravano degne di non essersi ancora arrese all’artrosi, quelle mani che creavano prelibatezze e profumi buoni. I suoi pranzi domenicali che riunivano la famiglia, la stessa sequenza di pietanze che non stancava mai. Quell’invariata coccola culinaria che era lì ad aspettarti, nonostante tutto, una carezza stampata sulla pelle che non va mai via. I ravioli, i “suoi” ravioli…gli unici che io abbia mai chiuso con una forchetta. Il suo sugo, le sue melanzane ripiene e i suoi peperoni fritti che una volta incontrati i nipoti in cucina arrivavano a tavola sconfitti, dimezzati rispetto all’esercito di partenza. Il suo rifiuto di accettare un “no” all’offerta di un secondo piatto di pasta, di una terza cotoletta, dell’ottava melanzana, considerando anche quelle rubate in cucina. I suoi pomodori verdi in barattolo e la lacrima che ancora mi riga il viso quando li rivedo in una bottega o su una tavola imbandita per la cena. Non è un caso che stesse preparando proprio i suoi meravigliosi ravioli poche ore prima di morire.

Il dolore che lascia una persona che non c’è più è un dolore morbido, è sempre lì ma sa nascondersi bene per non dare troppo fastidio. Riaffiora soltanto in alcuni momenti a cavallo di un ricordo dolce, il che lo rende sopportabile, una ferita quasi piacevole. Mia nonna era una tipa tosta, severa come la sua epoca richiedeva di essere. Aveva il volto indurito dai segni del tempo, ma aveva anche tanta dolcezza e amore da dare. Spesso non riusciva a dimostrarlo,  nessuno ha potuto insegnarle a farlo nel modo giusto. Ha sempre badato ai suoi fratelli, aiutando sua madre rimasta sola troppo in fretta, a cavallo della seconda guerra mondiale. Non c’era abbastanza tempo per potergli donare la quantità giusta di amore e insegnargli a trasmetterlo a loro volta. Nella miseria si bada di più a portare a casa la pagnotta, per poter sopravvivere, che a regalare una carezza ed insegnare a farla. Eppure mia nonna, a suo modo, ha imparato a fare i suoi gustosi manicaretti di carezze, a conquistarci prendendoci per la gola, nascondendoci dei soldini nelle tasche, sorridendo senza risparmiarsi. Mio zio era solito farle dei piccoli scherzetti…le slacciava il grembiule mentre lavava i piatti, le allacciava le scarpe l’una all’altra quando era seduta, le abbassava il braccio mentre cercava di mangiare o di bere…e questo continua a farlo, con tutti noi. Mi sembra di vederla, ancora adesso, mentre ride di gusto di quelle marachelle da genero con la sindrome di Peter Pan. Tra i ricordi agrodolci, che mia madre ha di lei, non mancano le bacchettate per la sua prima depilazione, per un bacio datole sulla fronte da mio padre, sui gradini che separavano le loro case, e le altre punizioni varie ed eventuali. Mia zia di qualche anno più piccola ha saputo sfuggire meglio a tutto questo, i secondogeniti hanno la strada spianata e sanno come muoversi con più scaltrezza, evitando i rischi…sono una secondogenita anch’io e so bene di cosa parlo.

2023-05-18

Saprilive.com

🔴 “FRAMMENTI DI TEMPO": IN USCITA IL PRIMO ROMANZO AUTOBIOGRAFICO DELLA SAPRESE SIMONA CATALDO 🔴 Scrivere e pubblicare un libro significa sempre mettersi in gioco e regalare un po’ della propria storia di vita ai lettori; se poi il libro è autobiografico, il tutto si amplifica oltremodo. Lo sa bene la giovane saprese Simona Cataldo, il cui romanzo (autobiografico, appunto) “Frammenti di tempo” sarà a breve pubblicato, previo il raggiungimento di un obiettivo minimo con una campagna di crowdfunding della Casa Editrice “Bookabook”, che manda in stampa il lavoro solo una volta raggiunto il numero di 200 copie preordinate. Un modo per ridurre così i tempi di attesa di pubblicazione, riuscendo a creare interesse ed un pubblico di lettori attorno al libro, ancor prima che sia pubblicato. COME ORDINARE - Manca davvero poco per raggiungere questa soglia minima: per poter raggiungere l'obiettivo, affinché il suo libro sia pubblicato, Simona ha bisogno di aiuto e supporto. Questo è il link per prenotare il libro: https://bookabook.it/libro/frammenti-di-tempo/ LA TRAMA - “Frammenti di tempo” è un viaggio introspettivo atto a sviscerare, scoprire, portare alla luce emozioni e sensazioni nascoste nel profondo, analizzare attraverso il ricordo. Attraverso questo percorso di autoanalisi passa dalla presa di coscienza dei suoi errori, e di ciò che li ha causati, all’accettazione di essi e al perdono. La morte di suo padre Andrea, sopraggiunta durante la stesura di questo libro, è il colpo di scena che ha sorpreso anche lei. Punto cardine del testo è la relazione con la sua amica-simbiosi, inizialmente caratterizzata da una morbosa dipendenza a senso unico. Immancabili i riferimenti al mare di #Sapri, lo scoglio dello Scialandro ed altri luoghi in cui Simona è cresciuta ed ha collezionato ricordi. #welovesapri #cilento #news #cronaca

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Simona Cataldo
Sono un'artigiana. Mi occupo della creazione di un capo dall'ideazione alla sua confezione. Scrivo, cucio e danzo da quando ero bambina e lo faccio per bisogno viscerale di abbandonarmi a queste forme d’arte. Sono modi di esprimere me stessa a pieno, di comunicare tutto ciò che ho dentro e che non riesco a dire a voce. Sono originaria del Sud e nel mio libro parlo di quanto siano importanti i luoghi in cui sono cresciuta. Ho vissuto a Roma per quasi venti anni ed anche questo trascorso mi ha lasciato molto da raccontare. Al momento vivo in un piccolo borgo medievale con il mio compagno e mia figlia ad accumulare ricordi nuovi.
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