La prima conversazione avvenne con un personaggio che viveva nella mia via, nel quartiere delle nazioni: una mini conurbazione costituita da edifici in stile socialismo italiano degli anni Ottanta, che riprendeva quello reale sovietico con una spruzzatina di insano spirito occidentale. La mia via portava in dote un carnevale umano molto interessante, tra cui un professore che si muoveva perfettamente a suo agio nei panni di uno scapigliato signore di quasi sessant’anni, imbrigliato nel furore della gioventù. Tutti lo chiamavano Malcolm per le sue velleità rivoluzionarie, ma anche perché ricorreva spesso ad anatemi contro qualche nullafacente che trafficava tra i palazzoni. Un uomo in puro stile Malcolm X, icona delle lotte afroamericane.Malcolm era piccolo, lesto, scuro in volto, con occhi acuti e irrequieti, lineamenti affilati e marcati. Ogni suo tratto era definito: mani piccole, braccia sottili, naso stretto e ossuto; agitava i suoi arti superiori, ora muovendo l’indice e scuotendo il gomito, ora pregando a mani giunte, e ogni movimento stava a significare il grado di passione del discorso. La sua voce rauca ogni tanto saliva di tono, ma la vera discriminante dell’enfasi restavano i gesti. Era un arringatore formidabile, anche se spesso non veniva seguito da nessuno e le sue, a questo punto sterili, discussioni non sortivano alcun effetto negli animi del pubblico, tranne che sul mio spirito ricettivo. Era la primavera del 1999 e come spesso accade, o perlomeno come accadeva, noi giovani curiosi venivamo indottrinati da losche figure in età adulta, tramite insensate arringhe. Quella primavera, però, portava in dote anche una crisi internazionale storica: per la seconda volta in cinquant’anni, gli aerei da guerra tornavano a sorvolare sopra il mare Adriatico. I caccia della NATO, infatti, il 24 marzo 1999 avevano dispiegato le loro ali nel cielo jugoslavo con l’intento, segreto e ufficioso, di distruggere, definitivamente e a colpi di bombe, il revanscismo serbo che –dopo la Croazia e la Bosnia –era passato al Kosovo. L’Occidente era stanco e non voleva più trattare su contromisure non implicanti l’uso della forza; tuttavia, le motivazioni ufficiali sono dovere di cronaca. Le ragioni prendevano più il cuore che la mente, soffermandosi su risoluzioni di fantomatici moschettieri travestiti da organismi di sicurezza collettiva –le Nazioni Unite –e sui doveri morali internazionali, come la “Responsibility to protect”: un penetrante quanto complesso concetto di ingerenza negli affari di uno Stato per salvaguardare il popolo dallo Stato stesso. “I Balcani producono più storia di quanta se ne possa digerire” sosteneva Winston Churchill, e in quell’ultimo scorcio novecentesco sembrava essere così.Malcolm era un personaggio che viveva la storia appassionatamente, giorno per giorno. Infatti, era appena rientrato da una delle manifestazioni a cui non faceva mai mancare la sua presenza. In quell’occasione aveva fatto sentire la propria voce contro le bombe atlantiche dirette in Jugoslavia: era la battaglia dei ponti, una sorta di protesta nostrana, un’occupazione simbolica dei ponti italiani come gesto di solidarietà verso coloro che, a Belgrado e nelle altre città della Jugoslavia (ormai ridotta territorialmente alla sola Serbia e Montenegro), manifestavano sopra i ponti del Danubio per evitare che fossero distrutti durante i raid aerei della NATO. La parte più occidentale dell’Occidente sosteneva che tutte quelle persone, aldi là dell’Adriatico, fossero degli scudi umani che lottavano contro la flotta aerea dell’eroe NATO. Quella meno occidentale, come Malcolm, credeva invece che gli eroi fossero proprio quelle persone, e solidarizzava con loro.
Andrea Gozzi (proprietario verificato)
La geopolitica raccontata con gli occhi di chi la vive e l’ha vissuta sulla propria pelle, un ampio reportage che ci accompagna in modo semplice verso una conoscenza approfondita di tematiche che hanno avuto e hanno tutt’ora molta più influenza su di noi di quanto pensiamo.
Donato Di Lorenzo (proprietario verificato)
Quattro storie, quattro frontiere, un popolo solo, unito nelle sue eterogeneità. Frontiere senza nazioni è un saggio storico mascherato da romanzo, ti guida in un’analisi cruda sulla realtà. Ti porta a riflettere sul concetto effimero delle barriere e, nello stesso tempo, ti racconta della coesione del popolo. Impossibile leggere Pocceschi e non chiedersi se anche noi siamo parte della frontiera o viaggiamo solo lungo il suo confine.