Carlos, il più alto dei due, si strinse con forza le ginocchia al petto, domandandosi come avesse potuto finire in quella situazione. Una folata di vento gli passò attraverso il colletto dell’uniforme, gelandogli improvvisamente le ossa. Non faceva quasi mai così freddo in quel posto… Che sfortuna perdersi in una giornata del genere! D’altro canto sapeva che ormai non potevano che aspettare l’alba: avrebbero tentato di nuovo di trovare l’uscita alla luce del giorno. Nessuno sarebbe andato a recuperarli di notte, Carlos lo sapeva bene. Gli ordini dall’alto erano sempre stati molto chiari: chi si perdeva nel labirinto non andava cercato. Lo sapeva quando aveva accettato l’incarico. Lo sapeva quando aveva iniziato a lavorare, qualche mese prima. Carlos si sfiorò il mento con le dita della mano. Il suo volto era rasato e la pelle del viso ben curata. Ci teneva al suo aspetto: aveva una famiglia e non voleva trascurarsi troppo o sua moglie l’avrebbe ritenuto un selvaggio al suo ritorno! Carlos iniziò a perdersi nei propri pensieri, fantasticò per un attimo su sua moglie, sulla sua folta chioma scura e lucente… poi gli venne in mente il giorno in cui era stato ingaggiato per lavorare in quel posto. Ripensandoci, chi accetterebbe di fare un lavoro del genere, o per lo meno con un rischio del genere? Carlos lavorava con le piante da anni. Sapeva riconoscere il punto esatto in cui recidere un gambo, intravedeva le gemme nuove senza bisogno di aguzzare la vista, conosceva gli arbusti e distingueva i fiori solo dal colore delle corolle. Quella sua passione era iniziata da bambino e con gli anni era diventata il suo lavoro. Suo padre era stato il suo maestro. Conosceva i segreti delle piante, ne distingueva le caratteristiche e sapeva maneggiare i boccioli senza danneggiarli. Eppure anche i migliori mestieri diventano ripetitivi col tempo e, dopo tanti anni, Carlos aveva smesso di vedere la magia nel proprio lavoro. Chissà, forse avrebbe mollato del tutto il settore se non fosse arrivata quella proposta per quel lavoro affascinante e pericoloso…
Quando aveva ricevuto la telefonata, aveva riflettuto per giorni sulla possibilità di accettare l’impiego. Non ne era sicuro. Voleva mollare tutto da tempo e poi, all’improvviso, quella proposta. Fare il giardiniere non era poi un granché, ma quell’offerta metteva tutto sotto una nuova luce: lavorare in un parco del genere sembrava un mestiere affascinante e misterioso… La persona che l’aveva contattato per offrirgli il posto era stata molto chiara: Carlos avrebbe dovuto trasferirsi sull’altopiano nel minor tempo possibile, doveva abbandonare la famiglia e le sue cose. Una nuova vita lo aspettava già sul posto, tutto il necessario ce l’aveva già con sé: non avrebbe avuto bisogno di altro che delle sue braccia forti e delle sue competenze maturate in anni di duro lavoro. Il suo incarico sarebbe stato pesante, le giornate si preannunciavano molto lunghe e trasferirsi sull’altopiano implicava perdere tutto quello che per lui contava di più. Eppure la paga era talmente alta che i pochi dubbi rimasti si erano sciolti come neve al sole al sentir pronunciare al telefono quella cifra piena di zeri. Quel posto di lavoro l’avrebbe assorbito del tutto in termini di tempo e fatica, ma per quel compenso Carlos aveva pensato valesse davvero la pena tentare. Poteva sempre accettare, studiare la situazione, capire meglio le condizioni di lavoro ed eventualmente tirarsi indietro dopo qualche tempo. Aveva chiesto una settimana per pensarci, ma dopo solo un paio di giorni aveva telefonato per comunicare che aveva deciso di accettare. D’altro canto, cosa aveva da perdere? Se il lavoro fosse stato tollerabile, avrebbe sempre potuto lavorare lì per un annetto o due per poi tornare dalla sua famiglia con le tasche piene di contanti… Di certo valeva la pena tentare.
Ora, nel buio pesto che lo circondava in quel labirinto, ripensava alla sua bambina, Luna, ai suoi occhi neri e profondi. E ripensava alla sua bella e forte moglie, che aveva baciato sulla fronte prima di partire. Forse avrebbe fatto meglio a rifiutare quel lavoro, dopotutto… Come avrebbe voluto tornare indietro ora, riconsiderare le sue priorità, rivalutare quella scelta che forse gli sarebbe costata troppo! Era probabile che non avrebbe più rivisto la sua famiglia… Quelli che si perdevano di notte nel labirinto non facevano mai ritorno. Sentì un brivido lungo la schiena, ma non era il freddo, questa volta lo sapeva. Aveva paura. Carlos si fece il segno della croce e chiuse gli occhi, stringendosi con più forza le ginocchia al petto.
Miguel, intanto, cercava con i palmi delle mani qualcosa con cui accendere un fuoco sul terreno, ma non osava allontanarsi di un passo dal luogo in cui s’era accucciato. Possibile che fossero davvero usciti senza una torcia? Che idioti, pensò fra sé. Avevano lasciato il casale nel primo pomeriggio per controllare che non ci fossero esemplari malati fra quei maledetti fiori giganti, e d’un tratto non erano più riusciti a trovare l’uscita. Tutta colpa di Carlos, pensava Miguel, sempre a parlare della sua famiglia, della sua casa sull’isola, dei suoi cani, e poi si dimentica di segnare il terreno per ritrovare l’uscita! Dannazione! Se non ci voleva venire laggiù, che ci era venuto a fare? si domandava aggrottando la fronte nell’oscurità. Lavorava con Carlos da solo una settimana e da qualche giorno quasi iniziava a sperare che gli accadesse qualcosa, per liberarsi di lui. Quello non era un lavoro per deboli di cuore, e Carlos avrebbe fatto meglio a valutare l’offerta con più attenzione prima di accettare l’incarico. Miguel sapeva bene che lavori pagati in quel modo non erano mai lavori puliti. Bisogna sapersi sporcare le mani, lavorare nell’ombra, non avere legami. Non restano tracce delle persone che lavorano per quelle cose.
Se sparisci, sei semplicemente sparito, fine della storia, e non ti aspettare che raccontino ai tuoi parenti cosa ne è stato di te per davvero, ripeteva a se stesso. Miguel proiettò nella sua testa un’immagine da film americano. I soldati che arrivano alla porta della vedova, le fanno le condoglianze e le donano una medaglia al valore per il servizio reso da suo marito alla comunità. Poi tornò alla sua situazione. Dubitava fortemente che sarebbe arrivata una qualche medaglia alla famiglia di Carlos in caso lui fosse scomparso. Niente riconoscimenti. Morti che finivano nell’oblio, sparizioni improvvise, nomi da dimenticare. Le regole del gioco erano state messe in chiaro sin dall’inizio: non ci sono mappe, chi si perde non viene recuperato, imparate a memoria il percorso o andate incontro al vostro destino. Ci voleva tempo per imparare la strada, ma conveniva iniziare a memorizzare il percorso dall’inizio, un passettino alla volta, scegliere alcune piante come punto di riferimento e riconoscere il cammino. Chi mai costruirebbe un labirinto obbligando chi ci lavora a memorizzare il percorso invece di trascriverlo? Sin dal primo giorno Miguel aveva capito che si trattava di un lavoro losco, ma il suo volto pieno di cicatrici lasciava intuire che aveva sempre avuto incarichi da sbrigare senza fare troppe domande. Non aveva passato davvero tutta la vita a coltivare la terra, anche se era quello che lasciava credere a buona parte dei suoi conoscenti. Miguel non aveva famiglia e il suo spirito era indurito come una vecchia pentola di ferro. Non doveva nulla a nessuno, lui. C’era un’unica cosa, un unico rimorso: forse, a tornare indietro, avrebbe trovato una compagna di vita. Ne aveva sentito spesso la mancanza, sebbene si consolasse con donne a basso prezzo abbordate nei bassifondi della capitale. Chiuse le palpebre e le riaprì cercando di raccapezzarsi nel buio.
Miguel prese a tastare il terreno attorno a sé alla ricerca di pietre o bastoni. Sperava di riuscire ad accendere un fuoco per guardarsi attorno e per riscaldarsi ma non trovava nulla di adatto. All’improvviso, sotto al palmo della mano, avvertì una superficie viscida e collosa, poi sentì un rumore indefinibile accanto a sé. Si voltò da una parte e dall’altra in preda al panico, ma nel buio più totale non riuscì a vedere nulla.
Sentì ancora dei rumori provenire da vicino, molto vicino, come di qualcuno che strisciasse a terra, come di ghiaia smossa, poi delle grida che si allontanavano, come se una persona venisse sollevata da terra e tirata a forza verso l’alto… Carlos!
Provò a chiamare il collega, urlò il suo nome tra il fruscio del vento e il fragore delle fronde scosse dall’aria fredda. In tutta risposta sentì solo un mugolio, lontano, stridulo, disperato. Era Carlos. La sua voce proveniva da un punto che doveva essere ormai almeno cinque o sei metri sopra alla testa di Miguel. Qualcosa aveva preso il suo collega!
Spaventato, Miguel fece per alzarsi in piedi, ma non ci riuscì. La superficie collosa che aveva avvertito poco prima sotto ai palmi delle sue mani era dappertutto. Quel viscidume appiccicoso era sotto di lui e lo teneva ancorato a terra. All’improvviso realizzò che non sentiva più le gambe, come se non le avesse mai avute, in preda a un’inquietante paralisi. Sentì un tonfo, come di un corpo morto che cade, poi la voce di Carlos scomparve del tutto. Silenzio. Lui era immobilizzato a terra e in preda al terrore, ma cercò di tornare lucido e di controllare il respiro senza fare troppo rumore.
D’un tratto avvertì un sibilo, come se qualcosa strisciasse sul terreno. Di colpo si sentì sollevare in aria. I suoi muscoli erano bloccati. Le labbra aperte in un grido di paura. L’aria era pervasa da un forte profumo di fiori, quasi nauseante. Con gli occhi spalancati nel buio cieco della notte, Miguel capì di essere spacciato eppure non smise di urlare, come se dalla forza dei suoi polmoni, da quelle grida disperate, dipendesse la sua salvezza. Chiamò aiuto, forte, come non aveva mai fatto in vita sua. Sentì la gola graffiarsi nel freddo della notte ma non smise di sperare di ricevere soccorso. Il vento continuò incurante a sferzare le piante del labirinto, coprendo il suono della sua voce. Le foglie continuarono a turbinare dal cielo in immensi vortici d’aria. Le urla senza speranza di Miguel si persero nell’indifferenza della notte. Da lontano, nessuno avvertì le voci di quei due uomini disgraziati, e Carlos e Miguel scomparvero nell’impassibile buio dell’altopiano di Gardenia come se non fossero mai esistiti.
Capitolo uno
Mi ero ripromessa di non parlare mai più di quello che accadde due anni fa, tra gli arcipelaghi delle Filippine. Per mia fortuna, lunghe notti insonni mi allontanano ormai da quei terribili avvenimenti, eppure, per una serie di tristi coincidenze, devo richiamare dai meandri della mia memoria quei ricordi che tentavo di seppellire da tempo. Non posso permettere che altri rischino la vita. È il momento di parlare e di raccontare la mia storia. L’altopiano di Gardenia è un posto pericoloso – qualcuno lo definirebbe un luogo maledetto – e sono ora costretta a rispolverare i miei ricordi per scoraggiare alcuni esploratori avventati di mia conoscenza. Scrivo dunque le memorie di quei giorni nefasti, di quella settimana infernale, per impedire che nuovi viaggiatori mettano a repentaglio la propria vita fra quelle isole dimenticate da Dio, come progetta di fare la spedizione Ulysses nei prossimi mesi.
Quando la dottoressa Menez mi chiamò non potevo immaginare a cosa sarei andata incontro nei giorni successivi, e per il resto della mia vita. Ancora oggi i fantasmi del passato mi irrigidiscono i nervi di tanto in tanto, al pensiero di quell’incubo travestito da sogno: Gardenia.
«Un nuovo mondo,» l’aveva definito la dottoressa Menez al telefono «un sogno! Il paradiso terrestre!»
E la mia curiosità di ricercatrice aveva prevalso su qualunque altro istinto.
All’epoca mi dedicavo ad alcune ricerche per il dipartimento di Biologia vegetale e microbiologia di un’università francese e la Menez mi contattava per visitare il suo meraviglioso ed enorme parco, in Asia, in cui crescevano numerosi tipi di colture modificate, le cosiddette OGM. Sembrava il posto migliore in cui condurre le mie ricerche senza perdere tempo in Europa, dove spesso multinazionali senza scrupoli da una parte e populismi incontrollati dall’altra creavano polveroni mediatici che rendevano la vita impossibile ai ricercatori.
La dottoressa Menez era una donna intelligente e facoltosa. Aveva realizzato quel progetto con l’aiuto dei più abili scienziati del mondo, ma Gardenia doveva rimanere segreta fino al giorno della sua apertura al pubblico, e così mi invitava ad andare in Asia ma a farlo con la maggior riservatezza possibile, e soprattutto a non comunicarlo al dipartimento per cui lavoravo. Andando a visitare di persona Gardenia, avrei avuto l’occasione di produrre una ricerca innovativa usando materiali e fonti del tutto originali e mai visti.
La dottoressa Menez mi aveva già contattata, un paio di anni prima, quando il progetto era appena cominciato, e mi aveva offerto una cifra da capogiro per trasferirmi sull’altopiano. Naturalmente chiunque avrebbe accettato, ma in quel periodo dirigevo un team di ricerca composto da giovani brillanti e non mi ero sentita di abbandonarli brutalmente a metà lavoro. Avevamo lo scopo di aiutare le persone: volevamo creare piante resistenti alla siccità, che non avessero bisogno di troppa acqua per crescere. Forse proprio questo mio atteggiamento costruttivo aveva spinto buona parte degli attivisti europei a schierarsi con me nonostante la riluttanza ad accettare gli OGM. Certo, la cifra che la Menez mi aveva offerto avrebbe fatto gola a chiunque, ma quel che stavo facendo allora aveva la priorità. Ora però la situazione era cambiata, potevo finalmente permettermi una pausa e, inoltre, a progetto Gardenia ultimato, non potevo più frenare la mia curiosità. Fin dove si era spinta la Menez per realizzare i suoi piani? Dovevo assolutamente saperne di più.
«Ho letto alcune delle sue pubblicazioni sull’agroecologia, dottoressa Lucyd. Un lavoro davvero brillante!» mi disse al telefono la Menez, con tono lusinghiero. La sentii sorridere dall’altra parte del filo. «Dovrebbe davvero raggiungerci a Gardenia, ne sarebbe entusiasta» continuò.
L’idea mi allettava molto, tuttavia le feci presente, ancora una volta, che non sarebbe stato facile per me lasciare l’Europa per andare in Asia di lì a qualche giorno. Non solo il viaggio richiedeva tempo, ma dovevo chiudere delle questioni di lavoro prima di partire.
«Come preferisce,» mi rispose la Menez «ma le faccio presente che, di qualunque cosa si stia occupando, perde tempo se non viene a vedere quel che vedo io ora davanti a me! Nulla potrebbe essere paragonabile a quello che può trovare qui, e solo qui. Le consiglio caldamente di raggiungermi il prima possibile. Sono entusiasta di quello che abbiamo ottenuto, e sono certa che lo sarebbe anche lei se lo vedesse di persona. Quel che le offro sono materiali per ricerche uniche… esclusive! Ma decida lei se ne vale la pena.»
La Menez mi disse di chiamarla in qualunque momento qualora avessi cambiato idea sulla mia partenza, poi chiuse la chiamata. Passai alcuni giorni sbrigando commissioni e pratiche per il mio lavoro, tuttavia mi scoprii a cercare di velocizzare sempre più le mie ricerche al fine di concluderle. Le parole della Menez mi risuonavano nella mente: volevo vedere con i miei occhi Gardenia. Iniziai a delegare il lavoro ad altri scienziati e, infine, la febbre della curiosità mi colpì tanto forte che, solo quattro giorni dopo la telefonata della Menez, mi trovai su un aereo diretto a Manila. Dalla Francia feci scalo in Oman, nella città di Muscat, per una sosta brevissima. Attraversai l’aeroporto trascinando il mio trolley lungo i corridoi di marmo illuminati dal sole. Mi fermai in un negozietto per acquistare una tavoletta di cioccolato, mi sedetti a un tavolino e telefonai alla Menez.
«Che piacere sentirla, dottoressa Lucyd!» esclamò lei con allegria.
«Buongiorno, dottoressa Menez, sono in Oman in questo momento» dissi io sgranocchiando un pezzo di cioccolato.
«Che sorpresa! Ha deciso di raggiungerci?»
«Alla fine sì, ho ceduto, sono piuttosto curiosa di vedere quello che mi aspetta!» dissi io sorridendo.
«Non resterà delusa, glielo garantisco!» rispose la Menez. «Ma mi dica, di preciso dove si trova in Oman?»
«Sono all’aeroporto di Muscat, parto con l’aereo delle diciannove per Manila!»
«Che coincidenza incredibile! Alvaro Penati, il tenore italiano, è nel suo stesso aeroporto e prenderà il suo stesso aereo!»
«Penati?» domandai confusa. «Sta venendo anche lui?»
«Certamente! L’ho convocato un paio di giorni fa, vorrei che si esibisse durante una cerimonia importante che terremo a Gardenia fra un paio di settimane. Mi spiego meglio: lei sa bene che la ricerca richiede sempre tempo ma anche e soprattutto denaro. Ho deciso di invitare degli investitori per convincerli a spendere qualche milione per il nostro parco. Vorrei fare le cose per bene e, se Penati dovesse accettare di eseguire una performance durante la cerimonia per la raccolta fondi, ci farebbe fare un’ottima figura.»
«Capisco.»
«Ottimo, lo troverà in aeroporto, lo riconoscerà sicuramente: detto tra noi, è un uomo piuttosto eccentrico…»
Sentii la Menez ridere di gusto, poi attaccò. Lasciai il mio tavolino, ripresi il trolley e mi diressi verso l’imbarco. Tutti erano già in fila, ognuno col proprio bagaglio; la maggior parte aveva tratti orientali, per lo più nativi delle Filippine, gente che rientrava dopo una vacanza al di fuori dal Paese. Considerata la povertà della popolazione filippina, immaginai che viaggiare per piacere e per scoprire il mondo non fosse una cosa molto comune per loro. Mi sorpresi a riflettere sui privilegi degli europei, che potevano circolare in tutto il mondo a prezzi abbordabili, mentre buona parte dell’Asia non avrebbe mai visto neppure un aereo dal vivo. Avevo una buona conoscenza delle Filippine, soprattutto per quanto riguardava la botanica. Erano una nazione che tornava spesso nelle mie ricerche: la foresta pluviale in quelle zone era particolarmente interessante e gli arcipelaghi fornivano l’habitat naturale per molteplici tipi di flora e fauna. Gli abitanti delle Filippine erano inoltre persone cordiali e gentili col prossimo, e avevo avuto io stessa modo di constatarlo di persona grazie ad alcuni contatti che avevo avuto con un’università di Manila per richiedere dei materiali unici presenti solo in una delle loro biblioteche. Diverse dominazioni straniere avevano influenzato la lingua più parlata, il tagalog, che risentiva di influenze spagnole e inglesi, ma la popolazione tendeva comunque a parlare dialetti differenti nelle varie regioni. In alcune zone più isolate sopravvivevano piccole comunità di nativi la cui società era organizzata in strutture gerarchiche ben definite e animiste, ovvero la cui religione si basava sul rispetto della natura e dell’universo, ritenuti dotati di anima e degni di culto, ma le città più grandi, come Manila, presentavano strade a molte corsie e grattacieli ultramoderni.
Quando raggiunsi l’imbarco, fra le persone in coda notai subito il tenore di cui mi aveva parlato la Menez, Penati. Era l’ultimo della fila. Vestito con un completo elegante e un papillon rosso sgargiante, stava immobile, guardando davanti a sé con il mento alto e un atteggiamento altezzoso. I suoi baffi erano trattati col gel e attorcigliati su loro stessi e mi fecero pensare a una versione snob di Dalì. Mi avvicinai a lui: il suo profumo era inebriante, forse un po’ troppo forte.
«Buongiorno, sono la dottoressa Lucyd, dalla Francia. La dottoressa Menez mi ha fatto notare che avremmo preso lo stesso aereo, così ho pensato di venire a salutarla» gli dissi, e tesi la mano con un atteggiamento cordiale, nonostante a prima vista non avessi avuto una buona impressione di Penati. Si trattava infatti di un personaggio piuttosto in vista ma, da quello che avevo letto di lui, era un favoloso cantante d’opera dall’atteggiamento notoriamente borioso.
«Molto piacere,» rispose Penati con un tono affabile che non mi sarei aspettata dal suo aspetto «sono Alvaro Penati, tenore… e amante delle belle donne» aggiunse ammiccante e guardandomi dritto negli occhi. Mi fece il baciamano e automaticamente arrossii. Quel modo di presentarsi, un po’ sfacciato e supponente, mi lasciò perplessa per un momento. Ricordai d’un tratto di aver letto da qualche parte che si parlava di lui anche come di un inguaribile Don Giovanni. Decisi di ignorare quel suo ultimo gesto e di mantenere la conversazione su toni professionali. Mi misi in fila accanto a lui e guardai dritto davanti a me.
«La dottoressa Menez mi ha detto che sta considerando l’idea di partecipare all’evento di Gardenia…» dissi per cominciare una conversazione qualsiasi e togliermi dall’imbarazzo che mi aveva lasciato il suo baciamano e che ancora sentivo infuocarmi le guance.
«Sì, potrei impreziosire la raccolta fondi con la mia voce. Un tocco di classe usare la musica classica per far colpo sugli investitori, non trova?» rispose Penati.
«Certo, un tocco di classe…» ripetei io sottovoce, cercando di non far trasparire quanto mi infastidisse quella sua arroganza.
«Dottoressa Lucyd, non mi dica che anche lei è venuta per cantare?» sorrise ironico, passando in rassegna il mio abbigliamento con una rapida occhiata e sottintendendo che il mio aspetto non corrispondeva certo a quello di un personaggio chic e altolocato come quelli che era abituato a frequentare lui.
«Sono una scienziata,» risposi, ignorando quei suoi toni altezzosi, «mi occupo di biotecnologie. Sto andando a curiosare nel parco per ragioni scientifiche. Potrebbe essere molto interessante per le mie ricerche.»
«Ne sono sicuro,» esclamò il tenore «penso che sia estremamente interessante, anche se io non mi intendo di flora e fauna. Comunque mi sono mosso solo perché mi è stato garantito un soggiorno sull’isola di Palawan subito dopo l’esibizione. Andrò a vedere il parco di Gardenia e, se lo riterrò adatto, accetterò di eseguire una performance cantando al pianoforte. Potrei anche scegliere di non cantare alla cerimonia, ma il soggiorno a Palawan mi è stato assicurato. Non avrei potuto rifiutare: le spiagge sono di una bellezza incredibile lì, un paradiso terrestre!»
Sorrisi e rimasi in silenzio, pensando al fatto che la dottoressa Menez aveva usato quello stesso termine, “paradiso terrestre”, giusto qualche giorno prima, per definire la giungla mutante che aveva creato nel giro di un paio d’anni fra le spiagge incantevoli delle Filippine. Ricordo di aver pensato solo in quel momento, per la prima volta in vita mia, a quanto perfino il concetto di paradiso potesse essere relativo.
Antonia Cappelluti (proprietario verificato)
Davvero coinvolgente! Mentre si legge si imparano un sacco di cose sulle piante e si legge in pochissimo tempo per scoprire come va a finire! Consigliatissimo!
Santina Cantatore (proprietario verificato)
Libro avvincente, intrigante! Un libro che si legge tutto di un fiato e che ti prende fino alla fine! Lo consiglio a tutti, giovani e adulti!