Avrei voluto aggiungere che sarei tornato subito. Magari senza farmi nemmeno sentire davvero, sussurrando sull’uscio della porta. Il fatto è che non sapevo se poi l’avessi fatto davvero. Anzi, sicuramente no, non pensavo che sarei tornato presto. A dirla tutta, non pensavo che sarei tornato affatto. Sentivo ancora il calore del corpicino del siamese color cappuccino sulle cosce dove stava fino a tre minuti prima, su quella destra, mentre con Marta si aspettava che la quiche fosse pronta in forno per cenare. Una decina di chili scarsi, che sarebbero stati pochi di più se avesse avuto tutte e quattro le zampe. Dieci chili di piccole ossa fragili, flessibili, che non aveva mai portato fuori da quelle quattro mura, insieme al pelo e a tutto il resto. Mai un cespuglio in cui acquattarsi per un agguato a una lucertola guizzante o un grillo dallo sguardo morto e dalle zampe vive.
Mai nemmeno un muro dal cui punto più alto valutare a lungo se saltare o meno, né uno scontro drammatico con un altro gatto maschio col vantaggio della saluta dalla sua e più esperto, una zuffa confusa avvolta da grida acute e feroci. Nulla, solo l’asfissiante comodità degli agi di un pasto regolare, con un ritmo lento e sincopato, dissipato nei giorni, nelle settimane, nei mesi, negli anni. Pochi però. Varcai la soglia tirando con un paio di dita la porta blindata in legno pesante dietro di me. Ci misi la forza appena sufficiente a farla chiudere senza farla sbattere sullo stipite, in un tonfo familiare. Restammo immobili sul pianerottolo freddo, aspettando che si aprisse di nuovo dietro di noi. Sentii un boato secco in lontananza, come uno scoppio ma fu forse di qualche altra porta, nel palazzo. Tornai a me e immaginavo già il volto di Marta, deformato dalla confusione. Chiusi gli occhi con più forza e riuscii a vedere le parole precise che mi avrebbe rivolto. “Ma che cazzo fai? Stiamo per cenare, prendi il gatto e te ne esci? Ma ti aiuta la testa o no?” L’avrebbe detto senza aggressività, carica di una curiosità divertita, come quando le nascondevo il trucco di un prestigio. Non gliene rivelavo mai nessuno, nonostante mi implorasse, ridendo nervosa. Finiva per prendersela, per arrabbiarsi e imbrunirsi, forse aspettandosi che mi movessi a compassione e le rivelassi come avevo fatto a far scomparire la moneta. Odiavo i giochi di prestigio e ancor di più svelarne i trucchi. Però ero bravo e, in più, mi aiutava in diverse situazioni come al lavoro, durante le pause con i colleghi, quando si finiva il pranzo troppo presto, voraci, e avanzavano decine di minuti da riempire prima di tornare alle scrivanie, davanti agli schermi che vomitavano numeri su numeri e nomi di clienti per i quali tenere precisamente la contabilità.
Aspettai ancora qualche secondo. Più che lei, in realtà, aspettavo una sensazione precisa che veniva da lontano e, forse per questo, ci stava mettendo così tanto tempo. Era una sensazione che non cercai le prime volte, ma venne a trovarmi lo stesso. Nel tempo, poi, avevo imparato ad andarmela a cercare apposta. Lo facevo, per esempio, quando prendevo il treno per andare in università. Succedeva che sostavamo brevemente in una piccola stazione e mi alzavo dal mio posto, lasciando zaino, cellulare, chiavi. Percorrevo tutta la carrozza dall’interno e scendevo con un saltello sulla banchina della stazione. Chiudevo gli occhi e mi appoggiavo a una ringhiera o un muro in marmo. Il fischio del capotreno al quale rispondeva in rima quello del mio stomaco, segnalava la ripartenza imminente. Gli svariati motorini idraulici delle porte pronte a chiudersi si azionavano con i loro sbuffi acuti e io rimanevo immobile, mentre il corpo fremeva e sudava in una febbre cruda. Un gioco di decimi di secondo. Uno scatto veloce e mi infilavo con un balzo nello spazio sempre più stretto tra la porta scorrevole e il treno. Il carnevale di suoni assordanti della giuntura tra i due vagoni copriva a stento il tamburo impazzito che avevo in petto. Dopo qualche minuto, tornavo a sedermi. Quella volta, però, nonostante un po’ me la fossi andata a cercare e un po’ l’avessi aspettata per farmi venire a trovare, non venne. Non provavo alcuna sensazione in particolare.
Restai sul pianerottolo per quello che mi dovette sembrare un’ora intera. Erano una trentina di secondi. Gattomenunquarto se ne stava con le tre zampe penzolanti, immobile, tra le mie braccia. L’espressione non lasciava trasparire alcuna emozione. Né eccitazione, né straniamento. Solo la coda, insieme al calore che mi faceva sudare il palmo e il braccio, che muoveva disegnando pattern del tutto casuali nell’aria, sembrava testimoniare che fosse una bestia ancora viva. Trattenni il respiro, per provare a produrre meno suoni possibile e sentire anche il minimo segnale del suo avvicinarsi alla porta, da dentro. Niente, forse era in bagno e non mi aveva sentito. Eppure, non mi pareva di averla vista alzarsi insieme a me. Percorsi in discesa la prima rampa con calma, poi tutte le altre leggermente più in fretta. Gli ultimi tre gradini li saltai tutti insieme, atterrando sui talloni in un tonfo sordo e doloroso, colorato solo da un miao di circostanza di Gattomenunquarto, più simile a una conseguenza meccanica dell’urto che a una volontà comunicativa. Fummo pervasi all’istante, appena fuori dal portone del palazzo, da un’aria fredda e pungente. Avrei dovuto prendere almeno una giacca di jeans, una camicia di cotone, qualcosa per coprirmi in maniera più adeguata. Strinsi il gatto con più forza verso il mio corpo e sentii le unghie sottili e taglienti forarmi i primi strati di pelle sulle braccia, comandate dalla paura del nuovo.
Quel freddo portava profumi mai sentiti, stimoli visivi in un numero troppo alto da tenere sotto controllo come faceva con le ombre, gli insetti, i riflessi delle finestre sui muri, che aveva governato con serenità per una vita in casa. Si strinse ancora di più al braccio, tirò le orecchie giù e iniziò a bofonchiare una serie di versi che non avevo mai sentito prima. Le pupille, che mi avevano sempre affascinato per la loro forma a falce, così simile alla prima luna crescente, ora erano perfettamente tonde, tanto espanse da occupare quasi tutto l’occhio. Sembrava masticare aria mentre si guardava intorno, acquattato tra il mio petto e il braccio, che si assicurava di stringere con quanta più forza avesse e con l’aggiunta degli artigli. La coda, impazzita, ora sembrava disegnare qualcosa di preciso, ma era troppo frenetica per seguirla e capire cosa. Pensai che forse fosse il caso di riportarlo in casa. Mi guardai intorno in cerca di soluzioni, senza sapere bene a quale problema. Restammo ancora qualche secondo immobili, mentre provavo a capire cosa fare.
«No, vabbè… non ci credo. Che dolce… ma è un siamese, è vero? Mamma mia… stupendo.»
Mi girai di scatto, per dare un volto alla voce che era sbucata dal nulla.
«Posso accarezzarlo? Si fa accarezzare?»
Mi parlava senza guardarmi. Un ragazzo esile, con una camicia di flanella che gli iniziai a invidiare all’istante, jeans pesanti aderenti, uno zaino che sembrava pesare poco meno di una decina di chili e dei baffi folti, poggiati su un volto rasato almeno una settimana prima. Non gli risposi, mentre cercavo di capire se potesse essere parte della soluzione al problema che stavo costruendo in quel momento. Tirando un dito su e giù, disegnava una linea dal naso alla fronte, passando in mezzo agli occhi. Attenzione che Gattomenunquarto sembrava apprezzare calmandosi, per qualche istante e così anche io, con lui.
«Senti, come ti chiami?»
In qualche modo, capii che doveva avere qualche anno in meno rispetto a me, non troppi, massimo cinque.
«Io sono Viola.»
Continuava a non guardarmi, anche mentre mi rispondeva. Non ricordo se lo pensai solamente o se lo dissi anche a voce alta, che fosse un nome strano per un ragazzo. Volevo chiedergli qualcosa in più ma ero troppo concentrato sul come uscire da quell’impasse ellittica in cui i due fuochi eravamo io e il gatto. Forse riportarlo su, a casa, sarebbe stata la soluzione più semplice. Mi tastai la tasca destra, cercando le chiavi con un riflesso automatico che dal cervello era passato direttamente ai muscoli. Niente, non le avevo portate. Passai a quella sinistra, dove in genere tenevo il cellulare. Niente, nemmeno quello. Lo avevo lasciato a casa insieme alle chiavi e al portafogli. Notai che il ragazzo stringeva il suo nella mano sinistra, mentre continuava ad accarezzare il micio che scioglieva i nervi, restando comunque vigile e spaventato. Avrei voluto chiederglielo, ma non sapevo per fare cosa. Il fatto che lui l’avesse e io no, mi faceva pensare che fosse in una situazione di vantaggio, che potesse aiutarmi a uscire da una situazione così semplice, che sarebbe bastato tornare indietro, citofonare e salire. Ci pensai, pensai a cosa avrebbe detto Marta. Si sarebbe chiesta per un po’ cosa avessi voluto dire con quel comportamento così strano, quei gesti inconsulti e precisi, quell’azione che non poteva non essere un manifesto, non avere un messaggio retorico. In realtà di retorico non aveva nulla, non nascondeva più intenzioni di quante ne dimostrasse. Mi colse all’improvviso una vaga e offuscata epifania che illuminò in maniera soffusa e debole tutto intorno a me. Conoscevo già tutto di quella vita, non c’era più nulla a incuriosirmi. Pensai che quel ragionamento potesse portarmi da qualche parte ma ora non avevo tempo da dedicargli.
Viola stringeva il suo cellulare e lo agitava, premendo uno dei tre pulsanti laterali, e sbuffando con fastidio.
«Che cazzo… si è scaricato proprio adesso.»
Ora finalmente mi guardava. Sembrava stesse per chiedermi qualcosa oppure che avesse nascosto qualcosa per me nella frase che aveva appena pronunciato, non direttamente verso di me. Avevo ancora la eco fresca delle parole nelle orecchie e provai a ripeterla, parola per parola, in mente.
«Ma perché, scusa, a che ti serve? Hai bisogno di un…»
Non mi lasciò terminare la frase.
«Ti spiego. Il siamese è tipo il gatto più… cioè c’è Marta, no… la mia tipa, calcola che a lei…»
Il fatto che avesse lo stesso nome della mia compagna mi mandò in corto circuito il cervello per qualche frazione di secondo e mi impedì di continuare a sentire il resto. Riempii quei pochi secondi con un turbine di pensieri aggrovigliati e quando tornai presente, non aveva ancora finito la frase iniziata.
«…e quindi questo. Glielo volevo far vedere… che di sicuro impazzisce. Però…»
Mi guardò di nuovo con lo sguardo di qualcuno che ha nascosto qualcosa in ciò che ha appena detto, questa volta rivolto a me direttamente.
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