E’ un destino che li segnerà per sempre. Da un altro piano si muove il mito del ’68, un cammino avviato su binari inconsueti, con pochi paragoni o modelli. Rivoluzione culturale. Questa parola evoca rovesciamenti, ribaltamenti, di riferimenti, di senso. Il cordone ombelicale reciso.
Niente sarà più come prima è il motto, sottinteso. Società aperta, diritti, libertà di espressione, femminismo, giustizia. La contestazione di tutto ciò che è potere, consuetudine, gerarchia, razzismo e conformismo. Gli Hippy o figli dei fiori, gli stupefacenti (Lsd su tutti), l’evasione dalla realtà, monotona, ipocrita, perbenista. E’ la stanchezza della civiltà borghese, comoda ma avara di miti e parole d’ordine che il giovane cerca, spesso inutilmente. Come il pane.
La musica pop e rock, con i suoi riti, coprirà questo vuoto. I concerti, Joan Baez, Dylan con il suo Blowin’ in the Wind. Conta esserci. Essere coinvolti. Prima a Berkeley nel 1964, negli Usa di Luther King e Malcom X, della insofferenza per la guerra in Vietnam. Poi nella Parigi del maggio francese di Daniel Cohn-Bendit e Sartre. Su tutti, la filosofia antisistema di Herbert Marcuse, con l’arte e la fantasia al potere, già codificati nella breve e anarchica esperienza fiumana di D’annunzio nel 1919. Infine, Valle Giulia. Ma proprio in questi ultimi fatti romani iniziano le prese di distanza, i distinguo. La voce più alta ed autorevole che rompe uno schema idilliaco è quella di Pier Paolo Pasolini. Tra i manifestanti ed i poliziotti sceglie di stare dalla parte dei secondi, accusando i primi di essere “figli di papà”. A Pasolini si aggiunge la storia del giovane Jan Palach, tra i pochi a scontare sulla propria pelle la protesta, rimanendo oltretutto l’unico che invece di incendiare il mondo incendia se stesso. Qualcosa si incrina, si rompe, emergono contraddizioni, strumentalizzazioni politiche. Un movimento che aveva l’arcobaleno come bandiera perde via via i diversi colori. Dal pacifismo si passerà alla violenza, che soprattutto in Italia assume dimensioni e caratteri inauditi. Dal 1969 al 1980 rimarranno vittime di un odio cieco e vile migliaia di persone. Tra stragi di piazza, bombe sui treni o nelle piazze, esecuzioni sommarie di magistrati, carabinieri, sindacalisti, docenti universitari. Il terrorismo italiano non è certo conseguenza diretta del ’68. Anzi ne tradisce pesantemente tutte le speranze. Ma certo alcuni cattivi maestri hanno cavalcato l’uno e l’altro, incanalando le diverse e opposte pulsioni. La strategia della tensione dei terribili anni ’70 ha volutamente fatto perdere di vista quel sogno di libertà, per alcuni genuino, per altri, la maggioranza, solo di facciata, che i diversi poteri mal digerivano. E proprio l’Italia ne è diventata campo di battaglia. L’Italia del fascismo e dell’antifascismo, l’Italia terra di confine tra occidente e comunismo, tra Nord e Sud del pianeta. Oggi cosa rimane? Il dubbio. Quanti hanno creduto veramente alle idee di Marcuse? Quanti hanno soltanto fatto massa perché faceva moda? Molti infatti sono passati dai carri alla carriera. Proprio la generazione dei sessantottini, oggi sessantottenni, è diventata la cinghia di trasmissione del potere economico degli ultimi trent’anni. Manager, giornalisti, politici, cioè classe dirigente. E non certo la migliore tra quelle che ricordiamo. Cosa rimane ancora nei contenuti? Alcuni slogan, qualche conquista, molti passi indietro. Il grande fratello orweliano vigila ancora. Oggi la massa è costituita dai miliardi di utenti social, che nascondono nei loro quotidiani tweet o post un sostanziale conformismo e un estremo individualismo. Il ’68 rimane sull’orizzonte, sempre più sbiadito. I tanti ricordi che questo bellissimo volume conserva per le future generazioni, ci parlano di aspirazioni, comunità, generosità, attenzione alla sorte del mondo. Oggi gli autori, provenienti da varie città d’Italia e da diverse esperienze professionali o percorsi individuali, tolgono la polvere, con un spirito ovviamente toccato dal sentimento e dalla nostalgia, da una pagina che sembra molto più lontana e più vecchia dei 50 anni trascorsi. Ma il tempo, inesorabile, passa, in una continua ed eterna rincorsa di valori e sogni che la nostra civiltà, invecchiata e dolente, custodisce. In attesa di un nuovo sussulto.
Francesco Poggi
Francesco Poggi, docente di storia del pensiero economico teoria delle imprese e delle organizzazioni all’Università di Pisa.
Introduzione
Ho deciso di intraprendere questa avventura spinto dalle numerose sollecitazioni che dall’inizio del 2018 si sono susseguite in merito al cinquantesimo anniversario dal 1968. In questi ultimi decenni abbiamo avuto modo di leggere e approfondire scritti, saggi, articoli e romanzi che ci hanno spiegato in mille salse diverse che cosa è successo in quel fatidico anno. Mi sono reso conto che il punto di vista era ed è tuttora legato alla storia, alla cronaca, a fatti ed eventi. E allora siccome nella mia vita ho deciso di dare più spazio al lato umano dell’esistenza, alla parte del cuore, al lato debole dell’anima, ho cercato di individuare un ambito diverso per raccontare quell’anno da un punto di vista più intimo, condivisibile. Ecco come è nata l’idea di chiedere a un certo numero di amici e semplici conoscenti di raccontare il loro 1968 facendo uno sforzo sensoriale più che di memoria. Ho chiesto loro di immedesimarsi un quel giovane bambino, ragazzo/a, adulto, studente o lavoratore di allora e ricordare il loro stato d’animo, le loro emozioni, le loro trasformazioni, il loro passaggio da un prima a un dopo. Nel mio profondo speravo che questa indagine fornisse anche un pretesto e un motivo in più per fermarsi a meditare su come erano allora rispetto a come sono oggi; ricordare i sogni, le speranze, le utopie, i progetti e le relazioni di quegli anni e confrontarli con la loro esistenza. Alcuni di loro, dopo aver accolto con entusiasmo l’invito, hanno preferito abbandonare il compito per il troppo dolore che sentivano nel cuore. Troppi traumi, troppe rinunce, troppe umiliazioni sarebbero dovute emergere per essere raccontate a persone sconosciute, ma soprattutto a se stessi. Alcuni si sono sentiti inadeguati, hanno giudicato le loro storie insignificanti, senza pathos, non meritevoli di essere raccontate, ma poi mi hanno ringraziato per l’opportunità che avevo offerto loro. Ho accettato che in alcune storie ci fossero anche fatti di cronaca ma – come leggerete – si tratta di una cronaca intima, personale. Spero che oltre a una facile lettura la costruzione di questo libro sia servito, a questo gruppetto di umani, a fare chiarezza. Come mi ha scritto una delle persone che hanno condiviso qui la loro testimonianza “la ricchezza di una raccolta di testimonianze è data proprio dal ritrovare gli echi di una rivoluzione anche in realtà che, all’apparenza, non vi hanno partecipato. E invece si, gli effetti di un’azione a ben guardare, si riflettono ovunque”. E, aggiungo io, per sempre.
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