«Allora ci sono, non stai scherzando?» «Per chi mi hai preso? Certo che ci sono!»
Titti non ama scherzare. Soprattutto a fine estate, quando le cose tornano alla normalità. Figurarsi quando il lavoro è
alle porte e, per un amore ritrovato dopo anni, hai messo da parte una delle cose che ti riempiva l’estate. Le vacanze con
gli amici? Macché: il fantacalcio. Con la F rigorosamente maiuscola, talmente grande che, nel pronunciarla, assume un significato quasi sacrale che qualsiasi interlocutore resterebbe in silenzio per qualche secondo. Se poi si aggiunge che al tuo
fianco c’è il Chino, una delle persone più ansiose che il genere umano possa aver prodotto, il quadro è bello che fatto.
«Dove cazzo è? Agli allenamenti era sempre puntuale, per non parlare poi quando si trattava di uscire con una figa. Ma
per una colazione al mattino, oh…» Chino sbuffa preoccupato, facendo innervosire ulteriormente Titti, già alle prese con un cameriere pigro e un caffè ordinato un quarto d’ora prima.
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«Be’, ti sorprende? Dovrà ancora riprendersi dalla vacanza a Zrce! Comunque eccolo là. Ma quanto è nero?»
Capello corto, Ray-Ban neri per coprire occhiaie incise perennemente sulla pelle, maglia bianca raffigurante un enorme volto barbuto (si scoprirà essere poi Nat Borchers, difensore e simbolo dei Portland Timbers, squadra campione della
MLS nel 2015), pantaloncini blu del Pescara Calcio e un paio di Converse rosse, rigorosamente alte, ai piedi. È fine estate,
la moda conta meno di zero.
Sulle spalle, il classico North Face. Nero solo in principio, aveva portato in dote dalla Croazia i segni della faticosa vacanza: equivoche macchie bianche, granelli di sabbia incastonati nelle cerniere e un non so che di scolorito dovuto alle troppe ore di sole. Ovviamente un’abbronzatura invidiabile. Nero! Ma nero nero, eh! Un’abbronzatura perenne, come le occhiaie.
E pensare che quando erano più piccoli sembrava Mowgli del Libro della giungla, seppur a petto nudo assomigliasse
più a Baloo. Come facesse a piacere alle ragazze è ancora un mistero.
«Ce ne hai messo di tempo, bbbello» grida Chino, che dopo mesi a consegnare le pizze ha trovato un lavoro stabile, riacquistando anche serenità. L’amore no, quello c’era già da tempo.
È bravo, il Chino. Disponibile, solare, il giullare delle elementari, incapace di giocare a calcio, ma con un mancino che,
rare volte, aveva regalato magie alla Recoba. Sempre pronto a estrapolarti un sorriso nei momenti più oscuri.
Ovviamente il bagaglio di gag rispetto a quando avevano otto anni si è evoluto: sono passati dalle imitazioni di Ace
Ventura al… remake delle imitazioni di Ace Ventura. Il bagaglio è lo stesso, a pensarci bene. Le risate, quelle, sono invece
sempre assicurate.
«Chino! Titti!» esclama Cavallo, abbassando gli occhiali da sole, creando una fessura tra i Ray-Ban e le sopracciglia dalla quale filtra uno sguardo viscido che era stato all’ordine del giorno in quel di Zrce. Tremendo.
I due, seduti fuori dall’American Bar, soprannominato Jurassic Bar vista l’età media della clientela che manco l’ultimo Milan di Ancelotti, si scambiano un cenno d’intesa: «Non cambierà mai…».
«Una birra, grazie.»
«La birra? Adesso?»
Sono le dieci del mattino, ma i ritmi croati pesano ancora sulla testa, sulle papille gustative e sul fegato di Cavallo che deve la bellezza, tutta soggettiva, di quel soprannome alle sue sgroppate nei campi spettinati della provincia lombarda, quando i suoi lunghi capelli fluttuavano nel vento. Era un buon giocatore: correva come un pazzo, aveva i tempi di
inserimento di Sami Khedira con il colpo di testa di Oliver Bierhoff. Attento, tatticamente preparato, un tedesco nel corpo di un abruzzese. Un abruzzese che, all’epoca, non aveva ancora conosciuto l’alcol. Ma il calcio era sempre stato solo
divertimento, niente di più. Altro che fantacalcio. «Birra e english breakfast: questa era la nostra colazione
prima di buttarci in acqua.» Cavallo spiega così agli occhi quasi esterrefatti di Titti. Sì,
quasi, perché a osservarli bene filtra anche un filo di nervosismo per quel maledetto caffè che tarda ad arrivare.
«E a pranzo, topi morti?» La domanda del Chino, che si intromette in quel dialogo tra le parole dell’amico ex capelluto
e gli occhi del caffeinomane. Risata generale, come sempre succede quando Chino cita le
battute di Aldo, Giovanni e Giacomo: è il massimo esponente mondiale del culto del trio. È il custode di tutte le battute dei
comici, interisti come lui.
«Dai, apri lo zaino.»
«Non vuoi aspettare il caffè?» Cavallo risponde ironicamente, mentre il livello di incazzatura di Titti sale vertiginosamente come quello di un Super Saiyan quando si ritrova davanti Freezer.
E intanto Chino se la ride, sotto quei baffi appena accennati che lo incastrano in una perenne adolescenza.
Con un lento movimento, Cavallo apre lo zaino. Titti e Chino lo guardano con gli stessi occhi con i quali hanno osservato
un ex trequartista del Chieti, diventato grande come terzino nel Perugia di Gaucci, tramutatosi definitivamente in leggenda a Berlino, nel 2006: tale Fabio Grosso. Occhi spalancati, ansiosi, in attesa di qualcosa di magico che, sai perfettamente, avverrà: sì, perché tutti sapevano che il buon Fabio avrebbe battuto Barthez.
E in effetti Cavallo qualcosa di magico lo tira fuori: è proprio lei, la lista dei calciatori per il fantacalcio. Quando Cavallo la estrae dalla copertina trasparente per mantenerne intatta la qualità, quasi fosse una pergamena di inestimabile valore alla quale un Harrison Ford appannato e acciaccato sta dando la caccia, una luce rosea riempie quegli occhi ancora
sognanti dell’estasiato pubblico amico.
«Dai qua, hermano.»
Inavvertitamente una mano sinistra alle spalle di Cavallo gli scippa, come un Montero qualsiasi, quel moderno Sacro
Graal, anticipando Titti. No, non è un Harrison Ford peruviano, ma il mancino di Jonny. “’Ccezionale, proprio lui” urlerebbe qualcuno: un calciatore degli anni Cinquanta, sangue peruviano, esperto di calcio sudamericano, nato nell’87 e piombato nei polverosi rettangoli dilettantistici milanesi. Freddo quando non si parla di calcio (e qui la sua laurea in Economia la si vede
proprio tutta), caliente quando un pallone inizia a rotolare, che sia quello in campo o in televisione o tra le battute con
gli amici. «Eccolo» dice, sorridendo, Titti. Poi si alza per abbracciare calorosamente l’amico. Abbraccio sincero, ma anche utile per riappropriarsi di quel che era suo.
«Hola, Chino! O devo chiamarti chino, visti tutti i soldi che stai facendo ora?»
«’Fanculo, Jonny.»
E via con un altro abbraccio.
«Titti, ma vista tutta ’sta smania per il fanta, non potevi pensarci prima alla lista?» chiede un curioso Cavallo.
«Sai che io fino a quando non finisce il calciomercato non la tocco, la lista. E se fosse arrivato Witsel? Se un Rigoni qualsiasi, uno dei tanti, avesse cambiato casacca? Se il Milan avesse preso un centrocampista serio per cancellare l’arrivo di quella merda del Principito?»
«Bene, uno in meno. Sosa è mio. Al Beşiktaş campionato stratosferico, premiato come miglior giocatore. Non è quello
Capitolo uno Generazione fantacalcio dei tempi dell’Estudiantes, ma manco quello di Napoli, dov’era il Uallarito» gli risponde Cavallo.
E Chino è lì, che memorizza tutto. Appassionato di Inter, è cresciuto a pane e Ronaldo, il Fenomeno. Tutto quello che
non fa parte del mondo nerazzurro, però, fatica ad accettarlo nel suo universo, quindi appena sente gli altri tirare fuori
qualche nome esotico, da Asta ai tempi del primo fantacalcio fino a Caraglio del mercato di riparazione più brutto di sempre,
ecco che affigge un post-it nella sua mente: “Mai vincente”. Titti tira fuori la Bic di ordinanza e una piccola Moleskine
dal suo satchel, simile a quello di Alan in Una notte da leoni, e inizia a scrivere nomi su nomi, obiettivi di mercato, alternative ai grandi nomi, alternative alle alternative ai grandi nomi. Cavallo lo osserva e gli dice: «Vedo che ne stai scrivendo pochi, di nomi…».
«Quando si fa il fantacalcio in dieci bisogna essere pronti a tutto: un fantallenatore deve sempre avere un piano B, un’uscita secondaria che può salvarti l’asta e, con un po’ di culo, svoltarti la stagione.» Risposta pronta, da professionista.
«In dieci?»
«Sì, in dieci.»
«Allora ci sono anche loro.»
«Sì, ci sono anche loro.»
«Allora, Doc, controlliamo se c’è tutto. Birre nel congelatore?»
«Ci sono.»
«Coca-Cola?»
«C’è.»
«Pampero?»
«Eccolo.»
«Havana per me e Cavallo?»
«C’è.»
«Amaro del Capo congelato?»
«Sì. È già in postazione.»
«Bene, altrimenti chi lo sente Razze? Bitter, vermut e gin ci sono?»
«Al loro posto.»
«Insieme agli stuzzichini?»
«Sì, insieme agli stuzzichini.»
«Pasta? Ne abbiamo?»
«Spaghetto numero cinque Barilla, sponsorizzato da quello che faceva il Libanese in Romanzo criminale, non la serie ma
il film, c’è» risponde tutto d’un fiato Doc, come se la Banda della Magliana lo stesse interrogando. A suo modo, “cor fero e
cor piombo”, e ogni parola deve essere, per forza, quella giusta.
«Perfetto. Il sugo è già pronto. Il dolce lo porta Titti e sappiamo che non sgarra mai. Chino mica portava qualcosa?»
«Frutta e verdura direttamente dall’Esselunga.»
«Razze e Baschi portano il vino. Borro?»
«Soliti zuccherini imbevuti nell’alcol.»
«Ottimo. A ’sto punto, Doc, salute!»
E così Senior, il padrone di casa, o meglio il Signore della Taverna, stappa una Peroni per sé e una per Doc.
Inseparabili, i due. Vicini di casa, istituzioni di via Montegrappa. Vai a New York e c’è la Quinta Strada, vai a Londra
e non puoi non conoscere Abbey Road, vaghi per Roma ed è inevitabile passare da via del Corso. Passeggi per Lainate, paese poco fuori Milano e, anche se non lo sai, ti trovi in Montegrappa, arteria che ti porta dal cuore sacro della chiesa
parrocchiale a quello profano delle piscine; dove il parcheggio, di notte, ospita qualche macchina vogliosa di finestrini
appannati. Tutte le strade portano a Roma? Montegrappa no, Montregrappa è Lainate. E Doc e Senior sono Montegrappa.
Senior, ventisei anni, ingegnere informatico, milanista fino al midollo, amante del bel calcio, è l’alter ego di Chino in quel
mondo di cuoio che è il pallone. Un mondo, secondo una teoria elaborata tra un allenamento a tinte gialloblù in oratorio e
un corso universitario in inglese, diviso in due emisferi, uno nerazzurro e uno rossonero. Nel primo, come in un moderno
inferno dantesco, ci sono i mourinhiani che pensano solo al risultato, i mazzarriani alla continua ricerca di scuse e i parigini divoratori del calciomercato. Ah, e i tedeschi. “Sì, perché puoi perdere contro tutti, ma con la Germania…” Nel secondo,
invece, ci sono gli ancelottiani amanti della qualità (a tavola e in campo), i guardiolani nemici giurati dei mourinhiani, i barcellonisti coltivatori di talenti e, ovviamente, i sacchiani, che da illuminati vedono tutto in anticipo.
Doc, anni ventotto, architetto. Fedelissimo rossonero, amante di George Weah e Ibrahim Ba, è un appassionato di
cinema. Doc sta a Ritorno al futuro come Chino a Tre uomini e una gamba, e proprio all’amore sconfinato nei confronti della
pellicola di Robert Zemeckis deve il suo soprannome. Ex centrale di difesa, le sue rimesse laterali erano all’ordine del giorno quando si era Pulcini. Uomo di due metri, è sempre stato, anche da bambino, il più alto di tutti. A sedici
anni ha appeso le scarpe al chiodo per passare dall’altra parte della barricata, dove il calcio è disegnato su una lavagna, l’allenamento viene tradotto su un foglio di carta prima che sul campo, le parole pesano più dei passaggi. E da vice ha anche
allenato i suoi amici. Con ottimi risultati. Birra in mano, Senior e Doc attendono gli altri. E non parlano. Un silenzio così in quella casa si era sentito solo il 28 maggio 2005, quando lo sguardo di Sheva incrociò quello di Dudek. E quando Sheva incontra Dudek, Sheva è un uomo morto. Si sente solo il ticchettio dell’orologio di Senior: è la sera
dell’asta, che segna l’inizio di una nuova stagione. Quando non sai se nella tua squadra potrai abbracciare quell’Higuaín
tanto sognato oppure un Gabbiadini mai sopportato; quell’Acerbi che ti regala costantemente il sei e mezzo o quel Bonucci che ti costringerà a tifare Juventus per tutta la stagione. Non è solo quello, però. C’è qualcos’altro. Doc lo sa, Senior
anche. Si guardano e, senza aprire la bocca, pensano: Stasera ci sono anche loro.
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