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Genesi di un Hacker

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Consegna prevista Luglio 2026

Genesi di un hacker racconta la nascita di una sensibilità che ha cambiato il nostro modo di vivere la tecnologia. È un viaggio tra centri sociali e spazi condivisi, dove la curiosità diventa ricerca di libertà e la rete si intreccia con i movimenti culturali alternativi. La storia è liberamente ispirata all’esperienza di rampART, laboratorio londinese in cui sperimentazione tecnica e impegno politico si sono incontrati. Sullo sfondo scorrono la cultura FOSS come scelta etica, i problemi di privacy e sorveglianza, le contraddizioni di un mondo sempre più connesso. In un presente segnato da manifestazioni, sgomberi, infiltrazioni, polarizzazioni e controllo delle opinioni, un racconto come questo offre strumenti nuovi a chi sceglie di stare dalla parte giusta. La vicenda mostra come le sfide di ieri tornino con volti diversi, ma con le stesse radici: capire il passato aiuta a leggere il presente e a prepararsi al futuro.

Perché ho scritto questo libro?

Non ho mai pensato di avere qualcosa di importante da raccontare, ma alcune esperienze ti costringono a cambiare prospettiva. Questo libro nasce per condividere un’idea precisa: dietro la tecnologia ci sono comunità reali e il tema della sorveglianza resta aperto. Oggi gli intrecci del web sono più caotici, tra social tossici, manipolazioni e intelligenze artificiali. Queste dinamiche si sono già presentate in passato e dimenticarle ora sarebbe la scelta sbagliata.

ANTEPRIMA NON EDITATA

La gente dietro la porta
(estratto da “Genesi di un Hacker”)

Dopo che Xico si fu congedato – lasciandoci il suo numero di cellulare con la promessa di bere

qualcosa insieme prima del mio ritorno in Italia – Ben bussò insistentemente sul portone d’ingresso.

Ad aprirci fu un ragazzo nascosto dietro al cappuccio di una giacca nera, mentre una ragazza faceva capolino alle sue spalle.

«Chi sono?» chiese lei, con sospetto.

«Ospiti, Anya, solo ospiti. Ragazzini. Non sono tutti poliziotti, rilassati» rispose l’uomo, facendoci segno di entrare.

Senza aggiungere altro, Ben ci portò al piano superiore.

Solo quando varcai la soglia di quello stabile malmesso, mi resi davvero conto di essere a rampART.
Mi guardai intorno con una certa soggezione, ma quasi mi veniva da sorridere nel constatare che ogni cosa, in quella stanza, fosse sudicia.

Nell’ambiente era pervaso di un misto di odori sgradevoli, di quelli che puoi trovare in una vecchia cantina. Polvere, muffa ed addirittura qualche nota acre di urina.

Sebbene fosse una giornata alquanto soleggiata, l’ambiente era così buio da farmi dubitare del mio orologio.

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Di fronte a me due finestre, i cui vetri erano così sporchi da non permettere alla luce di penetrare; come se non bastasse, una era coperta per metà da della carta da parati nera, che seppur strappata in più punti, bloccava definitivamente ogni spiraglio di luce già fin troppo soffusa.

La stanza in sé aveva l’atmosfera di una vecchia aula di scuola dismessa, con librerie strapiene e strati su strati di locandine ad adornare le pareti.

C’erano libri dappertutto, dalle due pile sotto le finestre a quelli sugli scaffali che sembravano poter crollare da un momento all’altro. Qualche volume era addirittura sul pavimento aperto a faccia in giù, abbandonato tra secchi di vernice aperti e bombolette di pittura spray.

Al centro della stanza spiccava eccentrico un tavolino basso ricavato da un vecchio rotolo di cavi elettrici, sul quale poggiava una ceneriera colma fino all’orlo di cenere, ma senza un solo mozzicone.

Nessun arredo di quella stanza poteva avere meno di dieci anni di usura accumulata, alcuni davano la diretta impressione di essere stati recuperati di fortuna dalla spazzatura.

Tutto in quel posto urlava degrado e trasgressione, ed è difficile rendere a parole quanto la cosa mi stimolasse.

Ben ci fece strada lungo una vecchia scala di legno azzurro, così malridotta che sembrava poter crollare da un momento all’altro.

Ricordo vividamente un dolore lancinante al ginocchio destro che aumentava gradino dopo gradino, ma trovai sollievo nel fatto che la puzza di urina andava scemando mentre salivamo, sebbene quello di muffa e polvere sembrava aumentare.

Raggiunto il piano superiore, ci trovammo di fronte un corridoio con due porte sulla destra ed una in fondo.

Ben aprì la prima e ci mostrò un piccolo bagno arredato solo da un gabinetto ed un lavandino, ridotti forse anche peggio del piano inferiore.

La seconda porta apriva su una biblioteca, con al centro un divano del quale non si era in grado di riconoscere il colore. L’unica fonte di luce era un’altra finestra sudicia, questa volta addirittura bloccata da assi di legno che lasciavano trapelare pochi raggi, dentro ai quali miliardi di granelli di polvere danzavano indisturbati.

Altre librerie stracolme alle pareti, piene di libri di politica, anticapitalismo ed anarchia; mi sorpresi nel notare invece una sezione dedicata all’informatica tenuta in modo quasi maniacale, con libri evidentemente nuovi.

Infine, il capo ci indicò l’ultima porta in fondo al corridoio che scoprimmo essere l’hacklab di rampART.

La stanza era chiusa a chiave e tenuta al sicuro da un tastierino numerico: ci fu assolutamente vietato anche solo avvicinarci.

Ben ci riaccompagnò nella biblioteca, dove avremmo trascorso le prossime ore.

Si rese conto della nostra difficoltà con l’inglese, quindi cercò di parlare lentamente, scandendo con cura le parole; il suo atteggiamento gentile misto infastidito mi metteva piuttosto a disagio, ma comprendevo il suo punto di vista: era evidente che avremmo dovuto dare qualcosa in cambio alla sua ospitalità.

Ci invitò ad usare il divano per dormire e ci avvisò che sarebbe tornato nel giro di un paio d’ore, per presentarci agli altri ospiti di quel posto surreale.

Dopodiché si congedò, lasciando me e Rosslyn in quello che per noi era al pari di un museo.

Cominciammo a spulciare uno ad uno gli oggetti di quella stanza – perlopiù libri – in totale silenzio ed ammirazione.

La mia allergia alla polvere non mi rendeva le cose facili, ma la curiosità per quegli ambienti era talmente acuta da farmi dimenticare ogni altra cosa.

Completato il giro di perlustrazione, mi fiondai sulla libreria.

Mi saltarono all’occhio vari volumi riguardanti Jack lo Squartatore, il quale sapevo provenire proprio da quella zona di Londra. Pensai che fosse curioso il modo in cui il suo spirito echeggiasse ancora in quei luoghi che non lo avevano mai conosciuto.

Erano passati non più di dieci minuti da quando Rosslyn aveva cominciato a sfogliare Anyathema of Zos ed io me ne stavo seduto sul divano a leggere La Trilogia degli Illuminati, quando all’improvviso la avvertii sussultare.

Mi voltai di scatto in direzione del suo sguardo e trovai un uomo in piedi di fronte alla libreria alle nostre spalle.

Ci ignorò completamente per qualche istante, intento a rovistare in cerca di chissà che cosa tra gli scaffali impolverati, poi si voltò e ci scrutò per qualche secondo, come a voler registrare accuratamente le nostre facce.

«Ah, voi dovete essere gli spagnoli… O gli italiani, ma tanto è uguale».

Il suo modo di parlare era a metà tra lo slang ed un inglese ampolloso da alta società: non riuscivo ad inquadrarlo.

Non poteva avere più di quarant’anni e vestiva in modo trasandato: era evidente che fosse un senzatetto. Dai pantaloni marroni sgualciti, alle scarpe bucate dello stesso colore, alla camicia a quadri rossi e la giacca beige: tutto di lui urlava trascuratezza, tranne la barba incolta, ma evidentemente curata.

«Io sono Jesse» si presentò con un breve inchino, «ed è un particolare piacere fare la vostra conoscenza».

«Sono un senzatetto, ma questo lo avevate già capito dai miei vestiti. I senzatetto qui a Londra vivono bene, sapete? Io vivo meglio degli altri, però, perché ho uno stipendio. Insegno musica al conservatorio. Tranquilli, ora vi spiego».

Si accomodò sul divano con grazia, incavalcò una gamba e cominciò a rollare una sigaretta. Poi riprese a parlare, incurante del nostro sgomento.

«Non ho una casa, ma ho un metodo tutto mio: la mattina presto mi alzo da terra, vado a scuola ed entro insieme al guardiano. Vado in palestra a farmi una doccia, poi mi rado e mi infilo quel cazzo di vestito che ho ritirato poco prima dalla lavanderia dove l’ho lasciato la sera prima. Metto gli occhiali da vista con le lenti finte et voilà, sono un professore!»

Fece una breve pausa per accendere la sua sigaretta e dopo un paio di tiri riprese.

«Mi faccio le mie sei ore filate, insegno solfeggio e cazzate simili. Una volta a settimana mi pagano, cash. Metà li uso per gli illuminati della strada, l’altra metà per questo posto. Quando esco mi rimetto gli stracci, porto il vestito in lavanderia da Rachele che è moldava o greca o quel che è come voi. In cambio le do un cupcake che ho fregato in mensa».

Si concede una risatina accompagnata da un altro tiro di sigaretta.

«Mangio qui, oppure al Mc di fronte, i ragazzi a fine turno mi danno sempre qualcosa».

Si ferma a fissare nel vuoto, fumando in silenzio.

«E in banca ho un milione di sterline. Però oggi sono in ferie, figo no?»

Alzò lo sguardo su di me e mi fissò negli occhi per qualche secondo. Mi sentivo analizzato, come se quello sconosciuto stesse cercando di leggere qualcosa sul fondo della mia mente.

«Tu suoni» affermò, senza ammissione di replica.

Annuii, estraendo timidamente la piccola armonica che mi porto sempre in tasca.

Jesse ne tirò fuori una simile dal taschino della giacca, poi si alzò e si incamminò verso la porta.

«Stasera, 8 p.m., qui, ben idratato».

In fine sparì, accompagnato lungo le scale dalla melodia blues che aveva preso a suonare.

Io e Rosslyn restammo attoniti per qualche secondo, prima di scoppiare in una fragorosa risata liberatoria. La stranezza di quell’uomo era l’ennesimo indizio della singolarità di quel luogo.

Rosslyn rollò un paio di sigarette e – come se nulla fosse stato – cominciammo a chiacchierare, appollaiati su quel divano scomodo. Guardava nel vuoto con fare assorto, come fosse stata a chilometri di distanza da quella stanza polverosa, lo sguardo le si rabbuiò d’un tratto, come preso alla sprovvista da un pensiero molesto.

«Devo trovarmi una casa al più presto» mormorò tra sé. «E un lavoro, prima di tutto…»

Non riuscii a capire se il suo tono basso fosse dovuto alla paura o all’eccitazione.

Per un attimo, il pensiero di doverla lasciare da sola mi fece rabbrividire: per quanto quell’avventura mi apparisse fuori dal comune, mi era ancora difficile convincermi del fatto che sarebbe diventata la sua quotidianità, e la cosa mi incupiva.

«Quanto ci è rimasto?» chiese, tirando fuori un foglio spiegazzato, qualche banconota e pochi spiccioli. Feci lo stesso, accumulando i nostri risparmi sul tavolino di fronte a me, e cominciammo a contare il poco che ci rimaneva.

Rosslyn osservò attentamente il foglietto, per poi passarlo a me. «Andiamo a vedere queste case, dopo. Ma ci serviranno i biglietti della metro».

Cercai di decifrare la sua calligrafia, ma fui distratto dal rumore di passi sulle scale.

Pensavo di trovarmi di fronte un altro tizio strano – e in un certo senso fui accontentato – quando la figura di Ben apparse sull’uscio della porta.

Aveva tra le braccia un paio di coperte piegate, che apparivano stranamente pulite.

Io e Rosslyn ci alzammo in piedi, come a voler mostrare una sorta di rispetto.

«Per voi, calde di asciugatrice» ci disse, porgendoci le coperte. «Buone notizie: ho parlato con i ragazzi, potete restare. In cambio, ci darete una mano col tetto. Siamo qui da un po’, ma stiamo crescendo, e come avrete potuto notare, più saliamo e più questo posto sembra cadere a pezzi. C’è da stendere il catrame, tappare i buchi…» spiegò, contando sulle dita con fare pensieroso.

Io e Rosslyn ci guardammo ed annuimmo all’unisono.

«È una fortuna che siate arrivati, in un certo senso. Qualcuno dei nostri è occupato con le manifestazioni, un paio di mani in più ci faranno comodo. Si comincia domani, come da programma. Riposatevi, datevi una sistemata e raggiungeteci al piano di sotto tra una ventina di minuti, prepariamo il pranzo. Spero vi piacciano le verdure…» ridacchiò tra sé.

«…E i secchioni» aggiunse poi, con un altro risolino.

«Entriamo dalla porta di fianco alle scale?» chiese Rosslyn.

«Uhm, sì, esatto, quella dove sono entrati gli altri prima».

Annuimmo ancora, sentendoci un po’ più a nostro agio con Ben.

D’un tratto, lui notò i soldi accumulati sul tavolino e li guardò con occhi sbarrati.

«Hey, no no no! Non accettiamo soldi qui, morte al capitale!» rise, indicandoli.

«Oh… No, li stavamo solo contando, tranquillo» spiegò Rosslyn, raccogliendo di nuovo il foglio per mostrarlo a Ben.

«Sai per caso come arrivare qui? Devo vedere una casa».

Ben scrutò il foglio per qualche istante, per poi spiegare: «Sì, la metro è qui vicino, basta prendere il ticket e andare in stazione, costa qualche sterlina. Quello che avete vi basta per un giorno o due, ma dovrete cambiarli. Qui fuori c’è un paki che costa poco, vi conviene farlo lì. Per il cibo non preoccupatevi, ci pensiamo noi» sorrise.

«Esci da qui, destra, sinistra e poi sempre dritto fino ad Aldgate East. Oppure destra, dritta, dritta, dritta e Whitechapel. Da lì, segui la mappa in stazione. Il tuo indirizzo è una fermata nera».

Ben le restituì il foglio e fece per andarsene.

«Hey, per caso conosci Jesse?» lo fermai.

Si voltò con lo sguardo corrucciato, chiedendo: «Quale?»

«Jesse, il musicista… Era qui, poco fa…»

Ben sbuffò in un misto tra divertito ed esasperato.

«Amico mio, in questo posto gira la gente più strana di Londra. Vi consiglio di chiudere a chiave, stanotte» ridacchiò ancora, gesticolando un saluto mentre scendeva le scale.

«Ho altri ospiti, ci vediamo dopo» concluse, sparendo.

Rosslyn si voltò verso di me con le lacrime agli occhi, scoppiando a piangere un attimo dopo.

Preso alla sprovvista, impiegai qualche secondo per reagire: la abbracciai con fare impacciato, cercando di afferrare il motivo del suo crollo emotivo.

«Che c’è? Ti senti sola? Hai paura?» chiesi, carezzandole le spalle con dolcezza, mentre i suoi singhiozzi si facevano più profondi.

Rosslyn scosse la testa contro il mio petto.

«No, al contrario…» sorrise tra le lacrime. «Non so dove sono, non conosco nessuno, non ho soldi e forse un barbone serial killer ci farà fuori stanotte, ma… Non sono mai stata più felice di così. È tutto così diverso…»

«Già…» ridacchiai con lei, sollevato al pensiero di poterla lasciare sola.

Le accarezzai i capelli teneramente, fino a quando i suoi singhiozzi non si placarono.

«Grazie di essere qui…» mi disse, districandosi dal mio abbraccio. «So che per te è solo una vacanza, cerchiamo di vedere anche qualcosa da turisti» mi sorrise poi, asciugandosi le guance con le mani.

«Non mi interessano» confessai. «Sono felice di essere qui, grazie a te».

Rosslyn mi sorrise con gli occhi ancora arrossati dal pianto, chiudendo il discorso.

«Okay, proviamo questo bagno!» aggiunse poi, lasciandomi solo.

Tornai a sedere sul divano, rendendomi conto di essere stanco morto. Il dolore al ginocchio non mi aveva dato pace per tutto il tempo, quindi mi stesi in cerca di sollievo.

Chiusi gli occhi e portai le mani al petto provando a ricaricare le energie, ma prima di potermene rendere conto, scivolai in un sonno leggero ed indisturbato.

Una mano gentile mi scosse la spalla, riportandomi alla realtà. Aprii gli occhi lentamente, cercando di abituarmi alla luce, e il viso sorridente di Rosslyn apparve a pochi centimetri dal mio.

Sobbalzai e mi tirai a sedere a fatica, stropicciandomi gli occhi.

«Sveglia, è ora!» annunciò.

«Quanto ho dormito…?» chiesi, cercando di riconnettermi al mondo.

«Uhm… Un’ora, circa. Non preoccuparti, sono già scesa, è tutto a posto».

Il sorriso radioso di Rosslyn appariva quasi fuori posto in quella stanza degradata.

«Dai, alzati!» ridacchiò, tirandomi per il braccio.

Mi alzai a fatica, sospirando per l’ennesima fitta al ginocchio.

«Perché così euforica?» chiesi con uno sbuffo. Tutta quell’attività non giovava alla mia mente ancora annebbiata dal sonno.

«Daaaai, andiamo!» piagnucolò, tirandomi ancora. «Scriviti da qualche parte 93696, è il codice per entrare che mi ha dato Ben».

«Io dovrei usare il bagno…» risposi, afferrando una penna dimenticata sul tavolino per scrivermi il codice sul braccio.

«Di sotto è tutto migliore, questo è inutilizzabile» mi disse, scendendo le scale.

Si muoveva a suo agio, come fosse già entrata in confidenza con quel posto e la sua gente.

Il piano di sotto era completamente differente.

Certo, permeava l’atmosfera fatiscente, ma il chiacchiericcio generale ed il viavai di gente donava colore e vitalità.

L’ambiente era confusionario ed affollato, al punto da non lasciarmi capire quante fossero di preciso le persone presenti; ne contai all’incirca una decina, forse poco più. Ognuna di loro era impegnata in qualche attività: chi cucinava, chi chiacchierava, chi se ne stava seduto a fumare, chi contava volantini. Ognuno, a differenza nostra, sembrava perfettamente inserito ed a proprio agio in quel fermento caotico di cui Rosslyn sembrava entusiasta.

L’arredamento era perfettamente in linea con ciò che avevo visto fino a quel momento: un patchwork di mobili raccattati e usati in ogni angolo.

Al centro c’era un salottino composto da tre divani diversi ed un pouf, con in mezzo un tavolino basso sul quale poggiava l’ennesimo posacenere strapieno.

Sulla sinistra, da un arco nel muro, potevo scorgere quella che doveva essere la cucina; sulla destra, c’era un palco in legno, con un grosso ventilatore industriale montato sul muro.

Ovunque mi voltassi, trovavo scatole strapiene di volantini con messaggi politici.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Giuseppe Checchia
Mi chiamo Giuseppe Checchia e da molti anni lavoro nel campo informatico, attraversando esperienze e ruoli diversi fino ad approdare alla ricerca e sviluppo. Oggi mi concentro sulla progettazione di soluzioni in materia di protezione dei dati, aiutando a coniugare tecnologia e regole con un approccio pratico e creativo. La passione per il sapere mi accompagna da sempre, fuori dai percorsi accademici tradizionali, trovando espressione nella scrittura e nella musica. Dalle prime pagine su Splinder fino agli articoli pubblicati su Medium e su vari siti specialistici, ho scelto di raccontare temi spesso marginali o poco esplorati. Intervengo regolarmente in conferenze e talk, dove intreccio linguaggi e discipline diverse, usando l’informatica come chiave di lettura per la cultura contemporanea.
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