«Sssshhhh, Kalhed, ascolta. Riesci a sentirlo? Il ronzio… sono qua, sono arrivate.»
Joussef, si portò il dito della mano destra alla bocca mentre con la sinistra fece segno al fratello minore di seguirlo. Avanzò guardingo tra l’erba secca intorno al muro fatiscente che delimitava i confini della loro casa, scavalcò veloce una recinzione metallica arrugginita e si infilò tra le macerie di quella che un tempo era stata una popolosa palazzina a tre piani e di cui ora restava a malapena in piedi solo il primo. Prese per mano il fratello e lo condusse all’interno di un locale ampio e desolato che sino a pochi mesi prima era stata la casa di qualcuno. Poi si accucciò e camminando carponi lo condusse attraverso un passaggio stretto e basso, sotto i resti di un grosso solaio crollato quasi per intero. Kalhed aveva paura e la polvere gli si era attaccata in gola, facendolo tossire. Joussef allora si voltò rapido, coprendogli la bocca con la sua mano, gli occhi carichi di rimprovero.
«Sssshhh… Kalhed, non senti?» sussurrò. «Le loro sentinelle sono proprio qua, sopra di noi, intorno a noi… se le spaventiamo siamo morti!» Khaled, col cuore che gli batteva all’impazzata, annuì, arrossendo.
Usciti indenni da quell’angusto passaggio, Joussef fece cenno al fratello di guardare sopra le loro teste. Kalhed, che ubbidiva sempre a suo fratello maggiore, alzò gli occhi e spalancò la bocca. Nel campo arido dove si trovavano era rimasto in piedi solo un rachitico albero di limone, cresciuto accanto al muro ingrigito della palazzina e, proprio sotto un fragile ramo piegato dal peso di frutti che nessuno ormai poteva più raccogliere, Khaled vide un grosso nido marrone, perfettamente mimetizzato, intorno al quale ronzavano centinaia di grosse vespe. Rabbrividì, aveva ragione Joussef, erano dappertutto e il frastuono, specie ora che erano là sotto, era assordante. Se le avessero disturbate, non sarebbero tornati a casa vivi quella sera. Fu allora che sentirono qualcuno piangere. Si voltarono spaventati verso il punto d’ingresso di quel giardino abbandonato e la videro. Ameena stava là all’uscita del tunnel con le lacrime agli occhi e le braccia piene di grossi ponfi rossi. Le vespe l’avevano attaccata.
«Ehi! Come hai fatto ad arrivare fino a qua?» Joussef le si avvicinò guardandosi intorno guardingo.
«Vi ho seguito… fa tanto male, Joussef» piagnucolò la bambina.
«Sì, sì, lo so…» rispose preoccupato Joussef. Quindi si rivolse a suo fratello: «Khaled, prendila per mano e tornate indietro, piano, senza parlare e niente movimenti bruschi, mi raccomando. Io vi copro le spalle».
Khaled, come al solito, ubbidì, prese Ameena per mano e si incamminò verso l’uscita. Una volta arrivati a distanza di sicurezza, Joussef guardò fiero il fratello: «Hai visto, Khaled? Quel giardino è sempre deserto, inoltre l’albero di limoni ci garantirà un po’ d’ombra. Quel punto è il posto perfetto per costruire il nostro rifugio segreto. Là nessuno ci troverà e, se saremo in pericolo, ci porteremo anche la mamma. Ma prima dobbiamo sconfiggere le vespe, solo così potremo appropriarci del territorio». Quindi aggiunse in tono autoritario: «Questo è il piano di battaglia: domani prima dell’alba usciremo di casa senza farci sentire e bruceremo il nido. Sorprenderemo il nemico nel sonno». Poi si rivolse anche alla piccola Ameena che lo ascoltava rapita: «Nessuno deve saperlo, siamo intesi? Ameena, mi hai capito bene? Se qualcuno ti chiede come ti sei fatta quei segni sul viso e sulle braccia, devi dire che è successo mentre giocavi nel vicolo. C-A-P-I-T-O?».
La bambina annuì seria.
«Bene. Naturalmente, tu Ameena, domani dovrai rimanere a casa, è troppo pericoloso per una femmina. Ok?»
Ameena annuì di nuovo, questa volta in maniera meno convinta, ma Joussef e Khaled non sembrarono accorgersene. Khaled, da parte sua, era terrorizzato, avrebbe voluto rifiutarsi di fare una cosa così pericolosa. Aprì la bocca per protestare ma poi ci ripensò, dandosi del vigliacco e costrinse la sua testa ad annuire. Joussef, soddisfatto, si lanciò in una spiegazione dettagliata del suo piano e non badò più ad Ameena.
I due fieri cospiratori rientrarono a casa, pronti per la loro battaglia, trascinandosi dietro la loro piccola amica.
1.2 AMEENA
Ameena non parlò.
Avrebbe voluto. Ma non lo fece.
Voleva bene a Joussef e a Khaled come a due fratelli.
Tuttavia non erano suoi fratelli.
Lei non aveva fratelli, né sorelle.
Era abituata a stare da sola. Sua madre e suo padre erano molto impegnati, per questo non potevano stare spesso con lei.
Lo capiva. Non era arrabbiata. Solo sentiva la loro mancanza. E spesso aveva paura.
Specie la notte, soprattutto se c’era silenzio.
Non era più abituata al silenzio. Al rumore degli spari, agli echi dei bombardamenti, alle grida della gente, a quello sì che era abituata, ma al silenzio no.
Il silenzio la terrorizzava.
Si trovava bene con Kalima e i suoi figli. Erano come una seconda famiglia per lei.
Voleva bene a Kalima. Era l’unica che si prendeva cura di lei quando i suoi genitori non potevano.
Passava molto tempo a casa dei suoi vicini.
C’erano giorni in cui Kalima usciva di casa presto per rientrare la sera tardi con un’aria stanca e preoccupata.
Lei non sapeva dove andasse. E forse neanche Joussef e Kalhed lo sapevano.
Da quando il loro padre, Hashim, non era più tornato le cose erano cambiate. Ameena lo aveva capito, anche se nessuno di loro ne parlava mai. Aveva sentito dire che forse era in carcere.
Hashim lavorava con la sua mamma, gliel’aveva detto lei.
Spesso dovevano assentarsi per giorni interi.
Si sentiva triste quando accadeva, ma la sua mamma le aveva spiegato che era per il bene della loro nazione e quindi doveva essere forte e avere tanta pazienza.
Ameena si fidava della sua mamma ed era fiera di lei e anche di Hashim, per questo non riusciva a capire perché non lo fosse anche il suo papà.
Lui non approvava quello che facevano la mamma e Hashim.
Lo sapeva perché li sentiva spesso discutere, la notte, quando credevano che lei dormisse.
Kalima, Joussef e Kalhed, al contrario, adoravano Hashim, a casa parlavano sempre di lui ma la regola era quella di non fare parola del suo lavoro.
Anche Ameena aveva imparato a mantenere il segreto.
Quando la sua mamma e Hashim si dovevano assentare per quelle che chiamavano “missioni segrete”, Kalima si occupava di lei.
Era comunque meglio di rimanere a casa da sola con suo padre. A volte era successo e non era stato bello come se lo era immaginato. Da un po’ di tempo non si divertiva più con lui.
Non che lui non le volesse bene, ma era sempre distratto e burbero. Era cambiato da quando la mamma lavorava con Hashim.
E poi anche lui doveva lavorare, per questo passava tutto il giorno all’Università mentre lei, a casa, si annoiava tanto.
Così preferiva stare da Kalima con Joussef e Kalhed.
Le piaceva giocare con loro, anche se lei era la più piccola e a volte la lasciavano un po’ in disparte.
Ripensò a quel pomeriggio, al giardino dietro il tunnel e alle vespe.
Si era resa ridicola piagnucolando in quel modo.
Per questo Joussef le aveva detto di non seguirli, di restare a casa.
Questa cosa la faceva arrabbiare.
Non era più così piccola, dopotutto.
Aveva sei anni ora.
Li aveva compiuti proprio domenica scorsa.
Non avevano il diritto di trattarla sempre come una bambinetta.
Non riusciva a dormire.
Era nervosa.
Adesso basta.
Gli avrebbe dimostrato che era cresciuta e che poteva aiutarli.
Era deciso. Li avrebbe seguiti.
Con quella certezza nella mente e il ronzio delle vespe ancora nelle orecchie, finalmente si addormentò.
Quando riaprì gli occhi il sole stava sorgendo.
Oh no! pensò angosciata, saranno già andati… senza di me. Devo raggiungerli!
Ameena saltò giù dal letto e uscì correndo sulla strada.
La luce dell’alba era incerta e lei aveva tanta fretta.
Probabilmente fu per quello che dimenticò la prudenza.
O forse sarebbe accaduto in ogni caso.
Una vecchia sedeva sulla soglia di una casa decapitata e osservava la devastazione intorno alle cose che conosceva.
Ameena attraversò la strada tra le macerie.
Un boato spazzò via la meditazione della vecchia.
Un silenzio innaturale seguì l’esplosione, come se l’intero universo si fosse fermato per ascoltare il dolore di quel piccolo angelo caduto.
La vecchia percepì una pace stonata nel suo mondo senza suoni.
Mine anti-uomo, pensò tra sé e capì che era successo di nuovo.
Si alzò con fatica, scostò rapida la polvere dal grembiule ormai logoro e con passo lento si avviò verso la piccola sagoma che giaceva abbandonata sulla strada.
Il sole, appena sorto, rifletteva la sua luce sempre più accecante sul selciato polveroso e di tanto in tanto la vecchia fu costretta a fermarsi per schermare gli occhi stanchi con il palmo grinzoso della mano sinistra, mentre usava la destra per rendere omaggio al suo Dio.
Ameena era là.
Un piccolo fagotto sanguinante nella polvere.
La vecchia sapeva cosa fare. Non era la prima volta
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