Sembrerà banale, ma camminare, per me, altro non è che “l’arte di andare avanti”.
Il senso del camminare è lo stesso senso dello staccare il piede da terra e dirigersi verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di misterioso. In questa azione quotidiana, in questa pratica, che coinvolge la nostra corporeità, possiamo trovare un profondo significato.
Innanzitutto, quello di superare la paura e l’avarizia. Restare fermi, ghiacciati nel proprio posto, è evitare di seguire il proprio cammino. La paura irrigidisce. Il cammino, invece, rende morbidi, consente di fluire e di accondiscendere al nuovo. Ci fa andare incontro, abbandonando la sicurezza di quel che lasciamo, al mistero dell’essere, che si nutre di due direttrici: il nostro piede che si muove e il mondo che lo incontra.
Cor-aggio. Serve coraggio, per camminare. Serve alimentare il cuore, serve l’azione che forma il cuore.
Il cuore cammina, guai se non lo facesse.
Camminate sempre, non abbiate paura e non fermatevi, ci sarà sempre un mondo nuovo da scoprire.
Introduzione
UNA DOMANDA CHE CAMMINA
Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere: “Adamo, dove sei?” (Genesi 3,9), non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole provocare nell’uomo una reazione suscitabile, per l’appunto, solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore. Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento.
Adamo, dove sei? Questa domanda insiste come un rumore di fondo lungo il cammino del pellegrino, che viene costantemente invitato al domandare, al dubbio.
La questione posta da Dio al primo uomo riecheggia nell’anima durante il cammino e ricorda che con ogni passo sta segnando una nuova tappa, offrendo una nuova risposta a questa domanda.
Dove sei tu, pellegrino, nell’attimo in cui ti fermi a pensare e il paesaggio intorno ti ricorda il viaggio?
Come sottolinea Martin Buber, la domanda va vista sul versante soggettivo. L’onniscienza di Dio non lascia spazio all’ipotesi che Adamo si fosse nascosto dietro a un angolo: l’invito è rivolto all’uomo, al pellegrino. A colui il quale è in cammino.
Il rilievo topografico della presenza lungo un sentiero, definibile in punti cardinali, è come uno specchio del rilievo interiore che evidenzia un luogo preciso e definito della coscienza, con le sue altezze e profondità.
Nel pellegrinare emergono domande profonde e radicali che ci traggono fuori dalla quotidianità.
Semplicemente camminando, ovvero praticando un’attività che più banale e quotidiana non potrebbe essere, che si realizza nelle pastoie della quotidianità ma nello stesso tempo ci trae fuori dalle stesse, verso un mondo libero: un po’ come il barone di Münchhausen, che si salva dalle sabbie mobili tirandosi per il codino dei propri capelli.
Camminare lungo un pellegrinaggio è di per sé un viaggio nel paradosso, è un’azione gratuita e priva di “senso pratico”, non “serve a qualcosa” di specifico, non è andare da qualche parte perché abbiamo bisogno di andarci. Semplicemente si decide di mettersi in viaggio.
È un tempo di ascesi.
Erri De Luca scrive quanto segue riguardo all’atto di scalare montagne che, come il pellegrinaggio, assume le caratteristiche di una azione fine a se stessa.
Qui più che altrove sono fuori posto. Ho imparato a superare strapiombi, a tenere appigli con un dito, a studiare per settimane i passaggi di una sequenza dura, provarla fino alla giustezza di seguirla in libera. Qua sopra quel poco che ho imparato è nullo. Ma non rispondo a che ci faccio qui, rispondo alla domanda ‘A cosa serve?’ Ecco, per me scalare ha il valore aggiunto di non servire a niente. Nella grande officina quotidiana degli sforzi dedicati a un vantaggio, a un tornaconto, scalare è finalmente affrancato dal dovere di essere utile. Disobbedisce alla legge di mercato che prevede controparte all’investimento, al rischio. Scalare è solo “àskesis” che traduciamo ascesi, ma che in greco non aveva niente di spirituale, era invece esercizio, pratica.
Dove siamo, quindi, noi? Siamo fuori posto, dice Erri De Luca, stiamo “errando”.
Quindi siamo nel posto giusto. Siamo proprio dove dovevamo essere, tra verità ed errare, sospesi come su una cresta di una parete o come un passo che si deve ancora appoggiare.
Pellegrinare, come scalare una montagna, è ascesi: attività che riporta la dimensione spirituale al suo vero ambito, quello della pratica.
Qui, su questa terra, e ora, in questo preciso momento; da consumare nell’ambito irrinunciabile e definito dai limiti del corpo, il nostro “strumento per vivere”, articolato in caducità e fragilità.
Il Buddha storico, Siddharta Śākyamuni, parte proprio dalla dimensione della corporeità, in cui sono padroni malattia, vecchiaia e morte, per il suo viaggio verso il Nirvana, in cui si aprono le porte della Grande Liberazione. E pure ci resta, come il saggio zen di cui si narra in 101 storie zen, che prima dell’illuminazione mangia, beve, dorme e, dopo l’illuminazione, magia, beve, dorme.
Insomma, semplicemente vivendo, abitiamo una contraddizione: tra finito e infinito, tra verità ed errore.
La parola pellegrino del resto deriva dal termine latino peregrinum, che significa straniero, colui che arriva per ager, dal di là dei campi, che non è parte della città, impone di doversi porre in una condizione “dal di fuori”, di ascolto. Una condizione di “fuori posto”, di straniero.
È in tale condizione che emerge spontanea la domanda originaria: Uomo, Adamo, dove sei?.
Fuggirla diventa difficile, mentre si cammina.
Per questo il pellegrino è una “domanda che cammina”, perché l’atto stesso di mettersi in strada è una domanda, una operazione di uscita da se stessi, di “spaesamento”, di distacco dalla civiltà che ci è nota per dirigersi verso il mondo non conosciuto, prendendo fisicamente posizione: come se fossimo noi stessi un interrogativo nei confronti dell’esistenza che si dovrà attraversare e ci dovrà attraversare.
Storicamente, movimenti come sannyasin (i “rinuncianti”, coloro i quali lasciano tutto e partono) dell’India del sesto secolo avanti Cristo, come i fratelli di Francesco di Assisi nel clima spiritualmente torrido dell’Italia del 1200, o come più recentemente Gandhi per il suo sciopero del sale, hanno scelto il cammino per manifestare il desiderio di aprirsi verso qualcosa di nuovo.
La questione infatti riguarda noi stessi ma coinvolge anche gli altri.
La domanda che si pone iniziando il proprio passo sul cammino è talmente radicale che diventa impossibile trattenerla per sé, è come un fiume in piena, si allarga e si diffonde.
Se il viandante che inizia il viaggio diventa una “domanda che cammina”, la sua presenza vagante, la sua stessa testimonianza, diventa necessariamente una domanda anche per chi lo incontra.
La domanda del pellegrino ha caratteristiche di sonorità ampia e si diffonde nell’aria, risuonando come i passi sul selciato.
Non si resta indifferenti di fronte a chi ci passa davanti, siamo costretti ad accorgercene: il pellegrino diventa un modo per sollecitare in noi l’attenzione verso l’altro, di cui forse non ci accorgeremmo se non uscisse dagli schemi a cui siamo abituati.
È una esperienza pratica che ciascun camminante può fare: la precisa forma di pellegrino, navigatore dell’inutile, sollecita al confronto e stimola una reazione. C’è chi si presenta con amicizia sorridendo al viandante, chi lo squadra con aria un po’ infastidita e ostile, chi semplicemente gli domanda curioso che cosa mai stia facendo (per poi magari, come a me è successo con un ragazzino che vendeva frutta lungo la strada, ascoltare il racconto con grande attenzione e offrirmi tre arance in regalo per il viaggio); chi si ferma e saluta calorosamente, facendo intendere che vorrebbe tanto partire anche lui e andare ma non può farlo, ora; chi lungo la strada suona il clacson e sfiora da vicino con l’auto il viandante per un divertimento vuoto, chi lo invita in casa durante il suo passaggio per un caffè e il piacere di un racconto.
Difficilmente si passa indifferenti; chi ostenta indifferenza, semmai, fa chiaramente intendere che la sua disattenzione è voluta, ricercata, che non vuole sentirsi invaso da una stranezza difficile da mettere a fuoco.
Negli ostelli e nei luoghi di accoglienza viene chiesto raramente qual è l’occupazione nella vita, qual è il lavoro. A chi arriva in pellegrinaggio viene chiesto da dove venga e dove stia andando. Al massimo, da quanto tempo sia in cammino.
Il nostro ruolo di cittadini non cambia nel corso del cammino, siamo sempre gli stessi di prima, ma è il cammino che ci cambia perché cambia la qualità dell’interazione possibile. Noi restiamo quel che siamo; studenti, commercianti, impiegati, operai, ma ci viene offerta una possibilità di guardarci, appunto, dall’esterno: dal di fuori del mondo della quotidianità condizionata, semplicemente come uomini in viaggio, senza qualifica.
Da dove arrivi, dove stai andando, quanto tempo dura il tuo cammino? Le domande rivolte al pellegrino in cerca di alloggio sono domande sul tempo, sono di fatto molto simili a quella rivolta da Dio ad Adamo, che con le tre parole “Adamo, dove sei?” inchioda l’uomo alla propria responsabilità, invitandolo a ricercare un senso.
Attorno a queste domande il concetto di utilità si ridefinisce. Si riconfigura l’idea di che cosa possa significare “avere tempo” e se possa mai esistere un tempo da perdere e uno da guadagnare. Emerge come una rivelazione anche l’opportunità di ciò che è normalmente inutile, perché il viaggio del viandante non trova ragione in nessun motivo pratico ma sembra avere molto più senso di tante altre cose.
Lo sforzo del pellegrino camminante è il richiamo all’inutilità del gesto desiderato, un richiamo che potrebbe forse trovare una sintesi nella icastica affermazione dalle epistole di sant’Agostino: “ama e fa ciò che vuoi”. Chiaramente intesa come il punto di arrivo di un percorso, non certo come una scusa per fare quello che si vuole. Ma questa frase almeno ci ricorda che il senso di quel che si fa non dipende da cosa si stia facendo, ma dalla nostra capacità di amare la strada che si sta percorrendo, e dall’amore non può che venire il bene.
Il pellegrino è una domanda che cammina, che si riverbera nella sua esistenza e nelle esistenze di chi incontra, mettendo in discussione il senso del fare quotidiano, rimestando utile con inutile, azione e contemplazione, senso con assurdità della vita.
Sono partito nel 2008 da Fudenji, Monastero Zen che ho molto amato e frequentato. Era per me un tempo di cambiamento, sia dal punto di vista lavorativo che personale, e ho sentito il bisogno di fare qualcosa. L’idea di mettermi in cammino si è presentata da sé, in molti modi apparentemente casuali. Un incontro con Mauro Corona che mi disse “Bisognerebbe lasciare tutto e andarsene a piedi a Roma” ha acceso la miccia. Fudenji era il miglior punto di partenza per me, perché era il punto di arrivo a cui ero fino ad allora giunto nel mio cammino di crescita umana e personale. La scelta dell’inverno e di viaggiare da solo corrispondeva alla mia necessità di silenzio e spazio, così che potesse emergere qualcosa di nuovo.
Così è stato, considero l’esperienza che ho avuto del cammino come una delle più importanti per me.
Ho ritenuto di scriverne perché non si cammina mai da soli ed è importante continuare a chiedersi: “Dove sei?”. Credo che possiamo provare a rispondere a questa domanda solo in rapporto agli altri: camminare è un modo per mettere in relazione.
In questo scritto riporto alcune riflessioni unite a racconti, testimonianze, immagini, secondo un ordine tematico.
Nella prima parte faccio riferimento alla particolarità che ha il cammino di farci capire di essere sulla strada giusta non appena deviamo da questa. Sembra una contraddizione ma in realtà ogni passo porta a una ridefinizione della propria meta, e rendersi conto di questo ci fa capire che siamo sempre sulla strada giusta, che il cammino si compie solo facendolo. “Caminante no hay camino, se hace el camino al andar” (camminante, non c’è cammino, il cammino si fa nell’andare) è un brano spesso citato, tratto dai Cantares di Antonio Machado, che vuole significare questo.
Nella seconda parte cerco di spiegare come l’alternarsi di verità ed errore debba potersi rispecchiare in noi con un profondo sentimento di fiducia, perché solo se ci apriamo a quello che ci viene offerto nel viaggio, senza opposizione, il cammino si può portare a compimento.
Nella terza parte faccio riferimento al “sentimento riconoscente”: quel sentire interiore che fa sì che l’incontro con le persone avvenga davvero, che ci si riconosca come esseri umani e non come interpreti di ruoli socialmente riconosciuti.
Nella quarta parte cerco di dire del “tempo”: di quei momenti di silenzio e di tempo dilatato che si incontrano in alcuni passaggi del cammino, durante i quali è possibile intuire come il tempo “esterno” sia solo una delle possibili chiavi di lettura dell’esistente.
Nel quinto passaggio ricordo come il cammino sia costituito da tracce e segni, e come questi vengano lasciati da noi sul terreno ma anche si imprimano, indelebili, in noi, per dare un senso al nostro passaggio.
Ci sono ancora due parti: la sesta, precedentemente pubblicata nel bollettino del monastero al termine del viaggio. Riprendo in questo capitolo alcun passaggi del cammino e cerco di metterne in evidenza la valenza simbolica e alcuni aspetti intuitivi legati al buddhismo Zen.
La settima, l’ultima, non può che essere la raccolta dei ringraziamenti. Ai molti che ho incontrato e che “mi hanno dato il bel viaggio”, da cui tanto ho ricevuto. Quel che si riceve, si dà: grazie di cuore.
Ma altrettanto ovviamente il primo ringraziamento va a te: per avere in mano questo libro, e per la compagnia che mi stai facendo lungo la strada.
Benedetto Neroni
Quale è la differenza fra un buon libro (divertente, rilassante, istruttivo, emozionante ecc.) ed un libro d’eccellenza ? Semplice: quest’ultimo parla direttamente ai recessi più intimi e profondi dell’anima (a volte sembra addirittura un suo riflesso) e da risposte prima ancora che tu abbia formulato le domande. I libri d’eccellenza (io me ne intendo) sono molto rari, ma posso affermare con certezza che il libro di Marco Boscarato rientra a pieno titolo nella categoria. Come le migliori esperienze nella vita, ho scoperto il libro quasi casualmente, in una delicata fase di transizione della mia esistenza, in cui avevo bisogno di fermarmi, ascoltarmi e riflettere…ma non mi decidevo a farlo. Giustamente errare, a dispetto del suo titolo, ha costituito la spinta decisiva a farlo: proprio come Marco sulla via francigena ho azzittito il fastidioso chiacchiericcio della mente e ho messo in moto le gambe, andando a passeggiare in alta montagna…e quando ero stanco il viaggio proseguiva attraverso la lettura dell’esperienza altrui che (incredibilmente !) rifletteva la mia. Giustamente errare descrive il viaggio universale dell’anima di tutti noi (anima mundi se vogliamo citare Jung) ed è per questo che, al di là delle doverose differenze personali, ho trovato il cammino di Marco così simile al mio. In ogni caso – e questo va doverosamente sottolineato – il libro costituisce una serie utilissima di lezioni (in primis: perdona gli errori, anzitutto i tuoi !), proprio come i Koan Zen o i 36 strateggemmi taoisti e si presta a diversi livelli di lettura (dal superficiale al consapevole), adatti a tutti. Concludendo: libro straconsigliato a tutti, soprattutto a chi non ha paura di mettersi in gioco e di scoprire nuovi aspetti di sè stesso e del mondo
Francesco Vischi (proprietario verificato)
Marco usa il linguaggio con maestria e sensibilità uniche, che scaldano il cuore ad ogni pagina. Confesso che in questa parte della mia vita, sotto i morsi della necessità, da molto tempo non leggevo un libro che non fosse su argomenti tecnici, strumentali, utilitaristici. Così l’animo mi si è come arrugginito, ed alcuni pensieri pian piano si sono insinuati nella mia mente. Uno di questi afferma che tutto ciò che è analisi concettuale, filosofica, sia poco utile. Ecco perché, inizialmente, di fronte ad un titolo così ero perplesso. Con gioia mi sono ricreduto.
Ho scoperto che il libro di Marco è una guida utilissima per chiunque percorra qualsiasi tipo di viaggio, sia materiale che non. È utile soprattutto a chi pensa di essere in qualche modo su un sentiero sbagliato e demonizza l’errore, credendo che errare (!) sia un atto da evitare e da nascondere. Ho scoperto che avevo il profondo bisogno di incontrare un libro così, proprio adesso. Consiglio caldamente questo libro come si consiglia con sincerità l’opera di un buon amico. Grazie, Marco!