“Con calma,” sospirai, “con pazienza.”
Nel frattempo, quell’odore d’alcol nelle narici sfumava via, ricordandomi quasi una diversa fragranza che all’inizio non riuscii a identificare. Caramelle alla menta, ecco, mi tornarono in mente delle caramelle al gusto di menta, dure e appiccicose, avvolte in una gracchiante carta color verde pastello. Con lo sguardo, istintivamente, andai a cercare la sagoma di un vecchio portagioie che si trovava su un comodino in rovere, accanto alla porta della sala. Ricordai le mani della zia, che già da piccola vedevo rugose come scaglie di corteccia, immergersi in quello scrigno e porgermi tre o quattro di quelle caramelline. Aveva sempre e solo quelle, in casa, e si scusava ogni volta con me perché non aveva nemmeno un cioccolatino. E così, puntualmente le tasche delle mie salopette erano gonfie di quelle caramelle alla menta, che nemmeno mi piacevano così tanto.
Adesso, da adulta, mi ritrovai ad averne voglia di nuovo. Forse quel piccolo portagioie – una fedele riproduzione delle manifatture iraniane, decorato con arabeschi e puntellato di gocce dorate – avrebbe potuto ancora custodire qualcuna di quelle caramelle. Sorrisi, guardando la curvatura di alcune mensole di legno sopra il camino. Se l’umidità era riuscita persino a danneggiare i mobili, figuriamoci che poltiglia zuccherina poteva ospitare adesso quello scrigno, ammesso di ritrovarlo in mezzo alle cianfrusaglie collezionate senza criterio all’interno della grande sala.
E poi, eccola lì. Una di quelle caramelle rotolò da sotto una vecchia poltrona, arrivando accanto ai miei piedi. Non mi spaventai, non un sussulto: ormai erano settimane – da quando ero tornata nella vecchia casa della zia per risistemarla, con la vaga intenzione di trasformarla in un affittacamere o un ostello per i giovani avventurieri in viaggio verso la costa – che l’Ospite mi faceva questi strani regali.
Mi chinai per raccogliere la caramella e me la rigirai tra le dita.
Era come se mia zia me l’avesse appena fatta scivolare sul palmo della mano: la carta, lucida e splendente, emetteva bagliori verdastri nel raggio di luce pomeridiana che fendeva l’intero soggiorno.
L’Ospite non era esattamente piacevole, ma non era pericoloso. Non era un fantasma, perché non era mai esistito prima, non era mai stato qualcuno di fisico. Non era un demone, avevo capito ben presto che non aveva intenzione di farmi del male, di prendermi e di consumarmi. Semplicemente, l’Ospite aveva forse atteso da sempre il momento esatto in cui avrei messo di nuovo piede in quella casa, e adesso esisteva con me.
Mi faceva dispetti, quello sì. Spesso mi faceva trovare cornici di fotografie rigirate verso il muro, solo per il gusto di far sì che le voltassi e ne esplorassi i soggetti, i volti, i momenti. A volte, invece, lanciava minuscole esche reminiscenti, dettagli più o meno impercettibili per chiunque tranne che per me, come quella caramella alla menta.
L’Ospite non aveva una vera e propria forma, ma riuscivo ad avvertirlo: era come un tocco impalpabile, o come se avessi avuto l’impressione di sentirmi chiamata pur sapendo di essere perfettamente sola – come d’altronde desideravo stare – in quella vecchia e grande casa scricchiolante.
All’inizio sì, ne fui spaventata. L’Ospite però fu gentile: dal momento che gran parte dei mobili se l’erano sbocconcellati le tarme e gli anni, avevo bisogno di qualche giorno per allestire un posto dove mangiare, dormire, lavarmi. Lui mi diede il tempo per accomodarmi nella camera degli ospiti al piano terra, pulire quel tanto da riuscire a sistemare i miei pochi vestiti in uno degli armadi dove da piccola andavo a nascondermi. Attese che mi fossero riallacciate le utenze, che potessi fare una doccia e organizzare una piccola cucina, utilizzando vecchi bancali come tavolo da pranzo.
E fu dopo quei primi giorni, in tutto quel caricare e scaricare, sistemare, disinfettare, in mezzo a quell’andirivieni di pulviscolo, che iniziai a sentirmi osservata. L’Ospite era lì, forse in uno degli stanzini, magari sotto uno dei lenzuoli impolverati che ricoprivano le poltrone, o dentro uno dei pensili senza ante della cucina.
Nel frattempo, io non potevo rimanere ferma. Non feci caso alle occhiate dubbiose del geometra che mi accompagnò nel sopralluogo della casa, liquidai con indifferenza le domande ansiose delle poche persone che vennero a sapere dei miei piani (“ma sei sicura?”, “scusa, ma come fai a rimetterla a posto tutta da sola?”, “ci metterai mesi, chiama una ditta”). Ignorai le sopracciglia alzate dei tecnici, non mi curai minimamente del pensiero di nessuno. Quello che per tutti gli altri era un progetto stupidamente faticoso e lento, per me era un’occasione d’oro per rimanere sola a occuparmi di qualcosa che richiedesse tempo e impegno. Anzi, man mano che la stima approssimativa della fine dei lavori si allontanava, riuscivo a sentirmi finalmente in pace. Desideravo impiegarci più tempo possibile, annullarmi dietro l’idea di non avere scelta, se non quella di occuparmi della vecchia casa di zia Sandra e basta.
Mi feci sfiorare dal proposito di farne un affittacamere soltanto per giustificare quella ristrutturazione così laboriosa, ma fu il solo accenno di spiegazione che diedi sia agli amici che a me stessa. La vera natura delle mie intenzioni giaceva sepolta come quei mobili, una cosa di cui intuivo la vaga forma, ma che non sapevo definire a causa di un telo polveroso fatto di scuse troppo labili e incertezze troppo ben difese.
Per un po’ riuscii a mantenere in piedi la bugia che non mi mancasse nulla di quello che mi ero lasciata dietro. E, con tutta probabilità, sarei riuscita senza troppi problemi a crederci ancora per molto tempo, se non fosse stato per l’Ospite e i suoi tiri mancini. Nella mia mente avevo allestito una visione falsata della realtà, una bella scenografia in cui mi accomodavo ogni volta che sentivo il passato punzecchiarmi da dietro le quinte.
Era facile fingere, mi riusciva bene scivolare in una più conveniente versione alternativa della mia vita.
Avevo persino cominciato a credere di poter continuare così per molto più tempo di quanto me ne servisse, come se potessi realmente dirigere il mio inconscio senza conseguenze.
Già mi immaginavo, a un certo punto, addormentata nella calura estiva sulla sedia a dondolo nel portico, come l’anziana vedova della casa accanto a quella della zia. Era una signora minuscola, era sempre stata piccola di statura e di corporatura, ma il tempo l’aveva consumata ben bene, facendola rimpicciolire ancora di più con l’avanzare degli anni. Durante le vacanze estive la osservavo trasportare il ventilatore a piantana fuori, nel portico, e orientarlo verso la sedia a dondolo vuota accanto alla sua.
Quel minuscolo rituale giornaliero si ripeteva ogni giorno, e fu una delle pochissime cose che non chiesi mai alla zia di spiegarmi: non ne comprendevo il senso, ma percepivo una velata e assopita tristezza, e ne avevo paura.
Ripensandoci da donna adulta, in quel momento stavo anche io dando aria all’aria, frescura e ristoro a un vuoto utile solo a illudermi che la sedia a dondolo accanto alla mia non fosse più vuota.
Tutto ciò che davvero desideravo era ristrutturare quella casa e non pensare a nient’altro, sperando di anestetizzarmi. Ma se fu facile ignorare le perplesse aspettative di coloro che mi aspettavano fuori, non lo fu altrettanto per quelle dell’entità che mi attendeva dentro.
IMPERATIVO N°2
La presentazione dell’Ospite fu cortese, ma decisa. Era necessario per lui, come poi riuscii a scoprire più tardi, che accettassi fin dall’inizio le regole della convivenza. Non aveva lasciato che crescesse tutta quell’edera nel porticato perché io arrivassi e la strappassi con facilità. E proprio una di quelle mattine in cui mi dedicai alle erbacce inerpicate lungo la balaustra, lui scelse di affacciarsi alla finestra: e più che per farsi vedere, fu per farsi sentire.
Ciò che in realtà vidi io, alzando lo sguardo per individuare da dove provenisse uno strano rumore, era un ammasso di bastoncini avvolti in una curiosa ragnatela. Quando mi avvicinai per osservare meglio quell’oggetto così insolito, dal sapore quasi esoterico, mi resi conto che avevo ritrovato uno di quegli acchiappasogni che piacevano tanto a mia madre e alla zia. A volte passavamo interi pomeriggi a fabbricarli: mi mandavano in esplorazione in giardino a raccogliere i ramoscelli più dritti e asciutti, poi correvo a consegnare il mio bottino in cucina, dove già s’alzava una nuvola di vapore dal bollitore dell’acqua. Bevevamo tè al patchouli e io giocavo con i lunghi capelli che la zia aveva smesso di tingere già da tempo.
La mamma poi, di tanto in tanto, appendeva un acchiappasogni nuovo (“i filtri delle cose vanno cambiati”) sopra il mio letto, e io ogni volta le chiedevo a cosa servisse, anche se lo sapevo benissimo. La verità era che mi piaceva sentirle spiegare, con quella sua voce così morbida e calda, che aveva preparato un amuleto magico per proteggermi dagli incubi notturni. Amavo come muoveva le dita per mimare il movimento dei mostri incagliati in quella rete, il confine netto delle ombre cinesi che si ritagliavano sul muro al chiarore dell’abat-jour sul comodino, il verso e le vocine con cui imitava i loro lamenti, “e adesso che non possiamo più farle del male, che cosa faremo”, e ridevamo tanto.
E adesso che non possono più farmi del male, che cosa faranno? Ma ora i mostri s’erano disincagliati, s’erano liberati dal filo di seta di quella ragnatela tessuta dall’amore, e mi stavano venendo a cercare. La preda incastrata nella tela ero diventata io: li sentivo, la notte, mentre si strofinavano le zampe come insetti, e aspettavano chissà cosa per venirmi a divorare.
E adesso? Era una domanda che non volevo più pormi in vita mia.
E adesso? Quando lui si è chiuso la porta dietro di sé.
E adesso? La malattia della mamma.
Non mi chiesi e adesso? Quando rimisi piede in quella casa, ma forse l’Ospite sì.
luvigio (proprietario verificato)
” E per quanto amare, dolorose, angoscianti siano le cose di cui si scrive, lo scrivere è sempre gioia, sempre <>” – scriveva Leonardo Sciascia. Dalla scrittrice, le parole sgorgano con fluidità e leggerezza, portando un carico di bella scrittura necessaria per affrontare il tema della sofferenza declinata in più modi, l’autrice raggiunge lo “stato di grazia” e il lettore lo avverte. E poi, l’interrogativo. L’ospite chi è? Ciascuno trova la risposta che vuole trovare, lasciando per lungo tempo il lettore a riflettere, non tanto sulle vicende della protagonista, quanto sulle reazioni che ciascuno di noi ha nell’affrontare le difficoltà.
Buona lettura a tutti!
SERENA SANNINO (proprietario verificato)
Ricordati sempre fly down