1 . UN UOMO E L’INSANA AVVERSIONE PER L’ATTESA
Voleva innamorarsi di ogni parola.
Non prendendo nemmeno in considerazione il tempo morto,
o la paura per la pausa successiva.
Non aveva mai imparato a vivere le attese.
Si sentiva come un analfabeta alla presentazione di un libro.
Fuori posto. Fuori moda. Ma non fuori onda.
La stazione brulicava di intermittenti sagome che, andando
avanti e indietro, speravano di giustificare l’ossigeno inalato.
L’alba aveva già schioccato le dita. Sempre troppo tardi.
Un piccolo cantuccio fra l’inizio di un giorno e la fine di una
pioggia infinita. Una stazione e il suo conforto. Le gocce e l’odore
di umido trasportavano lui e chiunque altro verso pensieri diversi,
da cui ci si lascia inghiottire, fino a uno di quei
posti che vive soltanto alla fine di un viaggio.
Bisogna saper toccare i propri pensieri. Indirizzarli col
palmo e raccoglierli in un gomitolo.
Escludi così le attività cerebrali inutili. Scosti il superfluo.
Il suo gomitolo conteneva il treno.
L’arrivo del treno, il rumore delle rotaie e i finestrini, vicini,
rendevano sopportabili la stazione, il sudore di un vecchio
accattone e anche il proprio stato d’animo.
Ma la mente umana gode di vita propria, e iniziò a ripetere
qualche motivetto di cui non ricordava il titolo. Si sposava
discretamente con il fischio del treno.
La lasciò fare.
I treni ormai non fischiano più. E i titoli non hanno più
niente da dire.
A un tratto decise di usare l’immaginazione, invece che subirla soltanto.
Provò a guardarsi in terza persona. A posizionarsi nelle pupille
dei presenti, a lui così indifferenti.
Che impressione stava dando?
Un nostalgico turista sulla via del ritorno o un affaccendato
uomo d’affari? L’universo gli parve ridursi a un’ombra anonima e maleodorante.
All’improvviso si accorse che si sentiva stanco, ma di una
stanchezza senza sonno. Il torpore tipico di chi è stato addormentato
più del dovuto.
Il grande orologio della stazione gli ricordò del suo netto
anticipo sull’arrivo del treno. Dedicò una rapida occhiata alla
sala d’attesa.
La tentazione era forte. L’arte dell’aspettare appresa direttamente dalla fonte.
Scelse accuratamente un seggiolino privo di ospiti limitrofi,
perché l’attesa si assapora nella solitudine. Altrimenti è chiacchiericcio,
empatia o qualsiasi altra forma di diavoleria sociale.
Poggiata la valigia, mirò con un occhio al tabellone delle
partenze. Con l’altro filmava periferico, per essere certo che
nessuno lo stesse osservando. Cinquanta minuti. Avrebbe
ripreso in mano il gomitolo.
Simpatico ecosistema, quella sala. Uno zoo a cielo chiuso
con tante storie, piccole parvenze di normalità, mal distribuite
fra volti e bagagli chiusi alla buona. Intanto lui, passeggero
di se stesso, regalava alla propria barba sfregamenti nevrotici
mascherati da carezze. Il tutto però a un centimetro dall’altrui
vista. Ogni suo gesto era guardingo, si difendeva da chi avrebbe
potuto incollarci sopra il proprio punto di vista. Le dita a indicare
sono sempre così leste. Che rimangano al caldo, nelle
tasche, a sistemare gli orli disordinati di mutande mai stirate.
Neanche il tempo di sfiorare il successivo pensiero, però, che fu
subito calpestato dalla presenza di qualcuno che gli si era seduto
accanto. Maledetto angolo cieco. Imperfezione dell’inquadratura.
E ora quel qualcuno gli avrebbe anche sputato una domanda.
Ne era certo.
Come se le origini del mondo fossero venute fuori da un punto interrogativo.
Sintomo compulsivo di cattiva educazione.
«Mi scusi. È vero che il treno per… farà quasi un’ora di ritardo?»
Perfetto. Domanda più voce femminile.
Il peggio ha un sadico senso dell’umorismo.
2 . UN PADRE VERSO UN TRENO NON SUO
Semaforo giallo. Semaforo rosso.
Possedeva vari difetti, ma l’essere ritardatario non era fra
questi. Non ne avrebbe fatto perciò una tragedia.
Approfittare di quegli attimi, fermo a un incrocio, per parlare con
sua figlia. La sedicenne però preferiva il telefono e le foto delle sue amiche.
La guardava come si segue una scia dopo essersi persi la stella.
Padre lo diventi, e poi vai a braccio. Tenti di non farti seppellire dagli errori.
Giocherellava con le dita sul volante nella speranza di
trovare la goccia di saliva giusta. Quella che avrebbe dato il
La a una conversazione.
Semaforo verde. Saliva deglutita. Statale per statale, tanto
valeva provare a riordinare le idee.
La gita della figlia l’aveva vista come un segno. Era venuto il
momento di confessare ogni cosa. In cucina o in salotto, non
vi era differenza. Guardando sua moglie dritta negli occhi, era
disposto a incassare qualsiasi sua reazione.
“Una confessione fa bene al cuore” diceva una carta di un
cioccolatino. Da troppo tempo ormai, per evitarle uno specifico
dolore, la stava omaggiando di un male continuo.
La canzone incomprensibile che sua figlia aveva imposto
all’abitacolo lo riportò, per un attimo, all’asfalto e alle linee
tratteggiate.
Il peso di un pensiero, quando supera il livello di guardia,
porta a un repentino cambio cognitivo.
Per riprendere fiato, dopo una lunga apnea.
Ma non durò abbastanza.
E tornò da lei.
Donna taciturna e madre sempre presente.
Innamorata, un tempo. Ora semplicemente presente. A mo’
di collante fra casa e vita vissuta.
A spaziare nei ricordi si corre sempre un bel rischio. Sono
anelli concatenati, e non hai ben chiaro il successivo. Anche
se saprà sempre abbracciarsi al precedente. E la memoria
andò a quei momenti bui.
La depressione come ombra sulla loro vita e sul loro rapporto.
Vide l’uomo fragile alla guida dell’automobile. Lo rivide
steso sul pavimento del bagno, incapace persino di pensare.
Per quante notti era stato messo a letto? Quante volte era
stato lavato e asciugato come fosse un figlio? Noi crediamo nella
forza degli altri, arrivando persino a invidiare la loro tenacia nel
volerci bene. Li vediamo come dei privilegiati. Ebbe un leggero
rimorso, seguito a ruota da un piccolo ripensamento. Chi era lui
per comprendere la radice di una confessione? È così sottile la
linea che divide un egoistico senso di liberazione da una sincera
espiazione delle proprie colpe.
I contorni della stazione ferroviaria erano ormai visibili.
Riuscì così a scrollarsi dalle spalle puerili scuse e forfora da codardo.
«È ancora presto. Voglio un cornetto.»
La voce della figlia lo trascinò verso il parcheggio.
Lo spegnersi del motore assunse un leggero sapore di liquirizia e silenzio.
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