Ogni giorno aspettavo con impazienza la passeggiata serale. Non vedevo l’ora di indossare il berretto e camminare. La mia casa era al quinto piano di un palazzo di periferia. Solitamente me ne stavo seduto in poltrona tutto il giorno, poi, alle sei e mezzo, mi alzavo, indossavo la giacca e uscivo.
Quel giorno, di fronte all’ascensore, incontrai un ragazzino. Era il nipote della signora Maria, la mia dirimpettaia: una vecchia scorbutica.
«Buonasera» dissi.
«Salve» rispose lui.
Entrammo in ascensore, dentro c’era odore di stantio. A dirla tutta, era lo stesso fetore che si sentiva in tutto il palazzo.
«Vai a giocare con gli amichetti, giovane?»
«Sto andando a comprare le sigarette per la nonna.»
La signora Maria era una di quelle fumatrici incallite. Non avevo un gran rapporto con lei, ma in passato mi era capitato di prendere un caffè in casa sua: le pareti erano ormai gialle e, lì, il fetore condominiale si trasformava in odoraccio.
Arrivati al piano terra, il ragazzino mi salutò e corse via. Attraversai la strada e mi incamminai verso il capannone che una volta era sede della Bertoli S.p.A.
Tutte le volte che uscivo mi domandavo se cambiare percorso o meno. Era un’abitudine anche quella. Ma poi decidevo sempre di andare sul sicuro. Che poi, sicuro di cosa?
Fin da subito, iniziavo a parlare da solo, stando attento a non alzare troppo la voce.
«Quanto era bello prenderla in giro. E come se la prendeva, lei» sogghignavo compiaciuto. «Permalosa come nessuna» dicevo, con il pensiero sempre a mia moglie. «Quando le dissi: “Bianca, questa zuppa è strana. Ha un sapore diverso, non è che ti ci è caduta la dentiera?”»
Procedevo a passo lento con le mani incrociate dietro e scuotevo la testa divertito. Pensavo sempre a lei durante le mie passeggiate. Erano pensieri dolci che mi aiutavano a non sentirne la mancanza. Il buonumore di un istante: poi la notte cadevo nella tristezza.
Calpestando quel viottolo dietro casa, cercavo persone per non rimanere solo e le trovavo nei miei pensieri. Anche perché lì intorno tutto era piatto e senza un’anima. Così, la mia mente viaggiava nei meandri di una vita, passava per luoghi ed epoche diverse. Salterellava avanti e indietro. Non si fermava un attimo. Era giovane ed energica.
Me lo avrebbe detto anche il dottore pochi giorni dopo quella sera: «Novant’anni sono un bel bagaglio da portarsi in giro» disse prescrivendomi goccioline per dormire.
«Eh, già!» feci rimanendo seduto alla scrivania.
«E lei se li porta davvero bene!»
«Grazie, dottore. Sono solo» dissi. «Qualcuno, ogni tanto, devo ricordare e allora ci vuole questa» e indicai la testa.
Di sale in zucca ce n’era ancora e, al momento, era la miglior diagnosi che potevo desiderare. Avevo un po’ di dolori su tutto il corpo e qualche acciacco in qua e là. Niente di più. Camminavo gobbo, però. Il pensiero di Bianca era intervallato dalle visioni delle nuvole sparse nel cielo sopra di me. Immaginavo sempre che lei, Bianca, se ne stesse a sedere là, proprio sulla morbidezza di quelle nuvole.
Continuando a camminare, la mia mente si spostò ai tempi in cui lavoravo all’azienda agricola, e mi ritrovai a dire: «Che coglione, quel Gianni! Non era mica colpa mia se ero più veloce di lui in officina». Al tempo, avevo ventisette anni. Fu un bel periodo della mia vita. Forse la mia immaginazione era arrivata lì, perché ai tempi il buon Gianni, oltre che il lavoro, cercò di portarmi via anche la ragazza. Ma lei era innamorata di me. Non mi avrebbe mai lasciato per quel buono a nulla.
Scorsi una panchina lungo il sentiero. Mi sedetti.
Dopo pochi minuti, si avvicinò un altro vecchio: «Buonasera, posso?» disse reggendosi a un bastone.
«Prego.»
Si mise a sedere con goffaggine. Poi, fece un sospiro e iniziò: «Ho lavorato in quella fabbrica. Ho passato cinque anni lì dentro, fino a quando è stata venduta». Fissava lo stabilimento in rovina mentre raccontava. «Mi chiamo Cesare.»
«Pietro, piacere. Anche mia moglie ha lavorato per la Bertoli: era in amministrazione.»
«Come si chiamava? O meglio, come si chiama, mi scusi.»
«È morta. Dodici anni fa. Bianca. Era una delle segretarie storiche, là dentro. Ci ha lavorato più di trent’anni» replicai con lo sguardo fermo sulla fabbrica. Intanto il sole stava scomparendo proprio dietro la Bertoli S.p.A.
«Aspetti un attimo: mi ricordo di sua moglie. Bianca. Ma sì, certo! Io lavoravo in produzione, invece.»
«Ce l’ha ancora una moglie, lei?» domandai rozzamente.
«Sì, viviamo qui vicino. Nel palazzone grigio» e lo indicò.
«È fortunato, allora. Ho sempre pensato che sarei invecchiato assieme a mia moglie. Prendermi cura di lei è stato, fin dal primo momento che l’ho incontrata, il mio desiderio più grande.»
«E c’è riuscito?»
«Sì.»
«Allora sarà fiero.»
«Avrei preferito continuare a esserlo» risposi affranto seguendo con lo sguardo la corsa di un cane sciolto.
L’anziano si alzò aiutandosi col bastone. Prima di salutarmi, disse: «Venga a trovarci, un giorno di questi. Sarei felice di ospitarla. Lo sarebbe anche mia moglie».
Il cane, in lontananza, abbaiò.
Annuii e rimasi ancora un po’ sulla panchina. La facciata della fabbrica era piena di scritte colorate fatte con la bomboletta spray. Una di queste diceva: “Benvenuto”. Quella parola catturò la mia attenzione.
Quando il sole sparì quasi del tutto, mi incamminai verso casa. Avvicinandomi al palazzo, sentivo schiamazzi provenienti dall’atrio. Entrai e vidi scene a me sconosciute: la mamma che sgridava il figlio, il padre che, disinteressato, parlava al telefono, gli zii che ridevano con le nipotine. Era vita, quella. Così, passai dritto tra l’indifferenza generale. Uscito dall’ascensore, al quinto piano, sentii il volume altissimo della televisione della signora Maria. Girai lo sguardo verso la sua porta, esitai un attimo, poi entrai in casa.
Mi scaldai quello che era avanzato dal pranzo. Poi, presi un album di fotografie. Mi ricordavo che, tra le tante, ce n’era una di Bianca all’interno della Bertoli S.p.A., nella zona di produzione. Provai, senza successo, a scorgere il tizio che avevo conosciuto poco prima.
Per un attimo, mi prese anche un attacco di gelosia: passò tutto, mentre ammiravo il volto di Bianca in una fotografia in bianco e nero. Gli occhi si inumidirono.
Andai in bagno per lavarmi, presi le goccioline per dormire e mi misi sotto le coperte.
La mattina, mi svegliai alle cinque per fare colazione. Riempii la caffettiera e misi a scaldare il latte. Solitamente, fino alle otto non uscivo. Quelle tre ore erano forse le peggiori della giornata. Non sopportavo l’idea di svegliarmi senza avere nessuno accanto. Per fortuna, fuori, mi aspettava gente. Appena mi ritrovavo all’aperto, improvvisamente mi figuravo immagini di persone. Incominciavo a parlare tra me e me ed ero, in qualche modo, felice. Distratto. Tra la gente del quartiere, c’era addirittura chi pensava che ero un matto: «Quello parla da solo» sentivo dire di tanto in tanto da persone che passavano vicino.
E invece sono sano come un pesce, poveri idioti!, pensavo.
Passeggiando sconfiggevo l’abbandono. Cosciente che avrebbe potuto uccidermi. Sì, sarei potuto morire di vuoto.
A pranzo, rimuginai sull’invito che avevo ricevuto il giorno prima e decisi di accettare.
Il pomeriggio, incontrai Cesare alla panchina. Dopo un po’ di chiacchiere, approfittai per dirgli che mi avrebbe fatto piacere cenare con lui e sua moglie.
«A domani» disse Cesare prima di andar via.
«Sarò puntuale» promisi.
Quel pomeriggio, mi ero addormentato sulla poltrona con la TV accesa.
Quando mi svegliai erano le cinque. Immediatamente, mi spostai in camera e aprii l’armadio.
I vestiti odoravano di chiuso: scelsi una camicia. Volevo avere un bell’aspetto di fronte a una donna. Erano anni che non ne incontravo una da così vicino.
Cesare mi aspettava al solito posto. Fui puntuale, e insieme ci avviammo verso il suo appartamento.
Entrati, la moglie ci venne incontro ed esclamò: «Salve, benvenuto» quella parola suonò familiare. Poi continuò: «Piacere, Silvia».
«Pietro» le strinsi la mano ed entrai.
La casa era in ordine. C’era odore di zenzero. Diedi uno sguardo e vidi che la tavola, nel tinello, era già apparecchiata. Una luce bianca illuminava le posate lustre e i piatti di porcellana.
«Vino?» chiese Silvia, una volta a tavola.
«Grazie, appena un bicchiere» risposi persuaso.
«Io e mio marito non ne beviamo, spero sia buono.»
«Lo sarà sicuramente.»
Avevano comprato una bottiglia per me. Rimasi sorpreso, e il pensiero andò all’ultima volta che qualcuno mi aveva comprato del vino: la vigilia di Natale di dodici anni prima. Bianca aveva messo sulla tavola un Chianti Classico. Morì un mese dopo.
Tornai al presente, volevo godermi la bella compagnia. Bianca ne sarebbe stata felice.
«I nostri figli vivono all’estero. Abbiamo quattro nipoti, ma non li vediamo mai. E lei, invece? Ha figli?»
«No» e diedi un sorso. Nel silenzio si sentì il rumore del vino che scendeva in gola.
«Mio marito mi ha detto che lei è vedovo.»
«Già, da un po’ di anni, ormai. E da allora non ho più mangiato a tavola insieme ad altre persone» replicai seguitando a deglutire. Poi aggiunsi: «Fino a oggi».
Per tutta la cena, non fui esattamente un chiacchierone, ma era prevedibile: ero fuori allenamento. Loro capirono il mio bisogno di sentir parlare gli altri. Così, raccontarono storie. La cena fu piacevole: sembrava di conoscerli da sempre. Cesare parlò anche dei suoi anni alla Bertoli. Concordai con alcune sue critiche a riguardo, ma mi guardai bene dal parlare male di quel posto tanto caro a mia moglie.
Alle nove e mezzo, misi la giacca per uscire. Un po’ mi dispiacque.
Arrivato a casa, stavo infilando le chiavi nella porta, quando non potei fare a meno di sentire il rumore della televisione della signora Maria. Le suonai. Ci mise un po’ per arrivare alla porta.
«Pietro» mi fece. «Che succede?»
Rimasi sulla soglia della porta con il berretto ancora in testa. Dissi: «Stavo pensando: le andrebbe di venire a pranzo da me, domani?».
Maria rimase attonita. Poi esclamò: «Porto le lasagne».
«Al sugo di carne?»
«Non faccia lo schizzinoso. Andranno bene. Ha un microonde?»
«Sì.»
«Bene» richiuse la porta e con essa anche il tanfo di casa sua.
«Buonanotte» dissi mentre la porta sbatteva.
A casa, mi coricai e iniziai a parlare con Bianca, proprio come se fosse lì accanto a me: le raccontai della cena, dei miei nuovi amici e delle loro storie. Le dissi pure che l’indomani avrei pranzato con Maria. Vidi il suo sorriso. Decisi di non prendere le goccioline quella sera. Mi addormentai subito.
Luciano (proprietario verificato)
Consiglio assolutamente l’acquisto di questo libro di racconti. Ogni racconto è diverso dall’altro per ambientazione e caratterizzazione dei personaggi, ma allo stesso tempo sembra esserci un sottile filo che li unisce. Quello del vivere. L’autore ci racconta la vita, riportandoci e facendoci vivere emozioni che tutti ben conosciamo, ma che trovano nei suoi scritti valorizzazione e concretizzazione nella loro essenza e dei risvolti che ci spingono a riflettere e, forse, a cogliere maggior valore in quello che proviamo. Troviamo sempre uno spunto di riflessione per spingerci un grandino più in alto in questo eterno viaggio che è l’apprendimento del vivere.
Complimenti all’autore
Alessandra (proprietario verificato)
I racconti di Daniele parlano di persone. Di vita. Di emozioni. Di quanto, a volte, sia complicato percorrerla la vita e di quanto , allo stesso tempo, sia fonte inesauribile di ricchezza, di apprendimento, di resilienza, se ci concediamo di ascoltarla. I personaggi che incontriamo nei 16 racconti sono persone diverse, per età , provenienza, estrazione culturale e sociale, ma in ognuna di esse possiamo riconoscerci. Non sempre nello “essere” esteriore , nel personaggio che interpretano o nella loro esistenza, ma sicuramente in quello che provano. Perché l’amare , la sofferenza, la gioia, il sentirci in gabbia, il rinascere, l’espiazione e il perdono, la voglia di vivere e ricominciare, il calarsi nei lati più oscuri o più chiari di se’ stessi sono tutti vissuti che accomunano il genere umano. Ognuno di noi. Daniele riesce a portarti in questo viaggio nell’ essenza dell’umanità con una scrittura profonda e “semplice” allo stesso tempo, chiara, “scorrevole” , con un linguaggio che stringe la mano al cinema e hai la sensazione di essere in un viaggio on the road in una cabrio, mentre l’autoradio risuona un pezzo dei Creedence a tutto volume dalle casse. Buona lettura, buon ascolto, buona visione
Luca Fedele (proprietario verificato)
Ho già letto le altre storie di Daniele Pratesi e ti riempiono il cuore. La delicatezza, la passione e il ritrovarsi sempre sono solo alcuni dei sentimenti che che affiorano leggendo le sue storie. Aspettavo con ansia che uscisse il primo libro