Mia madre aveva gli occhi tristi quando mi vide partire per Pisa. Era lo stesso sguardo che le si piantava in volto quando avevo la faccia tosta di schifare i regali che mi faceva insieme a papà. Ora la guardavo fuori dal finestrino, sulla banchina, con le braccia conserte. Papà non c’era, perché era a lavoro quella mattina.
Mi aspettava un lungo viaggio, forse il primo dopo tanto tempo. Più di sei ore da solo in treno mi separavano dal mio primo anno di università. Guardai fuori dal finestrino per tutto il tempo per non farmi travolgere dalla paura. Fissavo il paesaggio scorrere fuori dai vagoni.
Era una cosa che facevo spesso quando ero inquieto: cercare un fermoimmagine nella rapidità che scorgevo fuori; era la stessa rapidità che sentivo tribolare dentro di me e per questo cercavo stabilità. La cercavo al di fuori per non chiudermi in me stesso, per non attivare quel meccanismo di difesa che mi proteggeva dalle ansie e dalle paranoie.
Guardavo fuori e pensavo.
Quel giorno il paesaggio non mi permetteva di farlo più di tanto. Mi lasciavo alle spalle una provincia fatta di gallerie decrepite, boschi non curati, sterpaglie e passaggi a livello sperduti nelle contrade di qualche paese deserto. Solo alla fine del viaggio la strada sarebbe diventata bella. E più aspettavo quel paesaggio rigoglioso e più la paura dentro di me diventava l’unico fermoimmagine.
Cercavo distrazioni e motivi per pensare ad altro. Provai a chiamare al telefono mia madre. Cercavo di farmi rassicurare sul fatto che non avessi dimenticato nulla di importante a casa, ma era la decima chiamata in un giorno e io volevo solo sentire una voce che mi avrebbe calmato. Ma quell’ennesima volta al telefono, dall’altro lato, c’era mia nonna. Quella mattina mi aveva già telefonato per augurarmi buon viaggio. Avevo selezionato il suo numero per sbaglio nella fretta di scorrere l’elenco chiamate. Lei, sentendo di nuovo la mia voce, si era un po’ preoccupata.
Io non telefono quasi mai a nessuno: le voci elettroniche dall’altro capo mi disturbano; non sopporto i tuuu tuuu dei numeri occupati e detesto le perdite di segnale quando sono al telefono con una persona a cui voglio bene. Con loro preferisco parlare dal vivo. Come con mia nonna, anche se lei preferirebbe che la chiamassi più spesso di quanto non faccia.
Continua a leggereEppure, quando vado a trovarla, stiamo praticamente tutto il tempo in silenzio. Lei a guardare i programmi TV dove ristrutturano le ville di campagna, io a mangiare la ciambella che mi faceva trovare sempre quando andavo a casa sua.
Mi indica lo schermo e sorride quando c’è un’inquadratura che le piace e che sa che potrebbe piacere anche a me. Io ricambio il sorriso mentre la ciambella si sbriciola tutta sul tovagliolo e faccio attenzione a non farla cadere sul divano. Lei se la ride e mi domanda se è buona anche stavolta, ma già conosce la risposta.
Lei era riuscita a inquadrarmi. Sapeva che con gli occhi ambivo a luoghi lontani, quelli al di là delle gallerie. E l’ennesima, che attraverso in treno, disturba la nostra telefonata.
Nonna si concentrava spesso sui miei occhi: “Sono sempre bellissimi” mi diceva.
“Sono solo marroni” le rispondevo io.
E sento che, mentre il segnale va e viene, me lo ripete anche questa volta per telefono. Lo dice per tranquillizzarmi, perché sa che due chiamate in un giorno non sono da me.
Quando la linea cade giù, per la prima volta non detesto una telefonata, e in me rimane una certa tranquillità per tutto il resto del viaggio. Per la prima volta, la sicurezza che cercavo la trovo dentro me stesso.
Enrico ed Elena
A Pisa abitavo in via Vespucci, un nome che credevo sarebbe stato di buon auspicio e che avrebbe saputo condurmi verso una risoluzione serena del mio percorso universitario.
Lo pensava anche il mio coinquilino Enrico, un ragazzo della mia stessa città che conoscevo dalle elementari e con cui avevo riallacciato i rapporti sapendo che anche lui sarebbe andato a studiare a Pisa. Ci accomunavano le medesime ansie e paranoie per l’università, e decidere di viverle insieme nella stessa casa ci rassicurava.
Trovò lui le camere in affitto in via Vespucci e si occupò di tutto: a me non era mai importato molto di tutte le carte e cartacce attorno alla burocrazia di questi processi, per questo non potei lamentarmi di quanto era decrepita la casa, dei suoi muri pallidi e dei soffitti altissimi.
Non mi lamentai nemmeno del fatto che la via in cui abitavamo raccoglieva i peggiori soggetti del quartiere: tossici, ubriachi, molesti, qualcuno con un paio di TSO alle spalle lasciato a se stesso. Non mi sorpresi quindi del fatto che una ragazza che Enrico voleva portarsi a casa per scoparsela gli diede buca. Conoscere persone in queste condizioni diventava complicato.
In un timido tentativo di mettere almeno fuori un piede dalle mie zone di comfort, una sera andammo a una delle prime feste universitarie dell’anno accademico, nonché della nostra vita da matricole.
Enrico era un tipo silenzioso, ma era quel tipo di silenzio che sapeva farti compagnia. Parlava al momento giusto, scherzava al momento giusto. Ti aiutava, era sempre disponibile, e quando arrivava il momento di farsi i cazzi suoi andava in camera a farsi i cazzi suoi. Venne volentieri alla festa nonostante sapesse che quell’occasione non era adatta a stare in disparte. Era Halloween e la serata era a tema. Da piccolo a queste feste ci andavo sempre all’ultimo perché non avevo mai un costume nuovo.
“Voglio essere Peter Pan” dicevo a mia madre. E finivo per indossare un finto uncino di plastica, un cappello ripescato dal fondo dell’armadio che ricordava lontanamente quello di un pirata, e i baffi disegnati con la matita.
Finivo per fare il cattivo per pigrizia.
Anche se queste situazioni non mi piacevano, mi sacrificai comunque per tirare su il morale a Enrico. Lui, con mia grande sorpresa, abbracciò la tradizione delle feste in maschera.
«Non so te, ma io mi travesto» mi disse.
Optò per l’inflazionatissimo trucco sul volto à la teschio messicano, e mi riportò con i piedi per terra.
Lo persi tra la folla mentre andavo alla festa, incantato dalle luci di piazza dei Cavalieri che in quella sera d’autunno donavano un’aria spaventosa anche alla Scuola Normale. In un polo lì vicino si svolgeva la serata.
Io guardavo i busti incastonati sotto le finestre, oscurati dal tetto che tagliava le luci della piazza, e sentivo la mia voglia di grandezza fermarsi di fronte a tutto quello.
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