Mi alzo mezz’ora prima del solito. Fortunatamente il bagno è libero, così posso iniziare la giornata facendomi la barba. Una mattina qualsiasi.
Sto per varcare la soglia della cucina. C’è la mamma, ai fornelli, che prepara la moka. Ettore è dietro. Ha la testa immersa nel collo di lei. Le dita di lui, vigorose, che affondano dolcemente nei suoi fianchi. Si levano trenta centimetri buoni, ma si incastrano alla perfezione. La luce che filtra dalle finestre li avvolge in una cornice bianca. Un quadro. Lei sposta la testa per fargli guadagnare terreno. La bacia. Le dice cose. Lei gli sussurra di fare piano. Ridacchiano.
Ogni attimo di condivisione è un premio per ciò che hanno fatto per stare insieme.
Ettore è di famiglia benestante. I nonni avevano un’impresa che trattava la latta. Stavano bene. Il nonno viene a mancare tra la prima e la seconda guerra. La nonna prende in mano tutto e commette un errore tipico: dà la precedenza assoluta al cliente più grosso. Quello che dà più lavoro. Mette da parte gli altri più piccoli, fino quasi a dimenticarli. Il cliente grosso fallisce e di colpo si trovano a piedi. I clienti piccoli hanno poca voce, ma tanta memoria.
Col tempo, si leccano le ferite e tirano a campare. Lui fa tesoro delle scelte della madre e si fa una promessa: non avrebbe mai più permesso un altro fallimento del genere. Se il portone del castello deve cedere, non deve essere a causa di un soffio di sufficienza.
Ettore è figlio unico. A trentaquattro anni non è sposato, non ha figli e non ha una relazione. Su di lui grava l’eredità del cognome Boschi, qui a Malistri. Per lui, però, c’è solo il lavoro.
Un giovedì, passando per il mercato, vede una ragazza che lavora al banco della frutta. Ha i lineamenti dolci e i capelli nocciola.
Non capisce più niente.
Torna a casa e lo racconta a sua madre. La nonna si oppone prima ancora che esista una possibilità. “Una che lavora al mercato non è un buon partito”. C’è da conservare lo status.
Lui inizia ad andare al banco della frutta, tutti i giovedì.
Sente parlare le signore tra le bancarelle e scopre che è la figlia di quelli del banco. Maria. Una decina scarsa di anni in meno. Figlia unica anche lei.
Trova il coraggio e compra una mela.
Da lì, ogni giovedì la stessa cosa.
Dopo un paio di mesi, lei prepara già il sacchetto, quando lo vede arrivare. Lui le chiede furtivamente di uscire, lei accetta.
La nonna continua a screditare la ragazza. Ne presenta altre a Ettore. Figlie di amiche. Amiche di amiche. Ettore non ci sente.
Il loro primo appuntamento consiste in una passeggiata lungolago e in un gelato alla crema. Si piacciono. Si comprendono.
È il primo appuntamento di tanti.
Un giorno la porta a vedere un posto. Raggiungono furtivamente casa di lui, fino al retro. C’è un cancelletto. Oltre il cancelletto, un orto. Ogni tipo di verdura rende vivo quel rettangolo di prato. Al centro, un bellissimo albero di mele.
A Ettore non servivano frutta e verdura. Sicuramente non aveva bisogno di comprare le mele. Voleva guadagnare la possibilità di vederla e di passare un po’ di tempo con lei.
Dopo un anno, si sposano.
Dopo un anno ancora, nasco io.
Si accorgono di me solo quando apro il frigorifero. Hanno due velocità diverse nel ricomporsi. Lei fa di fretta. Impacciata. Quasi si scusa. Lui è calmo. Posato, anche se infastidito.
-Vai in bici? – mi chiede lei – sto facendo il caffè.
Rispondo mostrando il succo alla pesca appena preso. Prendo i biscotti e mi siedo al tavolo.
Ettore inforca gli occhiali, prende la giacca e le dà un bacio sulla guancia. Mi passa vicino e dà due colpetti al tavolo con le nocche. Bussa.
Alzo le sopracciglia quando ormai è già passato.
Un paio di colpetti al tavolo che possono voler dire “ciao”, “buona giornata” oppure “sei già in ritardo”. Propendo per l’ultima.
-Com’è andata ieri? – mamma si è seduta. Sceglie da quale biscotto iniziare.
-Devo andare.
E la lascio lì, con la mano nel barattolo.
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