Leone, un bastardo di pastore tedesco, si racconta in punto di morte.
Rivisita gli episodi salienti della sua vita mettendo a nudo la propria anima, scavando nel profondo, fino a toccare con mano desideri, sogni, passioni, gioie e dolori, angosce e paure. E fa emergere uno ”spaccato” di mondo che non siamo abituati a vedere, perché valutato da un punto di vista inusuale: quello del cane.
“Ho visto nascere questo romanzo, dettato parola per parola nello studio di un amico; una vera e propria biblioteca, nella quale si creava un’atmosfera strana, tra il ticchettio della tastiera del computer e l’odore di tanti muti ed obbedienti testimoni.
Un incidente e un flashback sono l’incipit non solo di una storia ma anche di un fiume coinvolgente di pensieri.
Riflessioni che poi si rivelano quelle dell’autore oltre che del personaggio, che svelano un animo profondo, introspettivo e attento a quanto ci circonda, tra l’astruso, il filosofico, e un carattere che si delinea con le vicende di una vita intensa.
Un libro che potrebbe finire nei libri di antologia scolastica, un’ opera che può essere apprezzata da persone sensibili e pensanti, e da chi ama gli animali, per di più personificati a tal modo.
Spaccati di vita quotidiana, zingara, barbona, sono mescolati all’amore, alla poesia, alla libertà, al mal di vivere che è anche amore per la vita.
Quando ci si sente diversi dagli altri e si sfiora il pirandelliano, quando si ha sete di conoscenza e quando le ferite leccate sono state tante, si ha tanto da dire e da dare.
Si tratta di un uomo che guarda l’uomo con altri occhi, con un implicito messaggio:
Chi è il vero “bastardo”? Chi è il vero “cane sciolto”?“
Prof. Antonella D’Alessandro Luison, docente di Lettere
L’afa soffocante della tarda mattinata e i raggi incandescenti del sole creavano una sorta di vapore sopra l’asfalto. A guardare con gli occhi socchiusi, ci si poteva illudere diavere davanti una striscia di mare, tagliata da chissà quale gigantesco coltello e trasportata lì, a rinfrescare la campagna. Leone ciondolava sul marciapiede, incerto se attraversare la pressoché deserta statale. Di solito, quella strada era molto trafficata, ma, quella domenica di fine luglio così calda, aveva spinto già dal primo mattino una moltitudine di persone a raggiungere le spiagge del vicino litorale, per cercare un po’ di refrigerio all’insopportabile calura. L’intenso traffico, era scemato con il passare delle ore e soltanto adesso qualche pigro ritardatario vi transitava sfrecciando, favorito dalla strada libera, il cui fondo sembrava fondersi sotto la potente spinta degli pneumatici. Leone seguiva con sguardo apatico le poche automobili e si divertiva a credere che scivolassero sull’acqua. Il suo problema era il solito: come trascorrere il resto della giornata.
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Nonostante fosse quasi mezzogiorno, non aveva ancora fame. Il caldo lo faceva ansimare e gli toglieva i pensieri. Non v’era un alito di vento, non una pur piccola nuvola, nell’immensità di quel grosso calderone che sembrava essere diventato il cielo, niente che gli desse sollievo e rimettesse in moto il cervello. Al di là della strada, la campagna pareva soffrire della stessa malattia: statica e priva perfino dei soliti piccoli rumori degli uccellini e delle cicale, che solitamente riescono a renderla viva, anche nella sua apparente immobilità. Poco oltre il marciapiede opposto, una lunga fila di acacie proiettava malinconicamente l’ombra sul terreno. Anche le ombre sembravano timide
per effetto del sole allo zenit. Leone, guardando le immobili foglioline delle acacie, fu attratto dal loro verde invitante ed ebbe un’illusoria sensazione di frescura. In uno sprazzo di lucidità, pensò di migliorare la sua situazione trasferendosi sotto quegli alberi. Non riusciva a ricordare un’estate più calda di quella, anche se era convinto che l’estate più calda è sempre quella attuale, perché è in quel momento che si sta soffrendo. Leone era un cane molto saggio, e anche un po’ filosofo. Aveva una propria idea su tutto. Ma adesso aveva il cervello mezzo bollito e l’unica cosa che riusciva a mettere a fuoco era il voler portare le sue vecchie ossa all’ombra. Mosse i primi passi sull’asfalto incandescente e già pregustava il ristoro, quando si bloccò impietrito, al centro della strada, rendendosi conto di quello che stava per succedere, nello stesso istante in cui volgeva lo sguardo alla sua sinistra. Paralizzato dal terrore, riuscì soltanto a sentire la puzza degli pneumatici bruciati dall’improvvisa frenata, nello stesso momento dell’impatto. L’urto fu tremendo, Leone si sentì sollevare da terra, come colpito da uno schiaffo immane che lo scaraventava con assurda violenza lontano sull’asfalto e, mentre vi rotolava innumerevoli volte, sbattendovi il corpo da un cordolo all’altro della strada, avvertiva lo scricchiolio delle proprie ossa che si frantumavano. Perse conoscenza prima ancora che il corpo terminasse la folle corsa ai bordi del marciapiede, a molti metri di distanza dal punto in cui era avvenuto l’urto. Più in là, la macchina che lo aveva investito si era fermata. Un uomo ne discese imprecando rabbioso. Per qualche minuto girò intorno alla macchina, cercando di valutare i danni subiti, poi si avvicinò a Leone che giaceva esanime. Sotto il corpo del cane s’era già formata una piccola pozza di sangue. L’uomo si accovacciò su quello che ormai era un
fagotto incerto di ossa rotte e notò l’assoluta immobilità del cane, gli arti disarticolati e disposti in modo impossibile e il lungo squarcio al fianco. Fece le sue considerazioni, tornò sui suoi passi e, mentre risaliva in macchina, si rivolse a qualcuno che non si era per nulla mosso dal sedile anteriore, dicendo
qualcosa. Rimise in moto e, con uno scatto prepotente di frizione, fece slittare le ruote sul fondo stradale, come per scaricare tutto il proprio disappunto. Pochi secondi e la macchina era solo un punto scuro, che diventava sempre più piccolo fino a confondersi con i vapori dell’asfalto. Il sole di mezzogiorno batteva inesorabile sulla statale deserta. Le acacie, mute testimoni, assistevano impotenti al compiersi del destino di Leone. Povero intruso, spazzato via con noncuranza. La calura rendeva quasi molle il catrame e le maleodoranti esalazioni raggiunsero le narici del cane, rianimandolo. Aprì gli occhi lentamente, prima uno, poi
l’altro. Il sole, la macchina, l’urto. Questi ricordi gli fecero rivivere in un istante tutto quello che gli era accaduto e fu consapevole di essere ancora vivo, ma di soffrire così intensamente che dalla gola gli uscì un prolungato, straziante lamento: la ferita al fianco gli procurava un bruciore intenso e le fratture multiple alle zampe e al corpo, un insopportabile dolore. Tentò di alzare la testa per guardarsi, ma gli ricadde pesantemente. Non poteva muoversi in alcun modo; né la testa, né il corpo sembravano più appartenergli. Era paralizzato, e questo pensiero gli procurò un terrore tale da farlo quasi svenire di nuovo.
Ogni tanto, gli sfrecciava vicinissima qualche macchina. Nessuno pareva accorgersi di lui mentre aumentava il rischio che l’investissero di nuovo. Ma non poteva farci niente: sapeva che nessuno lo avrebbe aiutato. Cominciò a tremare con il corpo che sobbalzava a intermittenza, come attraversato da scariche elettriche. Dopo molto tempo iniziò a calmarsi e ad assuefarsi al dolore. Poté allora riflettere sulla sua situazione, ma c’era ben poco da fare: non aveva speranze di cavarsela. Chissà perché gli tornò in mente sua madre, bellissima, con
quella striscia bianca disegnata sul petto. Come diapositive in bianco e nero, cominciò a intravedere nella memoria le immagini dell’infanzia: dapprima sovrapposte e un po’ disordinate, poi sempre più nitide e con quella nota di colore in più, che dava ai ricordi la giusta dimensione del tempo passato. Rivide il giardino dove era nato, ma, soprattutto, rivide sua madre. Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che l’aveva vista? Era scappato senza confidarle niente, senza neppure un guaito di saluto. Come avrebbe voluto averla lì, con sé, in quel momento per prendere dal suo corpo quel calore di cui adesso aveva tanto bisogno, perché in quel pomeriggio infuocato sentiva tanto freddo.
Mia madre si chiamava Stella. Era uno splendido esemplare di Pastore Tedesco. Nobile e fiera, possedeva la classe innata della sua razza. Mio padre ancora oggi non so chi sia, ma, a vedere l’aspetto sgraziato mio e dei miei quattro fratelli, si poteva facilmente immaginare che fosse un bastardo. Ma non mi è mai importato nulla della nobiltà di razza. Piuttosto mi ha sempre dato fastidio l’aria di sufficienza con la quale venivo trattato dai cani di razza pura e di intolleranza degli uomini verso i cani della mia specie. Ho conosciuto tanto razzismo, tra gli uomini e tra i cani.
Non che io fossi immune a questa malattia, visto che nutro per i gatti un senso istintivo di repulsione. Il più razzista di tutti era, certamente, il nostro padrone, che ci prendeva a calci ogni volta che gli capitavamo a tiro, contrariato dal tradimento di Stella, che gli aveva scodellato cinque bastardi. Questo fatto aveva scombussolato tutti i suoi piani, che prevedevano l’accoppiamento di Stella con un cane di razza per motivi di lucro.
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