Capitolo due
La Tedesca, o Olandese in alcune zone, è un gioco basato sul calcio, estremamente diffuso nel Paese. Ciascun partecipante ha un certo quantitativo di crediti che erode durante il gioco, prendendo goal quando si trova in porta. In porta ci finisce chi tira la palla fuori. I goal si possono fare solamente al volo con qualsiasi parte del corpo, tranne le braccia e le mani, e in base alla parte del corpo con cui si colpisce il pallone, il goal genera più o meno crediti da erodere al malcapitato portiere del momento. Si parte da un credito se il goal viene fatto di piede, due se di testa, fino ad arrivare all’apoteosi del gioco, il goal in rovesciata, che erode tutti i venticinque punti a disposizione a inizio partita.
La tensione era altissima. Perdere significava da uno a cinque anni in camera doppia. Significava chiedere il permesso per fumare, scopare, ascoltare la musica. Significava sorbirsi i tanfi letali del coinquilino, avere meno spazio, dedicarsi ad attività onanistiche solo in determinati momenti… un incubo, insomma.
Il Lungo sapeva di essere il favorito, aveva alle spalle anni di Scuola calcio e di partite nelle zone più ignoranti della provincia, e per questo quando aveva pronunciato la sentenza sapeva benissimo che avrebbe rischiato poco; sapeva anche, tuttavia, che nessuno avrebbe osato più di tanto, per paura di finire in porta. Per scegliere il primo sventurato che avrebbe iniziato tra i pali si decise di estrarre una carta. E lì ci fu la prima bestemmia della giornata. Il Tofa pescò un due di cuori, si diresse mesto in porta e la sfida iniziò.
I Cinque avevano prenotato il campetto della parrocchia per tutto il pomeriggio. Sapevano che sarebbero andati avanti per ore. E così fu. Dopo duecento minuti di calcio di bassissimo livello, il Tofa (che nel frattempo era entrato e uscito dalla porta una decina di volte) era ormai a un goal di testa dalla camera doppia.
Il Bello fece un cross perfetto, il Tofa uscì a vuoto e il Prof, per fare il figo, anziché di testa, colpì di petto il pallone mettendolo nel sacco. E ora? Quanto valeva il goal di petto? Non era di testa quindi sicuramente non due. Non era di piede quindi sicuramente non uno. Il Tofa urlando e imprecando ogni santo del Paradiso insisteva di contarlo uno e mezzo, cercando in qualsiasi modo di aggrapparsi all’ultima speranza. I telefoni cellulari non avevano ancora Internet, la casa e i PC di tutti erano troppo lontani e nessuno si intravedeva nei paraggi (non che un qualsiasi passante, a pensarci bene, potesse sbrogliare la matassa).
Quand’ecco che la soluzione sembrò giungere nelle vesti di padre Mauro. Padre Mauro era un giovane frate francescano, molto amante del calcio e spesso avvezzo a giocare con i Cinque e gli altri ragazzi della zona. Gli si riconosceva un buon dribbling a serpentina, una discreta visione di gioco e una grande generosità. Dall’altra parte del campetto, il don chiuse la porta del convento e si diresse verso i Cinque che, nel frattempo, si erano calmati, fiduciosi che la saggezza talare potesse a breve risolvere il litigio.
«Padre, scusi…» esordì il Bello.
«Zitto» lo interruppe immediatamente il prelato. «Ragazzi, avete rotto le palle. Le bestemmie si sentono benissimo nel convento. Alla prossima vi caccio via e per un po’ qui non ci rimettete piede, chiaro?»
Si girò e se ne andò senza salutare. L’intervento così perentorio di padre Mauro ebbe l’effetto di zittire i Cinque, che si guardarono tre secondi per poi scoppiare in una risata trattenuta a stento per non indispettire ulteriormente il don. Gli animi si erano rasserenati e il Prof, che era quello con più punti, sposò la posizione del Tofa (si sentiva un po’ in colpa perché poteva colpire di testa e finirla lì). Si continuò, quindi, ma solo per qualche minuto perché il Lungo, come a mettere un definitivo punto alla vicenda, sparò un missile sotto la traversa decretando la prima sentenza.
Il Tofa raccolse le sue cose e se ne andò. Non aveva senso fermarsi per assistere all’ultimo verdetto. Gli andava bene qualsiasi compagno, tranne il Nero, non tanto per ragioni razziali, quanto perché era l’unico che non fumava.
Tutto il gioco era in procinto di terminare da lì a poco. Infatti, con il Prof in porta, il Nero, a cui mancava solo una manciata di punti per finire in camera col Tofa, si inventò una coraggiosa quanto efficace rovesciata che finì dritta nel sacco.
Il Prof, che era solito rimanere abbastanza calmo ed era apprezzato per le sue idee di accoglienza e integrazione, si lasciò scappare un «Maledetto negrone di merda!» seguito da un sorriso che gli risparmiò un manrovescio in faccia. I due si abbracciarono, il Bello, il Lungo e il Nero iniziarono a pogare.
Il Prof, sconsolato, affermò laconicamente: «Alea iacta est».
Capitolo tre
Entrarono esaltati nell’appartamento del Capoluogo una soleggiata domenica pomeriggio settembrina. Non gli sembrava vero. A neanche vent’anni, poter vivere tra amici, invitare donne, ubriacarsi, fumare… Certo, c’era anche quel piccolo dettaglio chiamato università ma i Cinque sapevano benissimo che fino a novembre avrebbero potuto gozzovigliare amabilmente senza compromettere alcunché. Tra l’altro avevano scelto tutti facoltà diverse e non potevano neppure spronarsi a vicenda.
Il Prof era il più convinto e, chiaramente, aveva fatto la scelta più semplice: Storia e Filosofia.
Il Bello voleva fare Geografia. Si narra che il padre, proprietario di una farmacia, lo avesse minacciato corporalmente per fargli cambiare idea. Alla fine, lui si convinse, non tanto per paura del padre quanto per il fatto che Geografia avesse pochissimi studenti e, di conseguenza, pochissime studentesse.
Il Lungo era stato per anni convinto di frequentare Odontoiatria. La sua famiglia felice, lui felice, tutti felici. Poi l’ultimo anno, studiando la crisi del ’29, si fissò con l’economia e fu come un colpo di fulmine. I piani cambiarono e un po’ anche l’umore della famiglia (anche se non smise mai di sostenerlo).
Il Tofa si era iscritto a Scienze Politiche e la scelta avvenne più o meno così: prese un mazzo di carte e iniziò ad attribuire una facoltà a carta. Eliminò quelle che proprio non avrebbe fatto neppure se pagato lautamente (Fisica, Matematica, Ingegneria, insomma quelle un po’ cazzute), si fece un bong bello carico ed estrasse. Et voilà: les jeux sont faits.
Il Nero, infine, indeciso come il Tofa, si iscrisse a Lingue, forte del fatto di essere già bilingue. Terzo idioma, lo spagnolo: «Well, you know that I want to be Spanish» diceva sempre.
Dopo un mese, le previsioni di gita scolastica prolungata del Lungo si erano perfettamente avverate. La settimana tipo della combriccola era la seguente.
Lunedì: mattinata di lezione universitaria (era pur sempre lunedì), pomeriggio alla playstation, serata con pokerone Texano, naturalmente con soldi veri, invitando a turno altri polli (o presunti tali) del Borgo o del Capoluogo.
Martedì: mattinata di lezione universitaria se il poker era finito a un’ora decente, pomeriggio alla playstation, serata al Solid a infradiciarsi di birre.
Mercoledì: lezione solo in tarda mattinata, pomeriggio di finto studio alla biblioteca di moda del momento, guardando i culi delle ragazze, partitella di calcetto e serata al Grapes, locale alternativo ricolmo di studenti Erasmus.
Giovedì: mattinata passata tra le lenzuola, il più delle volte da soli, pomeriggio alla playstation e serata al Russian, locale trendy ricolmo di figa locale.
Venerdì: qui i Cinque si dividevano. Il Bello e il Prof il più delle volte tornavano al Borgo a ubriacarsi con gli amici di sempre. Il Tofa rimaneva a strafarsi di canne. Il Lungo e il Nero coltivavano con vicende alterne la fauna locale.
Nell’appartamento regnava una gioiosa anarchia. La casa, oltre alle quattro famose stanze, presentava un enorme salotto, teatro di milioni di partite virtuali e annessi improperi molto più reali, una cucina e due bagni. Le regole della convivenza erano poche e semplici. La spazzatura la butta il primo che non riesce a farci stare un rifiuto ulteriore, facendolo cadere. Le bottiglie di birra non sono rifiuti bensì soprammobili di pregevole fattura. I piatti si lavano un giorno a testa, ciascuno cura la propria stanza, sulle aree comuni per ora non poniamoci il problema. Dopo un mese, tutto il mobile della sala era ricoperto da bottiglie di birra. Quando la tovaglia era sporca, la si girava dall’altro lato. Il bagno era diventato peggio di quelli allo stadio dopo un derby. La cosa iniziò tuttavia a diventare un vero problema non subito ma quando il Lungo un lunedì, dopo un «All in!» bluffato, che gli aveva permesso di rientrare in partita a poker, disse: «Raga, domani per me niente Solid».
«Cazzo dici, scemo,» rispose il Bello «dobbiamo presidiare il territorio.»
«Raga, ricordiamoci che dobbiamo cambiare il nome della via» aggiunse il Tofa. Alludeva al fatto che la via del Solid si chiamasse via Goito e che, il primo martedì in cui i Cinque vi erano finiti, alla quinta pinta si fossero ripromessi di andare una notte e mettere una C al posto della G.
«Well, perché non vieni?» chiese il Nero.
«Mi vedo con una.»
«Ehilà, Silvia lo sa?»
Bastardi.
Silvia era la ragazza del Lungo. Be’, ragazza era un po’ troppo. Era la tipa con cui si vedeva. Poteva diventare una cosa seria come no. Ma quella sera per il Lungo sicuramente vinceva il no. «Sì, certo che lo sa, anzi, viene anche lei. Facciamo una cosa a tre. Ma che cazzoni che siete, certo che non lo sa e guai a voi, merde!»
«Ma la porti qui?» chiese incuriosito il Bello.
«Sì, cazzo, vorrei, se questo posto non fosse una merda. Domani puliamo un po’.»
«Un momento, se dobbiamo metterci a pulire, come minimo vogliamo sapere chi ti scopi, porcellone» sentenziò il Prof suscitando consensi.
«Non ve lo dico.»
«Allora falla pure accomodare nel bagno di Calcutta» lo schernì il Tofa.
«C’mon, chi è?» insistette il Nero.
«Non ve lo dico, cazzo. Anzi, domani state fuori fino a tardi, per favore.»
«Oh, Lungo,» il Tofa incalzante «hai rotto le palle. Con chi cazzo ti vedi? Con la Anderson?»
«Raga, mi vedo con la Dea.»
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