«Sesso maschile, età apparente vent’anni, al massimo venticinque, razza caucasica.»
Centoventotto o centoventinove. O forse centotrenta.
Il commissario Francesco Lanna, questurino con quarant’anni di svogliato servizio alle spalle, ha perso il conto. Il primo però lo ricorda bene, molto bene: quella signora di mezz’età con cappellino e veletta, sventrata dalla bomba di piazza Fontana. Quel giorno il conto sarebbe presto salito a diciassette.
«Lacerazione profonda all’area inguinale, diffuse escoriazioni agli arti. Rigor mortis non intervenuto.»
Per il sovrintendente Finotti, brillante quarantenne con laurea Cepu in tasca e pregressa esperienza decennale nella vendita porta a porta di scope elettriche, ora in organico alla questura di Varese e in temporaneo distacco a Milano, invece è il primo. A meno che non si possa tener conto dei manichini della scuola di formazione della polizia.
«Finotti, quante chiacchiere! Tutta colpa dei nuovi programmi dell’Accademia. Uscite fuori tutti, froci!»
Il commissario Lanna si è acceso una sigaretta. Finotti ha imparato che è un segnale da non sottovalutare. Il vecchio fuma di rado in servizio, quando lo fa significa che ha qualche invocazione da rivolgere al cielo: il fumo aiuta a sospingerla in alto.
Un po’ come fa il prete con l’incenso.
«Neanche la tessera punti fragola dell’Esselunga? Quella spesso aiuta…» e aggiunge, alzando la voce: «Cosa cazzo avete combinato?! Chi di voi gli ha calato le braghe?».
Con la sigaretta incuneata in perfetto equilibrio sulle labbra, il commissario Lanna inizia a bisbigliare qualcosa sottovoce.
La preghiera a Gesù Bambino il commissario Lanna l’ha imparata ai tempi del collegio degli orfanelli a Napoli, a suon di legnate sulle nocche da parte delle monache. Non se l’è più scordata e, anzi, ancora lo assiste nei momenti in cui rimpiange di non aver scelto la carriera di elettricista. Al collegio aveva costruito una dinamo con le sue mani, sarebbe stato bravo.
«Capo, l’abbiamo trovato così. Hanno provato a staccarglielo a morsi.»
Una scarica di dolore all’inguine: il commissario Lanna, questurino prossimo alla pensione, che già intravede un futuro fatto di carpe, carpodromi e magari qualche nipotino, rivive il trauma della recente operazione alla prostata.
«’Na macelleria.»
«È morto dissanguato. È stata recisa l’arteria femorale all’altezza dell’inguine.»
Seconda e più intensa fitta all’inguine. È proprio vero: l’operazione alla prostata è il preludio della fine, altro che carpe e nipotini.
«Regolamento di conti tra marocchini? Anche se c’è qualcosa di strano, non sembra uno dei soliti.»
«Hai ragione, capo, non è una faccia da Grand Hotel.»
Le vecchie officine meccaniche della stazione di Porta Garibaldi, meglio note tra gli addetti ai lavori come Hotel Romania Mare, dove mare sta per grande, in rumeno. Ventimila metri quadri di archeologia industriale, un dedalo di capannoni fatiscenti diventato nel tempo il più grande dormitorio pubblico di Milano, all’ombra delle torri vetrate delle archistar più in voga, così simili alla Torre d’Avorio dell’imperatrice bambina. Poco oltre l’incrocio di strade di quel che resta della movida milanese, tra divanetti in finta pelle inumiditi da sudore misto a testosterone, s’insinuano contrabbandieri di alcolici annacquati e di pizza rafferma di tre giorni, scampoli di un happy hour finito fuori tempo massimo.
Milano conta un paio di dormitori comunali e qualche struttura gestita dalle onlus: capienza complessiva meno di cinquemila posti letto, a fronte di una domanda tre volte superiore. Cresce così l’esercito dei paria, dei clochard di professione e dei barboni di nuova formazione: ex manager falliti, padri di famiglia separati, stranieri appena spiaggiati, divisi nelle diverse zone della città.
L’Hotel Romania Mare gode del regime di extraterritorialità, come le sedi diplomatiche. I rumeni vi esercitano un controllo manu militari e sovraintendono alle assegnazioni delle suite: un materasso sudicio, una sedia impagliata e un secchiello per le funzioni corporali; il costo è pari a un paio d’euro per notte. È meglio seguire le regole, altrimenti se ti organizzi da solo il rischio è di finire con la testa fracassata nel sonno.
«Hai ragione, capo, non è uno di quelli. Non senti quest’odore?»
«Pensavo fosse il tuo profumo da frocio.»
«È la nuova colonia Albert and Dermott, trecento euro la bottiglia.»
«Trecento cucuzze per avere addosso ’sta puzza?»
«Sei mai capitato in corso Matteotti di sabato pomeriggio? Davanti al negozio dove la vendono c’è una fila chilometrica. Si dice generi dipendenza per via di alcuni ormoni che ci sparano dentro.»
«Si vede proprio che non sei ancora sposato.»
Il sabato pomeriggio il commissario Lanna lo passa in fila alla cassa del discount, in compagnia della signora Lanna e delle sue invettive contro il costante aumento dei prezzi di solventi e candeggina.
«Poi guarda la fibbia della sua cintura: altri quattrocento euro.»
In alternativa, funziona anche la copia di fabbricazione cinese della fibbia più trendy del momento; l’intendente Finotti l’ha acquistata per cinque euro dal marocchino che staziona davanti alla questura, e non è passata inosservata tra le ragazze della sala revival del Fellini di Pogliano Milanese.
«Finotti, scusa, ma se questo non è uno di quelli, come c’è finito in questo buco di culo?»
«Mysterium iniquitatis.»
«Come parli difficile, guaglio’.»
«È un discorso lungo, capo. In compenso, guarda il naso.»
«Che c’è di strano? Mai vista una canappia? Mia suocera, buon’anima, ne teneva una precisa precisa.»
«Capo, non ti sembra piuttosto un becco? Ne ho visti pochi di nasi così, è un marchio di fabbrica. Questo è persiano.»
«Che è? Una sottospecie di arabo?»
«Non direi, capo. Prova a scambiare un arabo con un persiano e ti ritrovi la testa mozzata a morsi.»
«Finotti, scusa, ma in questa Persia non sono mica di religione araba?»
«Religione araba non vuol dire niente. Capo, non esiste la religione araba, si potrebbe al limite parlare di nazionalità araba. Che è un cosa diversa.»
«Finotti, ma che cazzo dici! Ti sei scordato che nell’ultimo corso di aggiornamento ci hanno insegnato a riconoscere tutte le bandierine?»
«Gli arabi fanno parte di una nazione, al limite di una razza. Non appartengono a una sola religione.»
«Come la razza padana?»
«Più o meno l’idea è quella. Tuttavia, anche se professano vari culti, la gran parte è islamica. Così come la maggioranza dei persiani.»
«Che discorso complicato, non ci capisco un cazzo! Io non tengo la laurea come te Finotti, u’ professore!»
Quanto erano orgogliosi i signori Finotti il giorno del giuramento del piccolo Gabriele. Chissà come reagirebbero di fronte alla “promozione” del loro pargolo all’ufficio passaporti. Se non vuole quel posto, farebbe bene a cambiare discorso.
«Ecco che arrivano gli amici della scientifica con le loro tutine bianche, pronte per essere inzaccherate di sangue. Sai che ti dico? Andiamoci a pigliare un caffè, o magari una tisana, come piace a voi froci. Tutto questo pasticcio di arabi e persiani mi è rimasto sullo stomaco.»
«Capo, e la procura?»
«Bravo Finotti, la procura. Chiama la segreteria notturna e chiedi del pubblico ministero di turno.»
«Secondo il calendario dovrebbe essere la Poggi.»
«Che gran figa! L’ha data via a mezzo distretto, se sei fortunato quella svergina pure te! Finale coi fuochi d’artificio per la trasferta milanese, caro Finotti! ’O muorto e la prima bottarella!»
Finotti non può che concordare con il commissario, un gran finale per il tirocinio a Milano! Da domani si torna nella sonnacchiosa provincia dell’impero.
BRODO DI CANARINO
Milano, seconda decade degli anni Duemila.
Benedetto sia l’inventore della gabbietta profumata del cesso!
Unico sollievo per lo sciagurato piegato a testa in giù sul water a vomitare sangue e polpa di granchio: happy hour indigesto, compagnia serale costosa e, se possibile, ancora più indigesta.
Non è la prima volta, e dubito che sarà l’ultima.
Poi l’illuminazione: il brodo di canarino, la vecchia ricetta della nonna, infallibile panacea contro ogni malanno. Meglio di una lavanda gastrica, sollievo garantito e quasi immediato.
Acqua calda e scorza di limone, il tutto condito da una manciata di rosmarino. La ricetta originale prevede l’alloro, ma non ci sono foglie di alloro in dispensa; ben pochi trionfi da celebrare negli ultimi tempi.
Gran donna la nonna Celestina, arrivata a novant’anni senza incrociare neppure per sbaglio un dottore, forse perché nata in un’epoca in cui la gente faticava a mettere insieme il pranzo con la cena, mentre io, cresciuto nell’era dell’opulenza e diventato maturo in quella della grande crisi, ho lo sconto fedeltà dal gastroenterologo.
Curioso il progresso dell’umanità.
Tutta colpa degli happy hour, sostiene qualcuno.
Mi butto in poltrona a sorseggiare il brodino giallo, la borsa dell’acqua calda sul pancino che vorrebbe intavolare una conversazione, e accendo la TV.
Trovo un professore che sta spiegando le quattro leggi della termodinamica: trasmissioni di questo genere funzionano meglio dei barbiturici; mi lascio cullare dalla voce monocorde del vegliardo con la fluente barba bianca che spiega alcuni grafici a curva; mi guida verso il riposo come la ninna nanna della mamma.
Anche questa notte sono riuscito a placare le farfalle nello stomaco.
Torno a ripetermi: Teo, hai quarant’anni, basta fare il coglione!
Almeno fino al prossimo happy hour.
“Bello, bello e impossibile, con gli occhi neri e il suo sapor mediorientale… Bello e…”
Non ricordo il motivo che ha ispirato la scelta della mia nuova suoneria, tuttavia credo sia una buona idea scegliere qualcosa di meno sconveniente in vista dell’appuntamento di domani in curia. Ho udienza dall’economo, dubito gradirebbe. Se non ricordo male, è un fanatico di Elton John.
Ma poi, chi è che mi sta chiamando alle quattro del mattino? Farei finta di niente, se non fosse che il ritornello si è già ripetuto sei volte. La settima potrebbe avere effetti letali.
«Pronto.»
«Avvocato, la disturbo?»
Quando mai. Capita di incrociare clienti con un senso tutto speciale dell’ironia.
Se non fosse apparso sul display il suo nome avrei rifiutato la telefonata senza indugio, ma lui non è un cliente qualsiasi. Lui le palle le rompe sempre a ragion veduta, e poi è come un fratello. Anzi, di più.
L’ho conosciuto sui banchi della scuola materna, un teppista tremendo. Alla materna in via delle Forze Armate ci arrivai a cinque anni, tardivamente svezzato dalla mamma, e furono subito dolori.
La classe al tempo aveva il suo caporale, Marco Cortina: la mia stessa età ma il doppio di me, grande, grosso e bastardo come solo i bambini sanno essere.
Il copione era già scritto. Il cucciolo di mamma appena arrivato, timido e mingherlino, già cotto a dovere per essere divorato da quel mostro. E, infatti, il primo giorno le avevo prese di brutto, senza neanche reagire. Calci, pugni e sberle, sferrati con una violenza che solo i bambini conoscono; ad aprire le danze era stato proprio il capobranco, che con uno spintone mi aveva fatto rotolare più volte nella sabbia del parco giochi, come un gatto nella lettiera. Poi a turno tutti gli altri, femmine incluse.
Le maestre avevano assistito impassibili alla scena: a quel tempo i pestaggi sanguinolenti tra bimbi erano ancora considerati parte integrante del progetto educativo.
Ricordo bene quel pomeriggio, a pensarci mi sembra di sentire ancora il culo che scotta, eppure non avevo versato neppure una lacrima. Non certo per coraggio, piuttosto per il terrore che anche la più piccola reazione avrebbe sollecitato ancor di più la vena sadica del gruppo.
Quel pomeriggio ho imparato la prima lezione della mia vita: incassare con classe.
Marco, che era sveglio e a cui di certo non sfuggivano i particolari, forse aveva apprezzato il mio fiero contegno, tanto che, alla fine del pestaggio, aveva addirittura buttato lì un ciao.
Da quel momento diventammo amici, e lo siamo ancora, a distanza di oltre trent’anni.
Dopo quel giorno, e in più di un’occasione, mi aveva anche sottratto ai sadici pestaggi delle femmine che, a differenza dei maschi che lo fanno per contendersi merenda e figurine, menano solo per il gusto di farlo.
Già ai tempi delle elementari si era consolidato tra noi un patto di ferro. Eravamo diventati i trascinatori del branco di ragazzini del quartiere che si trovavano tutti i pomeriggi nei giardinetti di piazza Tripoli.
I due ras della piazza, meglio noti come i Gemelli Gheddafi. Il nome ce l’aveva affibbiato un tizio con la gamba sifula che abitava al primo piano di un casermone affacciato sulla piazza. Pare che la gamba se la fosse giocata in qualche guerra coloniale di cui però nessuno ricordava l’ubicazione.
Il vecchio non gradiva i nostri schiamazzi. Un giorno, doveva essere l’ora della siesta pomeridiana, era uscito di casa ancora in vestaglia brandendo il bastone nella nostra direzione.
«Maledetti voi che molestate il riposo del veterano! Siete peggio di Gheddafi!»
E aveva lanciato il bastone nella nostra direzione, come fosse un giavellotto.
In seguito avevamo raccolto informazioni su questo signor Gheddafi che poi, guarda caso, abitava dalle parti di Tripoli e, proprio come noi, amava le decorazioni militari e fare un po’ di casino, ma solo di tanto in tanto.
Alle medie erano arrivati i primi incarichi di natura fiduciaria. Un giorno il mio gemello mi aveva consegnato un carico di merce compromettente da sottrarre a una minacciata ispezione di sua madre: una scatola piena di volantini pubblicitari di reggiseni. A ciascuno aveva assegnato un voto, la collezione era bene assortita e Marco rivelava indiscusso buon gusto.
Quando a sedici anni mi aveva detto: «Matteo, la prossima settimana vado a Venegono», avevo subito pensato a una trasferta della polisportiva. Poi aveva menzionato il seminario e io avevo addirittura esultato, pensando fosse stato selezionato dalla squadra di calcio omonima, che ai tempi, oltre a dominare il torneo di prima categoria, era uno dei vivai più seguiti da Milan e Inter.
Invece aveva deciso di farsi prete.
In effetti qualche indizio preliminare c’era stato, come quando in piazza Tripoli aveva allestito una specie di altarino con le cassette delle arance del mercato. Aveva improvvisato una specie di funzione, con una coperta sulle spalle. Io avevo fatto da chierichetto, gli altri ragazzini da assemblea liturgica.
«Teo, hai perso la lingua? Ascolta, devo parlarti con urgenza, estrema urgenza. Si tratta di una questione delicata, molto delicata.»
Nel codice degli uomini in colletto bianco questione delicata fa rima con penale.
Il tono poi è più esitante e incerto del solito; ciò equivale a penale nero, anzi, nerissimo.
«Ti ascolto, prete.»
«Non si possono fare certi discorsi per telefono. Devo parlarti di persona.»
«Lasciami dare un’occhiata all’agenda. A memoria ti dico che sei fortunato, domani un buco per te lo trovo.»
«Domani? Forse mi sono spiegato male. Dobbiamo vederci subito.»
«Marco, sono le tre di notte. Che diavolo hai combinato?»
«Non farmi perdere tempo, Teo! Ho il treno per Roma alle cinque in Stazione Centrale, mi aspettano in Vaticano per le nove.» C’è di mezzo pure il Vaticano, forse è meglio raccogliere l’invito dell’illustre reverendo.
Marco è uno di quelli che, come si suol dire, hanno fatto carriera.
Già al seminario aveva messo in mostra la sua naturale propensione al comando, tanto che, ancor prima di cominciare la scalata ecclesiastica, lo avevano già eletto capitano della squadra di calcio; delle tante promozioni in seguito ricevute, forse quella di cui va più fiero.
In seguito, da prete novello, aveva avuto modo di farsi notare dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinal Martignoni, teologo raffinato e uomo illuminato, ma del tutto privo di capacità gestionali. Il cardinale filosofo lo aveva scelto come suo segretario, di fatto affidandogli il governo della curia ambrosiana.
Tanto Marco era diventato potente, oserei dire temuto, che l’arcivescovo successivo, anch’egli poco incline alla direzione della macchina curiale, aveva confermato il suo incarico, attribuendogli anche il suntuoso titolo di Moderator Curiae. Di fatto, era diventato l’amministratore delegato di una delle più grandi diocesi del mondo. Una comunità di cinque milioni di fedeli.
Anche a Roma l’avevano presto notato: a soli trentotto anni era arrivata l’ordinazione vescovile; per lui il Santo Padre aveva derogato alle disposizioni canoniche che stabiliscono i quarant’anni come età minima per l’elezione a vescovo. Analoga delega in tempi moderni era stata approvata da Giovanni XXIII nel 1958, e riguardava un sagace prete polacco nominato arcivescovo a Cracovia. Pare abbia poi fatto una certa carriera.
Non avendo una sede vescovile propria, l’avevano fatto arcivescovo titolare di una diocesi storica ormai soppressa: gli era toccata Derna, l’antica città della Libia ormai ridotta a quattro rovine tre le dune.
Non poteva che finire così per il più brillante dei Gemelli Gheddafi.
L’altro gemello libico, abbandonato, per così dire, al suo destino, piuttosto che scegliere una propria strada si era lasciato scegliere. La facoltà di Giurisprudenza mi aveva tecnicamente sequestrato. Ma veniamo ai fatti.
Era l’estate dopo la maturità; un giorno, con la dispensa del test di ammissione a Medicina sotto il braccio, stavo andando a studiare da un amico che abitava in piazza Sant’Ambrogio. Davanti all’ingresso della Cattolica alcuni ragazzi molto ben pettinati e dalla sgargiante pettorina azzurra invitavano i passanti in età scolare a fare due passi all’ombra dei chiostri. Qualcosa di simile ai buttadentro di certi locali di corso Como o dei navigli. Era la giornata di orientamento, e l’Università era in cerca di nuove iscrizioni. Sarà stata la squisita cortesia del ragazzo che mi aveva fatto da guida o, più probabilmente, il fatto che nell’offerta per l’iscrizione fosse incluso uno sconto sull’abbonamento del Milan, fatto sta che alla fine mi ero iscritto a Giurisprudenza.
Avvocato, poi, lo sono diventato per esclusione. La carriera notarile, più che dal demerito, mi è stata preclusa dal fratello di papà, lo zio Ferdinando, uno dei più illustri esponenti della nutrita schiera di notai di scuola napoletana che hanno preso sede a Milano.
Lui, a differenza di papà, non ha alcuna intenzione di tornare a Napoli, neanche da pensionato, e questo nonostante a Milano non abbia neppure figliato. Pur essendo un buon partito, lo zio non ha mai ceduto alle sirene della vita matrimoniale, forse per non annacquare lo spirito vagamente anarchico e asociale che ha con cura coltivato negli anni. Alla fine, per vincere la noia che la sua scelta del celibato aveva comportato, ha optato per la compagnia del mondo animale.
La sua splendida villa sul lago di Como, là dove osano solo i russi e gli attori americani, si è nel tempo trasformata in una specie di arca di Noè, offrendo dimora non solo a cani e gatti, ma anche a pavoni e fenicotteri e, addirittura, a un mulo di nome Matteo, tutti accuditi come figli o addirittura meglio. Gli ultimi arrivati sono due gemelli Rottweiler, Castore e Polluce, che hanno da subito conquistato un posto speciale nel suo cuore.
Al tempo della mia laurea, parafrasando Alessandro Magno, aveva sentenziato che come il mondo non può avere due soli, così la famiglia non avrebbe potuto permettersi due notai.
Per lungo tempo non ho capito la logica del suo veto, tanto più che è abbastanza usuale che la professione notarile si trasmetta per via dinastica. Poi, quando la sua storica assistente ha passato il concorso al primo turno, la questione si è fatta chiara. La successione dinastica non avrebbe seguito la linea del sangue.
La mia solida formazione cattolica e la fede incrollabile nella possibilità dell’uomo di redimere le proprie colpe, soprattutto quando paga in contanti, rendevano la carriera in magistratura contraria ai miei princìpi.
Non restava, dunque, che fare l’avvocato.
«Teo, allora siamo d’accordo. Tra mezz’ora da me, poi mi dai uno strappo in centrale. Ti lascio il tempo di una doccia calda, panacea contro ogni male.»
«Obbedisco, eccellenza. Bada però a non aver interrotto invano il sonno del giusto.»
«Di certo non scendo in Vaticano per una partita a tressette con il segretario di Stato.»
La tisana di canarino ha mitigato le coliche, quasi meglio del Maalox; la doccia calda ha levato di dosso l’odore della colpa, puzzo di fritto modello suk mediorientale. Per risciacquare anche il senso di colpa attendo il verbo consolatore di Marco.
La stessa litania da almeno un decennio: «Sei sempre il solito coglione! Ma non dubitare, il Signore avrà pietà di te, il suo perdono non incontra limiti».
Lavato e tirato a lucido, un dito di brillantina tra i capelli, quasi mi sento un uomo nuovo, candido come un giglio di campo. In genere l’illusione del ritrovato candore dura fino all’ora del pranzo, poi arriva la digestione accompagnata da bizzarri nuovi appetiti che esigono di essere soddisfatti. Giunge, infine, la sera, che serve per consumare. Quasi sempre al fast food.
Nell’androne del palazzo c’è puzza di soffritto di cipolle: è la signora del terzo piano, novant’anni tra qualche settimana, che prepara di buon’ora il ragù ai nipotini, due manager di piazza Affari sulla quarantina. Da quando mamma e papà sono tornati a vivere dalle parti di Barletta, a pranzo sono sempre ospiti di nonna.
Curiosi questi agenti di borsa. Belli, ricchi e decisamente telegenici, ma a quarant’anni a metter su famiglia non ci pensano proprio. In compenso ho sentito dire che molti di loro vanno in esaurimento e finiscono per prendere casa sotto i portici di corso Matteotti, quattro cartoni a difenderli dal freddo, con l’ottima compagnia del vinello in tetrapak più celebrato al mondo.
Fuori è un banco di nebbia, la prima di stagione, non proprio un’esperienza nuova per chi a Milano ci è nato. Ogni anno però assaporo un analogo disagio, forse perché chi ha il mare nelle ossa alla nebbia non si abitua mai.
Papà ha lasciato Napoli a vent’anni, a sessanta ci è ritornato. A Milano si è sposato e ha fatto figli, ma non ha messo radici. Il pino marittimo soffre il clima della grande e nebbiosa pianura.
Confido che la Vespa non mi tradisca nel tragitto, negli ultimi tempi ha iniziato a comunicare segnali d’insofferenza. Dubito però sia giunta la sua ultima ora, forse sente solo la nostalgia del meccanico che l’ha coccolata un paio di volte di recente. Un gran bel ragazzo moro con la fronte imperlata di sudore e olio; solo le sue mani nodose sono in grado di farla sentire una vera motocicletta.
Marco dorme all’Augustinianum, il collegio maschile della Cattolica.
Per lui, che nel chilometrico curriculum annovera anche la docenza di Teologia al corso di Giurisprudenza, è una chiara scelta di campo: con gli studenti per gli studenti, almeno così ama dire a lezione tra il tripudio degli applausi dei ciellini.
In verità la scelta di dormire al campus dell’università è dettata da esigenze di natura sanitaria; i delicati polmoni di Marco mal tollerano l’aria viziata dell’arcivescovado di piazza Fontana, casa dell’arsenico e dei vecchi merletti, come affettuosamente la chiama lui.
Attraverso la città avvolta dal vapore acqueo, le luci gialle dei semafori sbucano qua e là dalla nebbia come le luci di navigazione del Titanic. A poco sono serviti quei luccicanti fanali, ma quantomeno a bordo avevano l’orchestrina ad accompagnare il lento inabissamento nel mare, mentre da queste parti si sprofonda nella solitudine.
La prima figura umana in carne e ossa che incontro si materializza in piazza Sant’Ambrogio, quasi la scena di un film.
Un uomo in vestaglia da camera mi offre le spalle, lo sguardo sul lettore a led che scandisce il tempo di ultimazione del parcheggio sotterraneo. L’avranno resettato una decina di volte negli ultimi anni, stamattina segna: cinquecentotrentratré giorni, sedici ore e dodici minuti, eppure sono quasi certo che la settimana scorsa fosse arrivato a meno di quattrocento giorni.
È una statua di cera dalla fisionomia familiare, un fuso alto e magro, come il cero bianco dei morti che portavo ai nonni al cimitero. Si volta nella mia direzione, riconosco i tratti anemici della vecchia nobiltà in naftalina: è stato mio cliente tempo fa, uno di quelli con il triplo cognome e la paperella sullo stemma.
A ripensarci, ricordo anche l’oggetto dell’incarico: l’esecuzione di un sfratto in una sua proprietà in Brianza, l’edificio era stato affittato da una scuola materna di suore, un po’ indietro con i canoni a causa della drammatica riduzione dei contributi governativi. Il giudice, anche lui con doppio cognome e paperella sullo stemma, non aveva neppure concesso il termine di grazia e così, nel giro di pochi mesi, i bimbi si erano trovati a fare lezione ai giardini pubblici.
Chissà che ne è stato di quei bimbi rumorosi e delle loro maestrine velate?
Se non ricordo male di professione è architetto e questo potrebbe forse spiegare l’interesse per il cantiere. Di certo stamattina non è al massimo della forma, così pallido in volto da assumere una tinta fluorescente, un alieno con la barba.
Fermo la Vespa senza spegnere il motore, chissà che decida di abbandonarmi proprio adesso.
«Buondì architetto, tutto bene?»
Resta muto e mi osserva con gli occhi sgranati, somiglia vagamente all’indimenticabile Christopher Lee, il Dracula dei bei tempi andati, più di recente riesumato nei panni del mago Saruman e poi nuovamente seppellito. Questa volta a titolo definitivo. Accenna un sobrio saluto con il palmo della mano rivolto nella mia direzione, poi, senza proferire parola, mi volta le spalle per tornare a godere dello spettacolo del display luminoso. Tempus fugit.
Se non fosse per il colletto inamidato del clergyman, Marco potrebbe tranquillamente passare per un elegante uomo d’affari; la croce d’oro appuntata al bavero della giacca è minuscola e decisamente discreta, per qualcuno addirittura troppo.
Il portamento è disinvolto ed elegante, lontano anni luce dai colleghi della curia con l’abito della cresima e la giacca immancabilmente condita di forfora. Al posto del consueto basco pidocchioso di foggia pretesca ha scelto un borsalino modello Rodolfo Valentino, il più chic del momento.
Dall’alto del suo metro e ottanta di statura pare decisamente più giovane della sua età, non un capello bianco, anche se alcune indiscrezioni lo vedrebbero cliente di uno dei saloni più alla moda della città, specializzato in tinte maschili. Di certo se lo frequenta non si presenta in clergyman.
A differenza del suo vecchio compagno di giochi, Marco continua a praticare assiduamente sport: ala fluidificante della squadra di calcio dell’università, senza dimenticare le cento vasche stile libero tre volte alla settimana alla piscina Solari. Il cronometro si ferma sempre ai trentotto minuti, tempo più che discreto.
«Ciao avvocato, ti vedo in gran forma! Hai finalmente iniziato con il guaranà?»
«Non fare troppo il brillante.»
«Guarda che non sto scherzando, un missionario mi ha portato dall’Amazzonia certe pastiglie, una bomba.»
«Dai bomba, monta in sella, e copriti che fa freddo.»
«Obbedisco, avvocato.»
Il tempio in stile assiro-milanese, anche noto come Stazione Centrale, è illuminato a giorno, con una temperatura interna non inferiore ai ventotto gradi. Considerando le dimensioni dell’edifico e la conseguente dispersione termica, si potrebbe sostenere che un più attento uso della risorsa calore comporterebbe un risparmio energetico equivalente al fabbisogno annuale di una media nazione africana.
Negli immensi saloni ricoperti di marmo imperiale si incrociano curiosi esempi di umanità.
Un questurino, barba incolta e auricolari nelle orecchie, canta a squarciagola una canzone di stile arabeggiante, nella quale mi sembra di riconoscere lo stile del più recente Nino D’Angelo. Una signora con pelliccia di pelo di topo parla ad alta voce, quasi volesse declamare un copione o una poesia. Sembra una donna prudente, la sciura in pelliccia; un paio di sacchetti della spesa per ciascuna mano, stracolmi di cibo in decomposizione: nel caso di una carestia lei sarebbe già pronta.
«Mai sentito parlare di don Renzo Rossi?»
«Il rettore del seminario?»
«E anche insigne studioso, insegna Letteratura orientale in Cattolica» e mima un ammanettato.
«Quando è successo?»
«Stanotte l’hanno fermato alla frontiera di Ponte Tresa. Dentro l’auto c’era una sorpresa.»
«Lasciami indovinare: un marocchino di quindici anni? Avrà giurato che si trattava solo di un passaggio.»
«A volte ci vuol poco a dire la cosa giusta, ma non questa volta. Trasportava nel doppio vano dell’auto uno stock di libri antichi rubati dalle raccolte del Castello Sforzesco, e un bel pacchetto di contanti.»
«Lui che dice?»
«Dopo il fermo ha chiamato in curia, ma sembrava confuso, forse è l’età. Ha detto di aver solo fatto un favore a un amico libraio. Ma, a tuo parere, cosa può succedere ora?»
«Processo con rito immediato, si parte tra un paio di settimane. Alla peggio si patteggia e ne esce candido come un giglio di campo.»
«L’arcivescovo è molto preoccupato. Teme l’effetto della notizia sulla stampa e mi ha chiesto di contattarti. Ti stima molto, lo sai.»
«Ringrazio per la stima, ma dubito di potervi essere di aiuto, non sono penalista. Chiamate Galli.»
«Già fatto. Lui si occuperà della difesa durante il processo, tu ti occuperai dei contatti con la stampa, con l’obiettivo di far cadere il silenzio su questa brutta storia.»
«Per mettere la polvere sotto il tappeto basta una colf.»
«Evita inutili ironie. Questa è una guerra, e la comunicazione è la continuazione del conflitto con altre, e ben più letali, armi!»
«Guerra? Faccio fatica a seguirti.»
«Non ti sei accorto che è in atto un attacco su scala mondiale alla Chiesa cattolica? Adesso si serviranno anche della clava giudiziaria!»
«Attacco planetario? Non avrai ripreso a guardare L’impero colpisce ancora? Ti avevo detto di smettere con certa roba.»
Da ragazzo ne aveva fatto una malattia; nella stagione ’82/’83, era arrivato a 138 repliche. E ai tempi non c’era neanche la pay per view, si doveva andare al cinema.
«Tu scherzi! Mentre, anche nel tuo interesse, dovresti essere pronto a indossare l’elmetto.»
«Ma voi preti non dovreste predicare pace, tolleranza e via di seguito?»
«Caro figlio dei fiori, ti vorrei ricordare che da tempo siamo noi a darti la pagnotta, e anche un po’ di companatico. Forse dovrei rivolgermi a qualche tuo collega.»
«Non ti seguo. Qui non si sta forse parlando di un prete che s’è fatto beccare con le mani nella marmellata? Che c’azzecca la storia del complotto globale contro la Chiesa?»
«Teo, in questo mondo globalizzato tutto è interconnesso. I nostri nemici usano le debolezze di qualche confratello per aggredire la Santa Sede. Siamo nel pieno della lotta, e tu non puoi tirarti indietro!»
«Perché avete scelto me per tenere i contatti con la stampa? Non sei stato forse tu a definirmi “un buon piazzista immobiliare e niente più”?»
«Non ricordo di averlo detto. Comunque dopo lo scoop sul tuo servizio militare in Kosovo tutti sanno che la stampa comunista la tieni in pugno, mentre agli altri posso pensarci io.»
«Taci, prete! Non citare ancora quel posto in mia presenza.»
«Scusa, dimenticavo. Comunque Galli sarà pure un principe del foro, ma in quanto a comunicazione sta a zero.»
«Provare per anni a costruirsi una dignitosa carriera per finire a fare il censore: come sono caduto in basso.»
«Potrai esserci utile anche in un altro modo…»
Marco sfodera un sorriso a novantasei denti, decisamente fuori contesto.
«Se non sbaglio, sei anche amico del giudice Vassalli.»
«Definirlo “amico” mi sembra eccessivo. Quando lavorava a Milano abbiamo preso un caffè insieme un paio di volte, persona gradevole anche se piuttosto verbosa.»
Non è vero, e questo Marco lo sa.
Conosco discretamente bene, e da diverso tempo, il giudice Vassalli.
Ci siamo incrociati la prima volta una decina d’anni fa, quando lavorava alla sezione sfratti.
Si trattava di una delle mie prime udienze da praticante abilitato, non sapevo compilare un verbale neppure sotto dettatura, la controparte era una collega che sputava bile e forse aveva pure ragione.
Probabilmente avevo fatto tenerezza al giudice, la stessa che gli avrebbe provocato un piccolo cucciolo di koala. Forse per questo Vassalli aveva concesso lo sfratto con decorrenza immediata, senza concedere neppure il termine di grazia all’inquilino. E pensare che stavo sfrattando una novantenne sulla sedia a rotelle: al mondo non c’è nulla che supera in tenerezza un cucciolo di koala.
Quel giorno, terminata la nostra udienza, Vassalli aveva insistito per offrirmi il caffè.
«Avvocati, mi spiace, una questione urgente, torno più tardi» aveva detto rivolto alle facce scure dei colleghi in coda per la chiamata all’udienza, e sottobraccio mi aveva accompagnato al bar.
Quel giorno il ruolo delle udienze era già in ritardo di almeno un’ora e mezzo, ma ciò non aveva impedito che la pausa caffè si prolungasse per quasi un’ora, tra una chiacchiera e l’altra.
Un gran signore il giudice Vassalli, di quelli d’altri tempi.
Si era affezionato a me in modo particolare perché, mi disse, ero una goccia d’acqua con il suo adorato figliolo Rodolfo volato in cielo anzitempo. Un terribile incidente d’auto che gli aveva portato via anche la carissima moglie Mimì. Una storia struggente, adatta alle pagine di un melodramma. Se non fosse che, tempo dopo, ero venuto a sapere che Vassalli non aveva mai avuto né una moglie né un figlio. Al massimo, lo si vedeva in giro con certi lontani nipoti. Tutti molto carini i nipoti del giudice Vassalli, forse il DNA di famiglia, che spesso salta una generazione o due.
A ogni buon conto eravamo rimasti amici, e il caso della vita aveva voluto che lo ritrovassi all’orale all’esame di Stato, a presiedere la commissione esaminatrice.
Strane le coincidenze della vita.
Ora il giudice Vassalli è GIP al tribunale di Varese, dove gode della fama di solido garantista.
«Teo, Vassalli è il GIP che dovrà decidere sulla scarcerazione di don Renzo.»
«Vorrà dire che passerò a prendere un caffè.»
«Bravo, e offri tu, mi raccomando.»
«Frecciarossa per Roma Termini in partenza al binario 17.»
«Mamma quanto sei lento Teo, sei decisamente fuori forma. Forse è il caso di riprendere con la piscina.»
«Don, tu non sai quanta ginnastica in questi ultimi tempi, non puoi neppure immaginare.»
«Non è un gran periodo neanche per quella da letto, a giudicare dal tuo umore recente.»
«Prete, pensa alla tua ginnastica.»
«Ascolta, oggi pomeriggio vai a trovare don Renzo a San Vittore.»
«Non l’avevano internato a Varese?»
«Ha chiesto lui il trasferimento. Così da poter ascoltare al mattino le campane di Sant’Ambrogio.»
«Quant’è romantico il nostro monsignore.»
«Tu cerca di rassicurarlo, al limite racconta qualche favoletta. Voi avvocati siete bravi in quello.»
«A raccontare favole sono bravo, tanto ad assolvermi ci pensi tu.»
«Fai il bravo, e che il Signore ti benedica.»
«E tu ricordati di portare i miei saluti a Joseph.»
«Joseph chi?»
Marco Ubezio
Cara Barbara,
per restare in tema “bello” il tuo commento!
Per quanto riguarda l’avvocato Marco che scrive posso solo dirti che è più simpatico di Matteo, il protagonista.
Grazie delle Tue parole e del Tuo incoraggiamento, non mi resta che augurare un in bocca al lupo reciproco !
Un abbraccio
Marco
Barbara Pascoli (proprietario verificato)
magari con qualche “bello” di meno il mio commento sarebbe stato meglio…
Barbara Pascoli (proprietario verificato)
Che bello “I gemelli Gheddafi”! Un romanzo, un giallo, ma anche una storia sulla felicità scritta con bella maniera e ottima mano. Ho conosciuto Marco solo attraverso le sue pagine e, dopo averle lette, mi resta una curiosità: come sarà in realtà questo avvocato che, per passatempo, scrive?
Marco Ubezio
Grazie Helga,
hai ragione Napoli ha un posto speciale nel mio cuore. E’ un luogo in cui ho assorbito tanta energia positiva e creativa. Alcune pagine del libro sono nate proprio lì e nella vicina isola d’Ischia.
Grazie ancora delle tue parole
Marco
Helga Autorino (proprietario verificato)
sebbene il racconto sia ambientato in una milano ricca di suggestioni, dalla lettura del romanzo emergono in me tanti ricordi di Napoli, si vede che l’autore ha un particolare affetto per questa città, una città che nonostante tutti i problemi da cui è afflitta rimane un luogo dell’anima, occupa sempre un posto speciale nel mio cuore!!
Complimenti !!
Marco Ubezio
Grazie Alessandro delle tue parole.
Mi piace che tu abbia colto la vena un po’ british del romanzo. Come avrai capito il racconto noir è un po’ lo strumento per provare ad entrare nel mondo interiore del protagonista. Un mondo non facile da decifrare, neppure per chi ha provato a tradurlo su carta.
Grazie ancora della tua attenta lettura e del tuo supporto.
Marco
Alessandro Minisini (proprietario verificato)
Il libro scritto da Marco Ubezio è un giallo all’italiana con degli innesti tipici “british”, ambientato tra Milano, Varese e Lugano, tratta di una serie di eventi delittuosi intrecciati ad una vicenda di ricettazione di manoscritti antichi.
Il libro alla lettura risulta fluido, a certi tratti divertente smorzando la serietà dell’argomento trattato, la suspance che si crea pagina dopo pagina fa si che ci sia la voglia di scoprire la verità e di arrivare all’ultima pagina del testo.
L’ambientazione risulta essere decisamente veritiera e assolutamente contemporanea, calata perfettamente nel clima e nel modo di fare italiano.
Garantisco che alla fine del libro… rimarete stupefatti dal finale!
Alessandro M.