È gol!!! È il riscatto, minimo, di cui ha bisogno. È l’identità di un italiano migrante, derelitto, disperato, negletto, che, incontenibile, urla. È una voce che grida ‘sono io, proprio io, e sono così’. È l’identità ad essere incontenibile, ad uscire fuori urlando, rivendicando la propria presenza e la propria essenza. In questo altrove può essere un disperato, ma rimane integro nonostante il mondo si adoperi nel suo insieme a travolgere la sua integrità. Rimane il fatto che ‘è solo a favore dei disperati che è concessa la speranza’.
‘un uomo coraggioso ha paura tre volte:
quando sente il ruggito del leone,
quando ne vede le impronte,
e quando se lo trova davanti.’
Proverbio somalo
Chi siamo?
La specie umana è l’unica tra quelle viventi per la quale il fatto di vivere è un problema da risolvere.
Uno dei primi conflitti che ogni persona è chiamato a risolvere è relativo alla propria identità.
Moltissimi anni fa, Seneca disse una frase rimasta celebre: “il pilota di una nave in tempesta ha dentro di sé due persone: il passeggero che se la fa sotto dalla paura, e il pilota stesso, che non può avere paura nemmeno un istante”.
Il microbiologo che studia un virus ha dentro di sé la paura del paziente contagiato, dal momento che corre esattamente, e da vicino, lo stesso rischio, ma deve anche avere dentro di sé il rigore, la freddezza e le conoscenze necessarie per rispettare tutte le prescrizioni igieniche utili per osservare il microorganismo, capire il suo comportamento e i suoi punti deboli, e individuare le prassi necessarie alla cura del paziente oggi, e, eventualmente, per la sua stessa cura domani. Deve avere dentro due persone. Una che ha paura ed una che non ne ha.
Matthew Lukwiya, il microbiologo che lavorava sul terribile virus Ebola, sapeva benissimo che il morbo avrebbe potuto colpire anche lui, consumandolo nel giro di una settimana. Nel giro di una settimana, perché quel morbo ha una potenza distruttiva impressionante, e diciassette membri del personale medico, in pochissimo tempo, erano stati uccisi nello stesso spettacolare modo delle vecchie pestilenze europee di alcuni secoli fa. Nessuno di loro era andato via dall’ospedale, in quei giorni in cui ognuno sapeva bene di correre enormi rischi. E nessun microbiologo, pieno della paura che ciò comporta (identità di ruolo, per intenderci), lascia o lascerebbe il suo lavoro. Bisogna essere in due per affrontare questo tipo di lavoro. Avere paura e non averne. Lavorare e temere di non farcela, perché il virus è invisibile e infinitamente piccolo, ma la sua forza biologica è devastante e difficile da contrastare. Lukwiya, 42 anni, primario dell’ospedale Lachor, di Gulu, in Uganda, è il medico che per primo aveva segnalato l’esplosione di un nuovo focolaio di Ebola in Africa, a cinque anni dall’ultima spaventosa epidemia. È morto poco dopo le 1,20 di una mattina nel reparto infettivo del St. Mary’s Lachor Hospital. Era primavera. È morto colpito dall’Ebola. Aveva reso quell’ospedale il migliore del suo paese, curando circa 18.000 persone in un anno.
L’insegnante accorto sa benissimo di essere insieme discepolo e docente. Deve essere docente e discepolo perché deve saper riportare le sue conoscenze, scomponendole e ricomponendole nella forma e nel modo che tutti i discepoli possano comprendere e conoscere le cose che egli conosce, e deve essere discepolo perché le sue conoscenze non sono terminate il giorno che discusse la sua tesi. Deve essere anche i suoi discepoli per saper scomporre le sue conoscenze esattamente nel modo in cui divengano accessibili alle orecchie e alle menti dei discepoli stessi, e ricomporle opportunamente, in modo che si chiuda il cerchio didattico della comprensione, dell’intuito, della conoscenza e dell’immaginazione. Deve saper usare il giusto grado di fascinazione per accendere la curiosità dei suoi discepoli, simile a quella che aveva lui stesso quando era discepolo. L’insegnamento è per prima cosa un gesto di amore. Un gesto erotico che apre il cuore, il quale apre la mente. Così impara ogni giorno cose nuove, dalla vita, dai libri e dalla gente. Dai suoi stessi discepoli in questa reciproca azione di amore. Altrimenti non sarebbe un buon docente. Ed essere un buon docente è una ricchezza enorme per la comunità che lo ospita.
Un buon falegname è un costruttore di tavoli e armadi. Ma è anche il suo stesso cliente, perché deve poter immaginare in che modo il suo mobile sia gradevole alla vista per chi lo dovrà comprare.
Chi scrive un best seller è lo scrittore e il suo pubblico, di cui conosce bene cosa leggerà con piacere. Ciascuno di noi è molto più di una sola persona.
Essere pilota e passeggero del proprio viaggio esistenziale non comporta affatto il bisogno di essere una persona illustre, microbiologo o fisico nucleare, ma ognuno di noi è chiamato nel corso della propria esperienza vitale ad assumere entrambi i ruoli, e superare, nel grado e nella misura che ci è consentito, la paura che accompagna necessariamente le incognite, molteplici, che caratterizzano ogni viaggio. C’è l’altro dentro di noi. Abbiamo costruito la più grande e misteriosa delle invenzioni, il linguaggio umano, per parlare con l’altro e non per parlare con noi stessi.
Siamo molte persone, dentro di noi, come aveva segnalato con grande accorgimento clinico il grande psichiatra che è stato Eugen Bleuler nel secolo appena passato.
Bisogna che si sappia portare dentro di sé (almeno) due persone, sé e l’altro. Il problema non è legato alla presenza di due o più persone (dipsichismo o polipsichismo), quanto piuttosto alla capacità saper gestire adeguatamente e con equilibrio tutte e due (o più) le persone. È il superamento efficace, più o meno felice che sia, del primo essenziale conflitto che ci troviamo ad affrontare. Un conflitto che è dentro di noi. La soluzione felice di questo conflitto ha a che vedere con la nostra stessa felicità o infelicità. La risoluzione completa ed efficace dell’enigma che la vita ci sottopone determina la possibile sicurezza delle nostre scelte, delle nostre azioni e dei nostri pensieri. Il sé e l’altro sono dentro di noi per la nostra natura. Per la nostra natura sociale. La nostra identità personale porta al suo interno, insieme, la socialità che è il nostro continuo riferimento (l’altro), e la nostra individualità (la nostra esperienza del mondo). Le donne conoscono meglio degli uomini questo aspetto, che apre all’alterità, per il fatto che possiedono una struttura biologica duale, grazie alla loro proprietà riproduttiva. Il corpo di una donna è nato per accogliere al suo interno un altro corpo, un altro essere. Questo genera un grado enormemente superiore di consapevolezza e di apertura verso gli altri. La presenza di alterità al nostro interno rende ovviamente più complesso il problema, di per sé enigmatico, della nostra identità personale.
È interessante considerare, a proposito dell’identità individuale, le osservazioni di Levi Strauss, il quale faceva notare, nel suo lavoro di antropologo, che gli individui di comunità primitive allontanati da esse per crimini insostenibili (violazione di tabù p.e.), erano destinati a morire dopo due o tre giorni, non di fame o di sete, ma per la perdita di identità (dis-identificazione). La comunità di riferimento, nella quale abbiamo appreso e sviluppato grande parte del nostro particolare e personale modo di essere nel mondo è interna a noi (gli altri sono dentro di noi, sono interiorizzati nella nostra vita simbolica), allo stesso modo in cui è esterna a noi (la comunità di riferimento nella vita reale). La nostra stessa identità è fornita, nella sua parte sociale, dalla comunità di provenienza attraverso il riconoscimento degli individui per quello che sono. Ogni persona allontanata dalla comunità cessava di essere guerriero, religioso, sciamano, cacciatore, pastore, agricoltore, vasaio e non sapeva più riconoscere sé stesso e la propria essenza, una volta privato del riconoscimento della comunità. Il primato della società sull’individuo, fortissimo nelle società primitive, rimane integro nella cultura greca, cultura della luce, dove ognuno è sé stesso in quanto la comunità di Delo, di Atene o di Sparta lo riconosce come tale. Socrate beve la cicuta, nonostante i trenta tiranni gli avessero fornito la possibilità di fuggire, per il semplice fatto che, come egli aveva insegnato, è necessario riconoscere la comunità che ci ospita e le leggi, quali che siano, che la governano, perché è da essa che riceviamo, per contro, il riconoscimento della nostra personale identità. Nella cultura greca, dove troviamo gran parte delle nostre origini, l’individuo non ha spazio fuori della comunità che lo ospita e lo forma. L’identità, nelle sue componenti sociali, è un dono che la comunità fa alla persona. Questo legame profondo tra l’individuo e la comunità di riferimento lascia comprendere meglio, se ce ne fosse bisogno, di come gli altri siano presenti all’interno di ogni individuo.
Un proverbio zulu sottolinea con chiarezza il legame tra l’individuo e la comunità cui appartiene: ‘sono ciò che sono in virtù di ciò che siamo tutti’.
L’individuo non può essere solo, monacòs, dice Aristotele, perché se lo fosse sarebbe dio oppure una bestia. È molto più probabile, in questo caso, essere una bestia.
La nostra identità è un complesso processo psichico che è il frutto di una relazione. Il frutto del riconoscimento. Se nessuno mi riconosce, allora sviluppo un’identità negativa. Essa, l’identità, non ci compete perché nasciamo, ma è un dono sociale cui siamo profondamente legati.
Vi era a Delfi, nel frontone del tempio, il celebre assioma Γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso, che è il compito di ognuno per affrontare la vita, e che Socrate stesso aveva scelto come proprio compito essenziale al primo posto della sua ricerca. Questo assioma, oltre che una locuzione che è una verità in sé, o un principio che si ammette senza discussione, evidente per sé stesso, è un invito (categorico) a definire con chiarezza la nostra identità personale, cioè quello che siamo davvero. Ognuno è mosso da un demone (daimon) personale e il suo compito è quello di individuarlo, riconoscerlo, farlo crescere ed esprimere nel modo migliore tra quelli possibili. La felicità di ognuno, l’eudaimonia, dipende dalla completa ed efficace risoluzione del proprio demone. Ma vi è, accanto al primo imperativo dell’assioma, un secondo e inquietante imperativo, kata metròn; perché il demone possa esprimersi bene deve farlo ‘secondo misura’, nella misura in cui sia possibile. Se il mio demone è fare l’attore devo affrontare l’emozione del palco senza la pretesa di essere migliore di Mastroianni. Uscire dalla giusta misura del demone potrebbe essere l’inizio della mia rovina e della mia tragedia. L’eudaimonia, il giusto rapporto tra noi e il nostro demone, è il problema da risolvere che caratterizza la vita degli uomini.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.