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Romina ha grande voglia di vivere e di fare, tanti interessi, idee e fantasia, per non parlare della sua generosità.
A casa dei miei genitori conservo ancora un quadretto che, insieme ad altri tre o quattro, ha dedicato agli amici più cari.
Piccole cose? Grandi, per l’impegno che ci ha messo ma soprattutto per il valore incalcolabile dell’amicizia che mi e ci ha voluto dimostrare. Non so se sarei capace di fare altrettanto.
Fabio ha una spiccata sensibilità per la poesia tanto che, in un periodo in cui facevo parte di una big band, insieme a Joseph, il tastierista del gruppo, avevo deciso di riscrivere e arrangiare uno dei suoi testi in forma di canzone.
Mi sono chiesto che cosa darebbe ora per poterle recitare, le sue poesie, lui che deve lottare con gli spasmi anche solo per parlare. Io che posso, invece, metto un libro di fianco all’altro sullo scaffale, senza mai trovare il tempo per leggere.
Di Mauro ho un ricordo preciso e indelebile: la sua mano alzata al cielo sulle note di una canzone di Vasco Rossi al concertone “Fronte del palco” di San Siro, il 10 luglio del 1990: “Guarda che vita che hai/guarda dove vai…”.
Quando vivevo ancora con i miei, nei giorni in cui mi sentivo giù, entravo nel bar sotto casa, ascoltavo questa canzone dal juke-box e pensavo a Mauro.
Eppure anche questo non è servito a cambiarmi se, come scrissi tempo fa su uno dei miei taccuini: “Non mi basta l’infelicità di nessuno per poter essere felice”, una frase tratta dal Diario di Jules Renard.
Mauro soffriva di atassia, un disturbo nervoso che consiste nella progressiva perdita della coordinazione muscolare. Peggiora con l’andare del tempo e rende sempre più difficile eseguire i movimenti volontari.
La cosa più grave è che, come per la distrofia muscolare — altra patologia degenerativa — chi ne soffre non ha lesioni cerebrali o carenze intellettive. In pratica, equivale ad assistere impotenti allo spettacolo del proprio corpo che non fa quello che il cervello gli chiede. Devastante. E una volta di più, adesso che scrivo di Mauro, mi accorgo che ho ancora molto da capire.
Forse è anche per questo che ho deciso di iniziare questo libro.
Il motivo più forte che mi ha spinto a scrivere è stata una di quelle cose apparentemente trascurabili e destinate invece, come spesso succede, a rivelarsi determinanti: una delle risposte di Francesca Mazzucato, scrittrice porno-soft, alle domande stile “questionario di Proust” pubblicate su Sette, il settimanale del Corriere della Sera.
“Qual è il tuo motto preferito?” era la domanda.
“Di Joseph Conrad” rispondeva Mazzucato. E citava: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”.
Non potei fare a meno di pensare: Ecco, Conrad ha scritto una cosa che ho in mente da sempre.
Immaginai anche di sedermi con lui a un tavolino di un bar e chiedergli se avesse trovato risposta al suo interrogativo.
Ho già constatato come, anche attraverso gli altri, parliamo di noi stessi.
Per esempio, pur non avendo letto molto di suo, credo che non riuscirei a conoscere Isabel Allende così bene come dalle pagine di Paula: attraverso la malattia della figlia prendono vita il ritratto dell’autrice e quello della sua famiglia.
Allo stesso modo Giuseppe Pontiggia, in Nati due volte, finisce per rivelare molto di sé mentre racconta di suo figlio Paolo.
Ecco: un po’ per egoismo, un po’ per invidia, un po’ per emulazione o forse per tutte e tre le cose messe insieme, ho deciso di scrivere.
Egoismo perché la risposta alla domanda di Conrad in realtà non c’è. O, per quanto mi riguarda almeno, sono arrivato alla conclusione che a rimasticare le stesse parole rischio di giocare alla parte dell’“incompreso”: mia moglie e io facciamo due lavori molto diversi, che richiedono una passione altrettanto differente.
Chiedere che mi capisca sarebbe una pretesa, quindi la mia risposta è questo libro.
Invidia perché penso ad autori che pubblicano un milione di copie con la prima cosa seria che pubblicano. O a un esempio come quello di Tullio Avoledo, di cui dicono che scriva con la stessa facilità con cui normalmente si prendono appunti (per quel poco che ne so, gli unici precedenti in questo senso in letteratura sono stati Simenon e Scerbanenco).
Emulazione perché, per tornare a Pontiggia, l’uomo e lo scrittore si fondono nell’immagine della persona che vorrei essere: un narratore dalla cifra stilistica inconfondibile e dalla forma tonda, esatta, netta. Un misto fra l’acuta ironia di un Flaiano o di un Longanesi e la competente precisione di un Flaubert, che era capace di ripetere ad alta voce pagine e pagine dei suoi libri alla ricerca del mot just: proprio come Pontiggia, che a tutto questo aggiunge il fatto di essere riuscito a raccontare una vicenda personale, simile alla mia, quasi fosse stato un altro ad averla vissuta.
Allora, visto che – come scriveva Eduardo de Filippo – gli esami non finiscono mai, cerco almeno di andare avanti mantenendo una buona media.
Prologo
Da circa trent’anni prendo nota di quello che, un po’ alla volta, è entrato a far parte della mia vita: l’ultimo libro letto, l’ultimo film visto, una canzone riascoltata, ricordi, impressioni, idee, osservazioni, varie ed eventuali. Parecchie delle cose scritte su un considerevole numero di taccuini sono dedicate a mia moglie Marina e ai nostri figli, Valentina e Umberto, ma in particolare al secondo dei due.
Tanto che un giorno, scorrendo alcune pagine, si è fatta strada l’idea di abbozzare un libro che avrebbe dovuto intitolarsi Il diario di Umberto.
L’idea è diventata prima una suggestione e poi un sogno, a metà strada tra John Lennon e Martin Luther King. Con una differenza, però: il primo è un sogno laico, “Imagine there’s no heaven/it’s easy if you try/no hell below us/above is only sky”, invece “I have a dream…” nasce dalla volontà di amare in senso cristiano.
La mia memoria è andata soprattutto al sogno di M.L. King e a Le pratiche inevase, una pagina di Primo Levi fra quelle raccolte in Lunario dei giorni di quiete da Guido Davico Bonino, dove l’autore di Se questo è un uomo fra l’altro scriveva: “Dovevo dire qualcosa a qualcuno, ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato. Dovevo anche dare qualcosa, una parola saggia, un dono, un bacio; ho rimandato da un giorno all’altro”.
Così ho deciso di scrivere un libro su nostro figlio con un nuovo titolo, Il bambino dell’aceto, e se avrete la bontà di leggerlo ne capirete il motivo.
Forse l’ho fatto perché mi piace pensare che, se Dio vuole, un giorno Umberto lo possa leggere.
Forse perché, con tanta gente che urla, non c’è chi dia voce a chi non ne ha una.
Forse perché, quando arriverà il momento, Umberto possa capire che il suo papà gli ha voluto bene e ha cercato di farlo crescere come un bambino un po’ speciale, con la sua dignità, non come un bambino “diverso” o peggio ancora “diversabile”.
Forse perché non ci avevo mai pensato prima, come alle migliaia di fotografie che non ho scattato e sono rimaste solo flash della memoria.
Forse perché non ho mai piantato un albero e vorrei che, quando non ci sarò più, restasse a Umberto qualcosa di me.
Forse per tutte queste cose o forse solo perché è bello farlo, ho cominciato a scrivere.
L’INFANZIA
Questi bambini nascono due volte.
Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile.
La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare.
Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato.
Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.
(Giuseppe Pontiggia, Nati due volte)
Diagnosi
Quando è tuo figlio ad avere problemi, accettarne l’evidenza è forse la cosa più difficile da fare: potresti aver bisogno di parecchio tempo per riuscirci.
Con tutto il rispetto per la classe medica, neanche il linguaggio scientifico aiuta a fare chiarezza, anzi.
La prima persona ad aver visitato Umberto, nel luglio del 1999, è stata una neuropsichiatra dell’UONPIA (Unità Operativa di Neuropsichiatria per l’Infanzia e l’Adolescenza): una signora matura, dall’aspetto gradevole, pacata nei gesti. Di poche parole, analizzava nel suo studio il comportamento di nostro figlio, alternando l’osservazione diretta a quella dell’immagine di Umberto riflessa nel grande specchio che aveva alle spalle.
Mia moglie e io aspettavamo di ricevere una risposta: lei come un gladiatore che offre il petto al colpo di grazia, io come un innocente condannato a un verdetto ingiusto.
La dottoressa conosceva a memoria le nostre domande, perché chissà quanti altri le avevano già chiesto le stesse cose, seduti sulle stesse sedie, davanti alla stessa scrivania, nello stesso studio.
Avevamo paura di fare l’unica domanda che ci premeva.
Ci si parlava in codice, a scambi di piccoli e intermittenti sorrisi di circostanza: per noi una lenta agonia, per lei l’ennesima replica di un rituale. Seguì una serie di osservazioni, cadenzate dal calendario, alcune delle quali condotte da una psicomotricista.
Alla fine arrivò il responso: disturbi della relazione.
Tutto e niente, un punto di partenza più che di arrivo.
Erano molte le perplessità e ci sembravano tutte giustificate, tanto più che fino a quel periodo Umberto aveva avuto una crescita normale: a dieci mesi camminava e di lì a poco cominciò a parlare, esprimendosi soprattutto con parole tronche, per esempio, “lato” stava per “gelato”.
Vivace, attento, un po’ timido ma affettuoso, comunicava con tutti i familiari. Forse l’unica cosa che gli mancava era un po’ di espressività verbale spontanea.
Mia moglie e io ci eravamo anche chiesti se sul suo comportamento potesse avere influito un evento traumatico avvenuto nel marzo 1998.
Mia suocera, che accudiva Umberto, risalendo in casa era caduta dalle scale, procurandosi delle fratture multiple.
Nostro figlio era rimasto molto scosso dalle urla di dolore della nonna e dal trambusto seguito all’incidente.
A parte questo avvenimento, eravamo giunti alla conclusione che non fosse correlato al suo comportamento, non eravamo assolutamente persuasi della diagnosi ricevuta.
Infatti, dopo un episodio allarmante accaduto nell’estate del ’99 di cui racconterò più avanti, avevamo preso un’altra strada ed eravamo approdati a La Nostra Famiglia con sede a Bosisio Parini: un’istituzione nel mondo della disabilità, un riferimento per un grande numero di mamme e papà che tutti i giorni arrivano lì da ogni parte d’Italia (e non solo).
Dopo un check-up di quindici giorni, il referto della diagnosi (non ancora definitiva, l’avremmo scoperto più in là nel tempo): sindrome di alterazione globale dello sviluppo fisiopsicologico.
Un concetto scientificamente più chiaro rispetto a disturbi della relazione ma comunque criptico, la differenza che può esserci fra i termini “aspirina” e “acido acetilsalicilico”. Però cominci a capire che tuo figlio ha una sindrome, qualcosa di un po’ più complesso di una malattia.
Non soffre, per esempio, di diabete, per la cui diagnosi è sufficiente l’esito degli esami del sangue. E quindi, insieme alle cause che l’hanno generato, puoi conoscere le cure più efficaci per combatterlo. La sindrome è una concomitanza di sintomi e segni clinici, a volte difficili da definire. Proprio per questo è altrettanto difficile affrontarla.
A distanza di tempo, al primo check-up ne seguì un secondo, effettuato sempre a Bosisio Parini, che diede il verdetto definitivo: autismo infantile.
Quando l’ho saputo ero a Milano, stavo per pranzare con alcuni colleghi dell’agenzia di pubblicità in cui ho lavorato per tanti anni come copywriter.
In quel momento, Marina mi aveva telefonato da La Nostra Famiglia, dove si trovava con Umberto.
Ricordo che la mia prima, più intima reazione, era stata di rifiuto. Dentro di me ero pronto a giurare che si sbagliavano.
Poi la mente era andata subito a mia suocera e alle sue preoccupazioni, quando ci ripeteva: «Quel bambino ha qualcosa di strano, non sarà autistico?».
Prima che decidessimo di portare Umberto a una visita medica ce lo aveva detto diverse volte e, in quelle circostanze, avevo sempre replicato che non poteva essere.
La mia obiezione partiva dal parametro di giudizio che avevo allora: l’osservazione di un ragazzo autistico all’interno di una big band composta da musicisti e cantanti “speciali” e normodotati, di cui avevo fatto parte anni prima.
Dovevo ancora imparare tante cose perché, se è vero che l’autismo ha una scala di tratti tipici comuni a chi è affetto dalla sindrome, è altrettanto vero che fra soggetto e soggetto esistono differenze e peculiarità.
L’avrei scoperto più avanti, ma a quel tempo ero portato a concludere che il comportamento di nostro figlio non aveva niente a che vedere con quello di Andrea, così si chiamava il ragazzo della big band.
Invece l’intuizione di mia suocera era giusta e di lì a non molto avrei dovuto ammetterlo.
Dopo la diagnosi definitiva si era trattato, prima di tutto, di fare i conti con l’accettazione di un’evidenza.
Come ho già scritto nell’introduzione a questo libro, penso che Dio abbia voluto allenarmi allo scontro con la realtà.
Ne sono convinto: niente succede per caso, anche se tante volte non ne comprendiamo il senso.
Quindi credo che anche l’esperienza nella big band abbia avuto la sua importanza nel prepararmi.
Per alcuni anni, con amici affetti da problemi motori o mentali, ho condiviso molto del mio tempo: serate a suonare in sala prove, zingarate o vacanze al mare sono solo alcuni dei tanti momenti vissuti insieme.
Nonostante tutto, nonostante abbia conosciuto i più diversi tipi di disabilità, mi ci sarebbero voluti due mesi per digerire il boccone e accettare un dato di fatto: mio figlio è autistico.
Sì, ci sono anche padri che non hanno affrontato questa realtà, chi smarcandosi chi fuggendo, ma non mi interessa granché.
Dopo lo smarrimento iniziale, io ero contento di aver superato il test di ammissione alla classe dei “genitori con figli disabili”.
Una volta entrati in questo club, si imparano molte cose.
Io, per esempio, avevo cominciato a capire che dietro le parole “autismo infantile” c’è tutto un mondo da esplorare.
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