Il borgo di Castronuovo in Valle è avvolto da un’atmosfera atavica, ovattata e distante dalla frenesia delle grandi città. Solo due situazioni insolite sembrano incrinare questo equilibrio e impensierire Andrea Trinetti: il trasferimento al borgo di alcune persone provenienti da diverse parti d’Italia e dall’estero, e la scelta di alcuni abitanti di Castronuovo di rassegnare le dimissioni dalla locale fabbrica di birra per dedicarsi ad attività più vicine alla propria natura.
Secondo le autorità, questi comportamenti sono inammissibili ed è necessario comprenderne fino in fondo le motivazioni: servono controlli e indagini per ristabilire l’ordine, mentre tra gli abitanti del borgo si diffonde la crescente percezione che la loro libertà non è mai stata così minacciata.
Capitolo I
Il borgo sta lì, da oltre otto secoli, seduto su un monte che non ha nome, ma che Dio ha voluto mettere là giusto per far sedere quel mucchio di case un po’ grigiastre, dai tetti rossastri, che stanno addossate le une alle altre e si rincorrono quasi a voler gareggiare per arrivare prima alla cima di quel monte dove svetta il campanile, rigorosamente posizionato nella parte più alta, così da poterlo avvistare da qualsiasi parte si raggiunga il borgo. Da quella posizione lui domina, controlla quel mucchio di case che lo avvolge come un mantello caldo. Intanto il batacchio scandisce regolarmente il tempo, percuote la campana per farla cantare: le vibrazioni si disperdono fra le piccole vie strette e intrigate del borgo, fino a giungere dentro le case e risuonare in ogni angolo per echeggiare alle orecchie delle persone.
Nei borghi esiste da sempre una polvere misteriosa, una polvere che si addentra nelle pietre e che scorre attraverso filamenti immaginari che intrappolano i sassi per non farli scappare e che si dirama nell’intreccio di una rete che trattiene come pesci in un mare, le case.
È la magia di questi luoghi che restano ovattati, immuni dalla confluenza di infinite ansie, di occhi accecati incapaci di vedere lo spazio intorno a essi, di passi attaccati nevroticamente a orologi che inseguono gli umani con lancette che scoppiano secondi, minuti e ore come le cerbottane lanciano fastidiose pallottole d’argilla secca. Qui la dimensione tempo resta legata allo scorrere lento del sole, ai galli che presto cominciano il risveglio, al pacato camminare di scarpe, a gesti ancestrali che altrove si sono smarriti dentro un rumore costante che fa da sottofondo all’esistenza continuamente incompiuta, male annusata, inconsapevole di tutto se non della fatica che attorciglia le anime e sfibra i muscoli che si muovono dentro una perenne stanchezza.
Intorno, una selva infinita di boschi di macchia mediterranea, di pini, di ginepro, di leccio e di tanti altri esseri viventi che dimorano indisturbati, fa da cornice a Castronuovo in Valle, una cornice che paradossalmente non ha confine perché il paesaggio sfugge agli occhi e l’immensità s’impiglia nello sguardo di chi cerca una linea su cui arrestare l’immagine.
Al borgo di Castronuovo in Valle abitano poco più di mille anime, non molte, e grazie a ciò tutto si svolge con estrema regolarità all’interno di quel mucchietto di pietre e sassi. Nulla manca a Castronuovo in Valle, tutto è collocato a perfetta dimensione umana, si può dire “a regola d’arte”.
Un miraggio, un’oasi per chi si addentra fra i vicoli sconnessi e a tratti burloni, i quali confondono i passi stranieri e ironizzano sull’importanza di artifici che altrove si sono dati al susseguirsi dei giorni.
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Nel clima silenzioso di un sabato mattina, la macchina blu cobalto di Andrea sfrecciò davanti al bar Italia. Il rumore del motore, fatto girare velocemente, spezzò per un attimo l’atmosfera ovattata, per ricomporla immediatamente dopo che l’auto si fermò nel piazzale, chiamato usualmente da tutti “piazzone”, antistante il bar.
Andrea Trinetti, classe 1969, aveva muscoli caldi: le notti infuocate con Virginia, al mattino successivo, lo animavano sempre al punto che gli pareva che il cervello girasse più velocemente. Quella mattina Andrea si era alzato pensando ancora alle parole dette la sera precedente da suo cugino Alberto, titolare di un B&B del borgo, che avevano continuato a ronzargli in testa anche prima di scivolare fra la pelle morbida di Virginia.
La sera prima, Alberto gli aveva parlato dell’uomo con il trolley rosso amaranto che aveva fissato una camera al B&B soltanto per un paio di giorni, perché dopo, a suo dire, “avrebbe finalmente messo piede nella casa comprata accanto ai Voltoni”. Alberto si era congratulato con l’ospite e aveva aggiunto un caloroso benvenuto offrendogli un prosecco di buon augurio.
La notizia del nuovo arrivato a Castronuovo in Valle, che per Alberto rappresentava solo un guadagno, aveva al contrario lasciato perplesso Andrea. Dopo l’amplesso caldo e profumato vissuto con Virginia, era rimasto il resto della nottata con gli occhi fissati sul soffitto. Aveva fumato una sigaretta e poi si era messo a riflettere su quell’ennesimo episodio di trasferimento nel borgo di qualcuno che, improvvisamente, aveva deciso di cambiare completamente vita. L’episodio non lo avrebbe così tanto colpito se a questo non si fossero aggiunte altre situazioni capitate negli ultimi cinque mesi, che aveva reputato quantomeno “strane”. Quattro dei suoi migliori amici da anni lavoravano alla grande fabbrica di birra di Sassecchio, attività che dava lavoro alla maggior parte del borgo di Castronuovo in Valle e di altri piccoli centri abitati limitrofi. A distanza di circa un mese l’uno dall’altro, si erano presentati una mattina in direzione e si erano licenziati. Lì per lì, ciò non aveva destato grande scalpore, se non per il fatto che i quattro personaggi erano stati tacciati come “pazzi”, privi di qualsiasi senno. Così erano stati considerati da quasi tutta la comunità del borgo. L’appellativo di “pazzi” si era poi arricchito degli aggettivi “sconsiderati” e “furiosi” nel momento in cui fu reso noto che tutti e quattro avevano deciso di dare una sterzata alla loro vita, inseguendo sogni e passioni che li avrebbero indirizzati verso una totale nuova gestione del proprio tempo.
Giuliano, il primo a essersi licenziato, aveva acquistato alpaca e si era messo ad allevarli per venderne poi la lana. Aveva ripulito il vecchio appezzamento di terra che aveva poco lontano da casa, nella parte più bassa del borgo, quella più vicina alla macchia mediterranea che gli correva intorno. Un pezzo di terra che in tutta la sua vita non aveva mai considerato, neanche quando suo padre, orgoglioso dei raccolti fruttuosi che quel piccolo appezzamento gli donava, lo portava a calpestare appositamente le zolle friabili, con la speranza che Giuliano se ne innamorasse e proseguisse la sua attività di agricoltore. Una speranza vana, in realtà. Una terra ignorata, calpestata senza amore, che per Giuliano aveva solo rappresentato un fastidio per quelle poche tasse che doveva persino pagare, non trovando nessuno disposto ad acquistarla, dopo la morte di suo padre. Poi era arrivato quel giorno. Un malessere si era fatto strada dentro di lui, inizialmente quasi senza che se ne accorgesse, palesato da un cattivo umore che lo vedeva sempre arrabbiato con tutti. Persino sua moglie Rosalba aveva finito con il rivolgergli il meno possibile la parola. Alla fine il malessere era scaturito in una vera e propria insofferenza per il proprio lavoro da operaio, sempre dentro le mura della fabbrica, tra il rumore di quegli impianti che non si fermavano mai, rendendo sempre uguale e privo di qualsiasi sfumatura il tempo che procedeva inesorabilmente. Forse era stata proprio la mancanza di un tempo scandito dai diversi rumori del mondo che lo aveva fatto riemergere da un limbo in cui si era improvvisamente visto sprofondato. Per un po’ non aveva capito nulla di quell’ammasso confuso di sensazioni nuove che si erano appollaiate insidiose nella sua mente. Anzi, in un primo momento aveva persino provato un profondo smarrimento, addirittura un senso di colpa per non riuscire più a percepire il sentimento di rispetto, quasi ossequioso, che aveva da sempre nutrito per quella tuta da operaio che vestiva da oltre vent’anni e che gli dava regolarmente da mangiare ogni mese, indossata con l’orgoglio di appartenenza a un lavoro che in molti, fuori dal territorio, guardavano con invidia. Eppure tutto a un tratto gli ambienti della fabbrica e persino la sicurezza del suo lavoro, sempre quello ormai da anni, avevano cominciato a opprimerlo. Il borgo – nel suo silenzio ovattato – pareva parlargli e spesso, negli ultimi tempi, Giuliano aveva cominciato a fare lunghe passeggiate immerso nelle serpentine di strade che si intersecavano e si rincorrevano come confuse stelle filanti. E più camminava, più la testa si confondeva tra i vecchi pensieri abbarbicati con energia alle convinzioni di sempre e tra queste nuove immagini che, nebulose ma tenaci, cominciavano a logorare le antiche convinzioni. Non ne aveva parlato neanche con Rosalba: si era licenziato e basta, come se dovesse ormai definitivamente tagliare la testa al toro.
Gli altri tre operai dello stabilimento avevano più o meno ripetuto lo stesso meccanismo. Qualcuno aveva impiegato più tempo, qualcun altro al contrario ci aveva riflettuto meno e aveva da subito seguito l’istinto, fatto sta che nel giro di pochi mesi tutti e quattro avevano letteralmente mollato la vita di prima per aprire attività individuali, decidendo di dedicarsi chi all’apicoltura, chi alla coltivazione di piante officinali, chi alla produzione di formaggio. Tutti – insomma – si erano affrancati da una vita dichiarata da chiunque “sicura” ed erano tornati a quelle che per loro erano le radici, elaborando su queste pensieri completamente diversi l’uno dall’altro, rintracciando origini ancestrali che erano rimaste evidentemente silenziose per tanti anni e che avevano covato fino a quei giorni di improvvisa ribellione.
Uscito dalla macchina, Andrea, con la testa ancora piena di tutti quei pensieri che lo facevano sentire inquieto, ignorando persino la pioggerella che già dall’alba picchiettava insistente, si mise a sedere dentro il bar. Era sabato, di sicuro qualcuno si sarebbe fatto vivo e lui aveva bisogno di parlare. Il suo sguardo, preoccupato, doveva essere talmente pungente quella mattina uggiosa che Sebastiano, il proprietario del bar, per essere precisi dell’unico bar presente a Castronuovo in Valle, gli si fece vicino, prese una sedia, girò al contrario lo schienale e si sedette a cavalcioni come fosse una moto. Si metteva sempre seduto in quel modo, una maniera per distinguersi dagli altri, per sottolineare la proprietà di quel posto, tenendoci a far sapere che in quello spazio ci si poteva stare solo grazie al suo consenso.
Marzia Saccardi (proprietario verificato)
La piacevolezza di sentirsi parte di un posto che senti “casa” …Alessandra ha questo potere ….farti sentire dentro i luoghi che lei per prima esplora e conosce, la scorrevolezza delle sue narrazioni rendono le sue letture piacevoli e coinvolgenti .
Brava Alessandra
Gabriele Comacchio (proprietario verificato)
Beh! Non possiamo ancora sapere l’intero evolversi della storia ma già dall’anteprima si gusta la raffinata e delicatissima capacità dell’autrice di descrivere luoghi e sensazioni con la leggerezza delle ali di una farfalla ma con la profondità di una fossa oceanica. Con le sue descrizioni apre inaspettati e quindi sorprendenti scenari che rivelano l’essenza di sentimenti e stati d’animo vissuti. Fantastica.