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Il cannibale

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Consegna prevista Giugno 2025
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Eleonora e Fausto si conoscono e, poche ore dopo, fanno sesso. Sei mesi più tardi si ritrovano in tribunale: lei lo accusa di violenza, lui sostiene che la donna era consenziente. Fra le due posizioni, opposte e inconciliabili, viene lentamente delineandosi – attraverso le deposizioni dei presenti alla serata, i commenti di gente estranea alla vicenda e i ricordi dei loro amici – un prisma di sfumature che rende impossibile, anche al più intransigente dei lettori, parteggiare in maniera netta per uno solo dei due contendenti.
In questo romanzo “in scala di grigi” ogni sistema di valori è sottoposto a giudizio, ogni interpretazione è attesa al varco dalla sua controprova e ogni opinione, anche la più granitica, è destinata ad essere rimessa in discussione: fino all’ultima pagina, o forse anche fino all’ultima riga.

Perché ho scritto questo libro?

Tutti noi sperimentiamo la brutalità del giudizio sociale: a volte da lontano, osservando inerti il linciaggio di persone che, pur sbagliando, provano a rimediare, senza però venire perdonate da coloro che le circondano. A volte il giudizio ci tocca da vicino, quando veniamo (più o meno giustamente) accusati e si fa subito il vuoto attorno a noi. Ho scritto questo libro per tutti quelli che vivono sulla loro pelle la sofferenza di essere messi al margine, e che sentono di non avere via d’uscita.

 

Chi pre-ordina la versione ebook avrà subito in omaggio un ebook che comprende i primi due volumi della nostra saga best seller “The Drunk Fury”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

«Non so cosa abbiate pensato del discorso dell’avvocato difensore. Ammetto che, ascoltandolo, mi sono quasi dimenticata di me stessa, della mia umiliazione e della mia sofferenza. Io stessa sono stata sul punto di cambiare idea e confermare la sua versione dei fatti. Ma nulla di quanto ha detto corrisponde a verità».

La voce era calma, fredda eppure non distaccata; il portamento pieno di austera dignità. Durante il suo breve monologo, pronunciato cercando di mascherare un impercettibile tic della mascella che da qualche giorno aveva preso a tormentarla, evitò di guardare il giudice negli occhi, forse per non risultare troppo aggressiva, come le aveva suggerito l’avvocata, o forse per non distrarlo dalla descrizione degli eventi, l’unica cosa davvero importante.

«Questo lo lasci decidere a me, rispose il magistrato con un tono di voce che, nella sua bonarietà, intendeva smorzare la solennità fuori luogo della donna. Ci racconti solo cos’è successo quella sera».

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Cos’era successo, lei, lo sapeva bene. Inoltre, per sicurezza, il discorso lo aveva ripetuto il giorno prima, due giorni prima, una settimana prima: poteva dire di averlo quasi imparato a memoria. Tuttavia, quando gli occhi dei tre giudici, del pubblico ministero, del cancelliere, dell’ufficiale giudiziario, degli avvocati, delle poche decine di persone presenti in aula – quando tutti i loro occhi conversero su di lei, Eleonora Salieri provò un’orrenda sensazione di malessere e inadeguatezza, acuita da un leggero senso di nausea che la accompagnava fin dalle prime ore del mattino.

Solo lo stenotipista, concentrato sul macchinario, continuava ad ignorarla, il che in un certo senso le diede la forza di cominciare a parlare.

Narrò la vicenda per filo e per segno ma quando pronunciò l’ultima sillaba si stupì che il racconto fosse durato così poco. Una serata iniziata a cena e terminata a notte fonda: sei protagonisti, tre locali, fiumi di birra, vino e superalcolici, e uno stupro. Il tutto condensato in una storia che non superò i dieci minuti.

Questo era quanto restava di quella notte.

«Ho conosciuto Fausto a una cena organizzata da Lorenzo Caccianemico, un nostro comune amico, che in parte era stata programmata per farci conoscere, e che—»

«Quindi lei aveva previamente rivelato al signor Caccianemico un qualche tipo d’interesse a incontrare l’imputato?»

La domanda, solo all’apparenza neutra, possedeva una venatura di malafede ed era (come qualsiasi altra domanda che fino a quel momento le era stata rivolta) inutile, vuota, priva di interesse, mentre invece sarebbe stato sufficiente condensare tutte quelle parole in un’unica, altra, semplicissima parola – condensare quelle domande in un’unica, altra, semplicissima domanda – per raggiungere d’un balzo il nucleo del suo dolore.

Una domanda che nessuno le aveva mai posto ma che continuava ad agitarsi nella sua testa da due mesi: perché.

Perché è accaduto, perché proprio a lei, perché quella sera, perché non è stato possibile evitarlo.

Quella triste e solitaria parola – perché – riassumeva, nella sua più pura essenza, l’unica questione che meritava una risposta, una risposta che non spettava a lei, non spettava a Fausto né ai giornalisti presenti in sala: non spettava a nessuno al di fuori del giudice che seguiva il processo, l’unico garante di imparzialità, il solo che avrebbe potuto rendere giustizia a una donna violentata nel fisico e nell’animo, in una società che ancora permetteva l’attuazione di tali scempi, a volte persino senza esigere la punizione del colpevole, o il risarcimento della vittima.

Ma l’avvocata conosceva il giudice e sapeva che con la sua designazione non erano state fortunate, perché già in passato aveva manifestato una certa cautela nell’applicare la pena prevista in casi analoghi di violenza carnale. Eleonora era stata messa in guardia, sapeva che durante il processo si sarebbe fatta allusione a un suo eventuale consenso nel rapporto con Fausto così, quando il presidente del collegio insinuò quel dubbio nelle menti degli astanti, non si fece trovare impreparata nella replica.

«Sì, signor giudice, glielo confermo. Avevo manifestato interesse a incontrare un uomo che, così mi era stato detto, era un ottimo amico di un mio caro amico».

Prima regola: non ti contraddire, le aveva ordinato l’avvocata. Se solo salterà fuori, in qualsiasi momento del processo, una sottilissima discrepanza all’interno del tuo racconto, l’intera testimonianza perderà di valore.

«Capisco. Prosegua pure».

Eleonora continuò la descrizione della cena, elencando i nomi dei presenti: Lorenzo, sua moglie Marta e una coppia che lei aveva incontrato quella sera per la prima volta, Giovanna e Marco.

«Oltre all’imputato».

«Oltre all’imputato. Naturalmente».

L’ultima parola venne pronunciata in modo forse troppo irruento, alzando il tono della voce e spostando il baricentro del corpo in avanti. Eleonora però fu abile nel non lasciare al giudice il tempo di accorgersi di quel gesto di stizza e riprese subito la calma abituale. «Dopo cena ci siamo spostati in un pub, abbiamo parlato e bevuto: insomma, era una serata come tante altre, niente di speciale. Eppure, a ripensarci bene, già a partire da quel momento Fausto iniziò a manifestare preoccupanti eccessi di violenza, a cui forse avrei dovuto prestare più attenzione…»

«Ci può fare qualche esempio?»

Certo che poteva. Lei stessa aveva implicitamente invitato il giudice a chiederle di fare un esempio, inserendo di proposito degli invisibili puntini di sospensione a conclusione della sua ultima frase.

«Fausto, l’imputato, era andato a prendere da bere al bancone e si era messo a parlare con un cliente. Dopo pochi minuti afferra il pover’uomo per la gola e lo spinge contro la parete. Noi tutti lo vediamo, ma non capiamo per quale motivo si comporti così. Uno scatto d’ira improvviso e immotivato. Poi… non ricordo bene cos’è accaduto, credo siano intervenuti dei camerieri per fermarlo, insomma la situazione è stata riportata alla normalità ma, da quel momento, ho iniziato ad avere la sensazione di non potermi più sentire al sicuro in sua presenza».

La sala era piccola. Più la osservava, più Eleonora sentiva crescere un vago senso di delusione. Non si sorprese solo nell’apprendere che non esisteva nessuna giuria (a cui le serie americane l’avevano abituata), ma anche nel constatare che il pubblico ministero, i tre giudici che componevano il collegio e gli altri partecipanti erano svogliati e molto meno ieratici di come se li era immaginati.

Quando ormai la sua deposizione era quasi terminata arrivò persino a notare il paradosso grammaticale secondo cui la scritta che si faceva garante della giusta applicazione delle regole, la legge e’ uguale per tutti, conteneva un errore ortografico. Era come se quel luogo, mitizzato dalla televisione e dalle sue recenti fantasie, una volta divenuto reale avesse perso ogni attrattiva.

Mentre i giudici si consultavano su una questione per lei irrilevante, Eleonora iniziò a pensare a cosa ci attende dopo la morte. Si disse che uno passa la vita intera a immaginare paradisi, inferni, diavoli con forconi e musiche celestiali – scenari splendidi o catastrofici, ma comunque di grande impatto emotivo – mentre alla fine, quando moriremo, ci attenderà forse un luogo non troppo diverso da quell’aula di tribunale: squallido e banale.

«Che poi è anche il motivo per cui, dopo cena, per raggiungere la discoteca sono andata in macchina con Lorenzo e non con Fausto, che pure si era proposto di accompagnarmi. Voglio dire: non è che sospettassi che…»

Eleonora fece una pausa, tamponò con un fazzoletto la fronte imperlata di sudore, poi riprese: «…sarebbe successo ciò che in seguito è successo».

Il giudice la guardava in silenzio senza dare l’impressione di voler affrettare la deposizione. «Altrimenti sarei scappata, sarei tornata subito a casa».

La pausa di Eleonora fu interrotta dalla voce del magistrato. «Invece rimase».

Lei non lo guardò nemmeno in faccia. «Però mi rendo conto, a ripensare ad alcune mie azioni, che già durante la serata avevo una sensazione che mi tormentava, un turbamento che non saprei bene come descrivere».

«Cos’è successo dopo? Si concentri sui fatti, piuttosto che sulle sensazioni».

«Siamo entrati in discoteca, abbiamo ballato, Fausto mi ha offerto numerosi cocktail e all’improvviso ho sentito un forte giramento di testa. Ero stanca, mi veniva da vomitare. Non trovavo più gli altri, li avevamo nel frattempo persi di vista».

«Anche Fausto era scomparso?»

«Fausto no, lui era l’unico che era sempre rimasto attaccato a me, durante tutta la serata, così mi rivolsi a lui – cos’altro potevo fare? – e gli dissi che volevo chiamare un taxi e tornare a casa» proseguì Eleonora sempre più accaldata, come se la temperatura dell’aula aumentasse con il passare dei minuti.

«Invece di chiamare un taxi mi ha presa sottobraccio e mi ha accompagnata in un vicolo laterale».

«Lei lo ha seguito senza opporre resistenza?»

L’avvocata lanciò un’occhiata infastidita in direzione di una donna che sedeva tra il pubblico, la quale ricambiò lo sguardo facendo al contempo a un lieve gesto della mano che invitava alla calma.

«Ero stanca, anzi stravolta. Avevo mal di testa e non capivo cosa stava succedendo. Sì, l’ho seguito, ma non ero lucida».

«Capisco, continui pure» ripeté per la seconda volta il giudice.

«Mi conduce giù per delle scale e…» Gli occhi di Eleonora diventarono lucidi, rossi; le tempie presero a pulsare e le mani a tremare, ma non una lacrima scese a bagnarle il volto.

«Inizia a minacciarmi. O faccio sesso con lui, oppure. Mi scusi, signor giudice» terminò con voce rotta.

«Si figuri. Prenda tutto il tempo che vuole».

I pochi giornalisti presenti in aula restarono in silenzio. Non fece onore, al corrispondente de “La voce di Roma”, l’improvvisa erezione che sfigurò i suoi pantaloni di lino.

«Sto bene, grazie».

Si ricompose, si strappò una doppia punta con un gesto involontario e proseguì. «Dicevo: mi obbliga a un rapporto. Per quel che posso mi dimeno ma Fausto è più forte di me, non ho alcuna possibilità di liberarmi dalla sua presa. Ammetto pure che ho paura della sua reazione in caso mi rifiutassi di. Se non acconsentissi a. I suoi occhi sono come spiritati… mi dispiace, non ce la faccio».

Eleonora scoppiò a piangere, si udirono mormorii concitati nel fondo della sala. Il giudice fu costretto a dire una frase che non pronunciava da vari anni: «Silenzio in aula».

Il cancelliere e l’ufficiale giudiziario iniziarono a parlottare fra loro. Il pubblico ministero finse di cercare alcune carte nel foltissimo plico di documenti che ondeggiavano sopra il suo banco. Un tragico sentimento di compassione pervase l’aula insieme a una comica sensazione d’imbarazzo causata da una diffusa percezione di malessere derivante da un previo senso di eccitazione erotica.

L’avvocata porse un fazzoletto alla sua assistita che, nel ringraziare, si rese conto di essere ancora al centro dell’attenzione generale.

Eleonora allora si ricompose e con un ultimo, titanico sforzo concluse la storia.

«Mi blocca le mani, mi impone di voltarmi, mi spinge contro un cancello e inizia. Quando ha finito si stravacca a terra. Gli chiedo se posso andare, non risponde. Così raccolgo le mie cose e mi allontano».

Eleonora fece un sospiro. La deposizione era finalmente terminata.

L’inviato de “La voce di Roma” accavallò le gambe in un ultimo, disperato tentativo di camuffare il suo coinvolgimento emotivo.

«Vuole aggiungere altro alla sua testimonianza?»

«No, signor giudice. Per quanto mi riguarda ho finito».

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. Enzo D'Armenio

    (proprietario verificato)

    Un libro davvero molto bello, soprattutto grazie a una scrittura efficace, piena di invenzioni linguistiche. Racconta una storia controversa, incrociando personaggi e punti di vista differenti in una sinfonia di voci, di posture morali, di pregiudizi e naturalmente di colpi di scena.

  2. Giulia Baronti

    (proprietario verificato)

    Un libro impossibile da mettere giù. Una storia brillante e controversa, che mette in gioco numerosi punti di vista: ogni pagina chiede al lettore di andare avanti, di indagare, di entrare dentro la mente di Fausto e Eleonora per capire cosa veramente è successo quella notte. E quando, forse, ci saremo fatti un’idea, sarà arrivato il momento di riflettere su ciò che questa storia veramente può insegnarci. In fondo, siamo tutti un po’ giudici, un po’ cannibali.

  3. Elisa Pittipotti Biasioni Winchester

    Questo libro si è rivelato una bellissima sorpresa. Nonostante i temi impegnativi (il consenso, il giudizio sociale…), le pagine scorrono leggere e i personaggi – con le loro mille imperfezioni – rimangono impressi, vividi, nella memoria.

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Gianluca Valenti
Chiamatemi Gianluca. Ho quarant’anni, sono padre di due figli, marito di una moglie, ricercatore in linguistica. Tre cose notevoli che ho fatto nella mia vita: ho vissuto sei mesi in una favela brasiliana, ho fatto appassionare i miei figli al Mahabharata e un po’ di tempo fa ho pubblicato uno strepitoso poema in endecasillabi che ha venduto meno copie di quante sillabe ci sono in un endecasillabo. Sono un lettore esigente: Tolstoj mi annoia, l’Ulisse di Joyce carino, ma niente a che vedere con Horcynus Orca; Virgilio era un pedante (lunga vita a Ovidio), e chissà perché nessuno, ma proprio nessuno, conosce quel gioiello medievale che è Flamenca. Nell’intercapedine tra il lavoro e la vita scrivo romanzi, poesie e libri per bambini. Tra i miei tanti scheletri nell’armadio, quello di cui più mi vergogno: una volta ho assaggiato una pizza con quattro formaggi e ananas, e l’ho trovata buona.
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