Il rito, in modo quasi identico, replicava quanto accaduto ogni pomeriggio dei precedenti tredici giorni. Lo stesso pomeriggio del suo arrivo a Caltauro, due settimane prima, con la perizia di un bravo architetto aveva individuato con cura il tavolino che dalle cinque alle sette della sera era baciato dal dolce sole di maggio e aveva chiesto al cameriere di riservarglielo anche nei giorni a seguire, assicurandosi con l’ausilio di una generosa mancia che l’esclusiva gli fosse sempre garantita.
Così ogni giorno, con elvetica puntualità, cinque minuti prima che scoccasse l’ora del tè, si presentava alla caffetteria e si accomodava.
Non poteva passare inosservato Matteo Bodoni, e con ogni probabilità egli stesso faceva in modo che così fosse, altrimenti non avrebbe indossato quei candidi e inamidati calzoni, bianchi come la giacca, come la camicia, come il panciotto e come il panama. Unica eccezione erano il foulard di seta rosso lacca, in pendant coi calzini, e le scarpe, lucidissime, di colore mogano, la stessa essenza del bastone da passeggio.
La sequenza di granite era la medesima dal primo giorno: la prima al gusto di limone, la seconda di gelsi e la terza di mandorla, con immancabile spolverata sopra quest’ultima di croccante granella di mandorle tostate. Per tutta la durata della degustazione Bodoni sembrava rinchiudersi in un mondo dorato fatto di piacere ed estraniarsi dalla realtà. In verità, attraverso le sottilissime fessure degli occhi nulla di quanto accadeva nella piazza antistante, cuore pulsante del paesino siciliano, sfuggiva alla sua attenzione. Non gli era sfuggito, infatti, l’anziano che da qualche giorno, fingendo di passare per caso lì davanti, si soffermava a guardarlo. Ora lo vedeva bene mentre si approssimava.
«Scusate… posso sedermi accanto a voi?» chiese il vecchio quando fu a pochi metri.
Bodoni si guardò intorno, come a voler sottolineare che tutti i tavoli in quel momento fossero liberi e che di conseguenza avrebbe potuto sedersi dove voleva senza essere costretto a disturbare, ma volle essere gentile. «Certo, accomodatevi» disse, disancorando la sinistra dal panciotto per liberare dal panama la poltrona al suo fianco.
Il vegliardo si sedette. «È da un po’ che vi vedo qui…»
Bodoni annuì.
«Non siete di qui?»
«No» rispose, continuando a gustare la granita di mandorla.
«Artale La Grassa» fece il vecchio porgendo la destra e un sorriso.
«Matteo Bodoni… piacere di conoscervi.»
Intanto il cameriere si era fatto avanti. «Don Artale, cosa vi porto?»
«Un caffè, Tonino. Di quelli buoni che sai fare tu… ci siamo capiti?»
«E cosa vi porta da queste parti?» tornò alla carica il vecchio, non appena il cameriere si fu allontanato. «Siete in villeggiatura?»
Bodoni fu tentato per un attimo di sbuffare, rimettersi in piedi e andare via, ma la vista della coppa, ancora piena per metà di squisita granita, lo fece desistere. «Diciamo che… mi ci sono trasferito» mugugnò dopo un pezzo.
«Oh, Bedda Matri! Che bellissima notizia!» esclamò La Grassa battendo le mani con enfasi.
«Lei è del comitato di accoglienza?» chiese Bodoni con malcelata ironia.
«Ma quale comitato? Io pensionato sono…»
«Lo sono anch’io.»
«Vero? Strepitoso! Un nuovo compaesano e pure pensionato!»
Intanto il cameriere servì il caffè.
La Grassa ne mandò giù un sorso e tornò subito all’attacco: «E com’è che avete deciso di trasferirvi qui?».
Bodoni accelerò la frequenza delle cucchiaiate. «Sposai una vostra compaesana, quarant’anni orsono, così, ora che mi sono messo in pensione, abbiamo deciso di trasferirci qui.»
«Meraviglioso!» esclamò La Grassa. «E chi è vostra moglie? Come si chiama? Devo per forza conoscerla.»
«Sardo. Mia moglie si chiama Marianna Sardo.»
«Bedda Matri! Non ci posso credere. Allora vostra moglie è la figlia di Don Papè Sardo.»
«No.»
«Ah, ho capito. È la figlia di Agatino Sardo.»
«No.»
«E allora dev’essere per forza figlia di Massa’ Saruzzu Sardo.»
«Nemmeno.»
«Ma insomma, si può sapere di cu minchia è figghia?»
Bodoni sorrise. «Mio suocero si chiamava Ferdinando Sardo, ma andò via da qui subito dopo la nascita di mia moglie, oltre sessant’anni fa. Con la famiglia si trasferì a Bologna e rimase a lavorare lì per tutta la vita. Quando finalmente stava per mettersi in pensione e progettava di tornarsene al suo paese, un infarto se lo portò via.»
«Ferdinando Sardo… Ferdinando Sardo… ma certo, me lo ricordo. Era figlio di Sebastiano Sardo.»
«Esattamente» confermò Bodoni. «Mia moglie ed io ci siamo trasferiti proprio nella casa in cui abitava Sebastiano Sardo.»
«Ma guarda tu! Chi me lo doveva dire? Di fronte al vecchio molino.»
«Proprio lì.»
Bodoni cominciava a essere divertito dal suo estroverso interlocutore. Esaurita la granita di mandorla, avrebbe dovuto saldare il conto e tornarsene a casa, ma qualcosa, che ancora non riusciva a mettere a fuoco, lo convinse a restare.
«Signor Bodoni, che lavoro facevate?» tornò alla carica La Grassa.
Secondo un’abitudine consolidata nella sua lunga carriera, il primo istinto di Bodoni fu di sorvolare sulla professione svolta, ma il pensiero che fosse ormai in pensione fece subito dissolvere quella remora. «Il commissario» rispose dopo un po’.
«Minchia!» esclamò La Grassa.
«La cosa vi stupisce così tanto?»
«No, perché?»
«Mi siete sembrato piuttosto… sbalordito.»
La Grassa non rispose e sorseggiò il caffè rimasto nella tazzina.
Bodoni, incuriosito dall’improvviso silenzio del suo interlocutore, chiese: «Siamo per caso colleghi?».
«Poliziotto io? No, assolutamente» rispose La Grassa sorridendo. «Cosa ve l’ha fatto pensare?»
«Vi ho visto… piuttosto avvezzo agli interrogatori.»
Ancora una volta, l’anziano non colse l’ironia del nuovo conoscente, che decise di passare subito al contrattacco. «E voi, signor La Grassa, che mestiere facevate?»
«Io? Sono stato per un vita maestro di casa al palazzo marchionale.»
«Come una specie di maggiordomo?»
«Possiamo dire di sì. Per quasi quarant’anni fui il braccio destro dei marchesi Antaguaro. Ne avete sentito parlare?»
«Mia moglie mi ha raccontato qualcosa» rispose Bodoni. «Gente facoltosa, se non ricordo male.»
«Facoltosa? C’è stato un tempo in cui gli Antaguaro erano tra i più ricchi di tutta la Sicilia. Solo chi come me ha vissuto dentro quella casa può sapere quant’erano ricchi.»
«Perché avete detto ‘erano’? Non lo sono più?»
«No. Purtroppo le cose sono cambiate. Cambiàu l’epoca. Non sono più i tempi di una volta, amico mio.»
«Che volete dire? Spiegatevi meglio.»
«Vedete, signor Bodoni, una volta i grandi proprietari terrieri vivevano più che bene con le rendite delle loro proprietà. Potevano permettersi di spendere e di scialacquare come volevano, senza mai riuscire a finire i soldi. Ultimamente però, come vi ho detto, le cose sono cambiate. Da trent’anni a questa parte, le rendite agrarie sono diventate sempre più esigue, mentre le tasse sono aumentate. Le uniche cose immutate erano i vizi, tanti e costosi, rimasti quelli di una volta, se non addirittura aumentati. Così, a poco a poco, i soldi s’accaparru, come diciamo noi. A tutto questo va aggiunto qualche investimento sbagliato, qualche perdita al gioco un po’ più consistente e i continui ammanchi, sempre più frequenti, nel patrimonio.»
«Volete dire furti?»
«Esattamente. A poco a poco gli Antaguaro sono stati spogliati di quasi tutte le loro ricchezze, mentre loro stessi facevano il resto.»
«Fatemi capire, signor La Grassa… Volete dire che nessuno si occupava della sicurezza? Da ciò che mi risulta, in ognuno di questi casati facoltosi esisteva un manipolo di uomini in grado di garantire l’ordine e la custodia dei beni e delle proprietà.»
«Ragione avete, caro Bodoni. Si vede che siete uno che conosce il mondo. Gli Antaguaro, in effetti, avevano il migliore degli uomini di fiducia. Bastava solo lui a garantire che nei possedimenti dei marchesi tutto filasse liscio.»
«Come si chiamava quest’uomo?»
«Angelo Santoro. E si chiama ancora così.»
«Volete dire che è ancora vivo?»
«Sissignore.»
«Com’è possibile allora che gli Antaguaro si siano privati della sua preziosa protezione?»
«Vedete, caro amico, a volte i meccanismi della vita sono così strani che le cose perdono il filo della logica.»
«Lo so, signor La Grassa, in tanti anni di servizio ne ho viste anche troppe di queste situazioni.» Bodoni si accarezzò il panciotto. «Cosa determinò, dunque, la fine della collaborazione tra Santoro e gli Antaguaro?»
La Grassa stava per rispondere, quando il cameriere, affacciatosi all’uscio della caffetteria, gli disse: «Don Artale, vi vogliono al telefono».
«Cu è?» chiese il vecchio.
«Vostra moglie. Dice che è urgente.»
La Grassa si mise in piedi. «Scusate» disse, rivolto a Bodoni, mentre si dirigeva dentro.
«Prego, fate pure.»
Bodoni, rimasto di nuovo solo, si accarezzò l’addome. Il piacevole retrogusto che le granite gli avevano lasciato in bocca e il sole tiepido che ancora lo accarezzava esaltavano quella sensazione di benessere che non lo abbandonava da quando si era trasferito in Sicilia. Qualcosa di diverso, però, gli si era ora insinuato nell’anima, come un delicato ma insistente solletico: era sete d’informazioni o, più semplicemente, curiosità. Certamente, qualsiasi cosa fosse, erano state le circostanze narrate dal vecchio a farla scattare e ora voleva sapere tutto sulla parabola del casato Antaguaro e soprattutto su quell’enigmatico personaggio che, a quanto pare, aveva avuto un ruolo così determinante nella loro rovina.
La Grassa fuoriuscì dalla caffetteria a passo lesto. «Perdonate,» disse rivolto a Bodoni, «purtroppo devo scappare a casa. Mia moglie non si sente bene.»
«Mi dispiace. Posso esservi d’aiuto?»
«No, nulla di grave. È il solito attacco d’asma. Grazie comunque, signor Bodoni. Arrivederci.»
«Arrivederci, signor La Grassa.»
A distanza di una manciata di minuti dalla scomparsa del sole dietro i palazzi di fronte, Bodoni si rimise in piedi, indossò il panama e raggiunse la cassa per pagare il conto.
«Per oggi non dovete nulla,» rispose il cassiere, «ci ha pensato Don Artale prima di andare via.»
Bodoni, inizialmente, rimase sorpreso. Ah, già, siamo in Sicilia, pensò subito dopo, allontanandosi soddisfatto.
Guardò l’ora sull’orologio a cipolla e decise di concedersi una passeggiata prima di rientrare a casa per la cena. Il palazzone sulla sommità della collina, sul quale più di una volta nei giorni precedenti aveva rivolto sguardi privi d’interesse, esercitava ora su di lui un grande richiamo. Sapeva che era stato la principale residenza dei marchesi Antaguaro, così stabilì di andare a vederlo da vicino.
Senza fretta, s’incamminò per le scale che collegavano la parte alta e quella bassa del paese. Sostò più volte, lungo il tragitto, per riprendere fiato e osservare la distesa di case e campanili da prospettive e da altezze diverse, finché, mezz’ora dopo, giunse dinanzi al cancello del palazzo marchionale, oltre il quale si stendeva un lungo viale orlato di cipressi, con in fondo l’elegante costruzione su due piani.
Quando si appoggiò alla pesante anta arrugginita, questa, con un acuto cigolio, cedette, indietreggiando come per invitarlo a entrare. Bodoni tirò fuori l’orologio a cipolla e vide che mancava ancora più di un’ora alla cena, quindi decise di entrare.
L’erba alta e i folti rovi indicavano che il viale non era percorso da alcun mezzo da anni, ma l’occhio attento del poliziotto riuscì a vedere le tracce lasciate da chi vi si era introdotto di recente sulle proprie gambe. Oltre i muretti laterali, sia da un lato che dall’altro, relitti di alte aiuole, voliere arrugginite, panchine coperte di muschio, statue abbattute e vasche dirute e fagocitate dalla vegetazione raccontavano di un parco un tempo certamente curato ed elegante.
Il viale terminava in uno spazioso slargo a semicerchio, cinto sul lato dritto dalla possente mole del palazzo. Doveva essere magnifico pensò guardando le tre lunghe balconate ormai prive d’inferriate. Sotto quella centrale, proprio sopra il gigantesco portone d’ingresso, su uno scudo di pietra scolpita, faceva ancora bella mostra di sé una sirena con due code, certamente lo stemma degli Antaguaro.
Stava per tornarsene indietro, quando percepì uno strano suono in lontananza, flebile ma prolungato. Sembrava provenire dall’interno del palazzo e assomigliava a un ululato, a metà strada tra un lamento e una richiesta di aiuto. Si fermò per cercare di capire se si trattasse del verso di un animale oppure, come temette, di un essere umano.
Vedendo che una delle massicce ante del portone era solo accostata, decise di entrare. Un improvviso frullo d’ali tradì la presenza di volatili selvatici all’interno della costruzione, ma fornì la prova, nel contempo, che dentro non ci fossero esseri umani. In quello stesso istante il suono cessò.
Bodoni, cercando di abituare gli occhi alla penombra, si guardò bene intorno. L’atrio era costituito da una spaziosa sala ovale, delimitata da una dozzina di alte colonne. Dalla volta, una cupola di ferro e vetri ormai in gran parte rotti o del tutto mancanti, pendevano lunghi rami di edera e filtrava una discreta quantità di luce verdastra. Sul lato opposto all’ingresso, si apriva una monumentale scalinata a forma di ventaglio che conduceva ai piani superiori.
Non c’erano mobili né suppellettili. Certamente tutto era stato trafugato, compresi i gradini della scalinata, con ogni probabilità di marmo, e le stesse ringhiere. Le pareti, ancora in gran parte foderate di carta da parati damascata color porpora, mostravano gli aloni scuri lasciati dai dipinti che un tempo dovevano esservi allocati.
L’ululato riprese. Cercò di capire da dove provenisse. Prima di salire su, Bodoni volle visitare il piano terra. Trovò i magazzini e la cucina, riconoscibile solo dai vani per i fuochi poiché ormai priva di ogni utensile. Ogni cosa era stata trafugata, con l’eccezione della fuliggine che ancora scuriva le bocche dei forni e la parete a ridosso del piano di cottura. Qualcosa, però, gli saltò all’occhio: in uno dei barbecue c’erano ancora del carbone e della cenere. Vi avvicinò la mano e constatò che erano ancora tiepidi. Qualcuno dimora ancora qui, dedusse.
Emanuele Cavarra
So che può sembrare assurdo, ma quando rileggo ciò che ho scritto, specie quando è passato un po’ di tempo da quando l’ho fatto, ho la sensazione di leggere lo scritto di qualcun altro. La scrittura ha molti aspetti magici che trascendono la fredda realtà.