La nebbia di fine novembre si alzava dalla valle come un respiro trattenuto, avvolgendo il piccolo cimitero di San Biagio quasi fosse un velo grigio e rendendo le lapidi simili a bianchi fantasmi nella luce incerta del mattino. Un fumo sottile e pigro si alzava dai comignoli delle case sparse lungo il pendio. Il cielo prometteva neve, ma senza fretta.
Sistemò l’ampia sciarpa di cashmere sulle gambe, incrociò le mani e fissò il cancello in ferro battuto ancora chiuso. Il silenzio era così profondo che poteva sentire i propri pensieri senza il rumore del mondo.
Erano anni che non tornava, almeno venti. Forse trenta. La prima volta era ancora una bambina, in estate, quando sua madre l’aveva portata a vedere “il paese dove è nato il nonno”.
Ma non ci avevano dormito nemmeno una notte. “Qui di notte fa freddo anche a luglio”, aveva detto sua madre, quasi volesse giustificarsi con il mondo intero.
Adesso Clelia era lì per lei. O meglio, per sistemare le sue cose.
Luisa Adelchi era morta settimane prima, in ospedale, a Torino. Un infarto, improvviso, discreto come era stata lei per tutta la vita. Se n’era andata senza clamore, senza lasciare parole di addio, senza nemmeno un ultimo desiderio espresso. Come se anche la morte fosse per lei una questione privata, da sbrigare senza disturbare nessuno.
Aveva vissuto in quell’appartamento ingrigito dal tempo, senza mai cambiare divano, senza accendere la televisione per più di un’ora al giorno, giusto per il telegiornale della sera, e poco altro. Senza una foto che non fosse sbiadita, senza un oggetto fuori posto, qualcosa che raccontasse sogni o amori.
Al funerale c’erano state poche persone: si potevano contare sulle dita di una mano. Due colleghe del conservatorio, il medico di base e Clelia, che aveva organizzato tutto con quella efficienza professionale che le permetteva di non pensare troppo al dolore. Nessun parente. Nessuna musica. Clelia sapeva che Luisa non avrebbe amato troppe “cerimonie”.
San Biagio, invece, sembrava averla attesa.
Il paese d’autunno era tutto raccolto, come rannicchiato in sé stesso. Le case strette e in pietra grigia si stringevano le une alle altre lungo le vie ripide, i balconi svuotati dai gerani estivi. La quiete densa delle stagioni vere, quando la natura si prepara al sonno e anche le persone rallentano i loro ritmi. Le villette chiuse dei villeggianti dormivano ai margini, le persiane serrate e le porte sprangate. Solo il bar dell’albergo vicino al municipio aveva le luci accese. Un anziano si stava accendendo una sigaretta con gesti lenti e precisi, mentre un abbozzo di raggio di sole tentava di farsi strada tra le nuvole basse.
Clelia si alzò dalla panchina di pietra, i muscoli indolenziti dal freddo e dall’immobilità. Raccolse da terra la busta con il piccolo vaso di erica. Non era per sua madre. Era per suo nonno, Ottavio Adelchi. Morto prima che lei nascesse, ma vivo, ostinato, ingombrante, in ogni gesto della madre.
Una figura che non aveva mai visto, e che pure l’aveva sempre accompagnata, come un’ombra. Non si parlava di lui. Si citava. Si rispettava. Si temeva, forse.
Era stato falegname, ma costruiva anche strumenti musicali, per passione. “Uno che capiva di legno e musica”. Ogni tanto spuntava un aneddoto. Ma sempre a metà.
“Creava i flauti più belli della valle. E li riparava tutti.”
“Una mente fine, tuo nonno. Ma rigido come una tavola di legno. Se si metteva in testa una cosa, quella era.”
Uno che quando camminava teneva lo sguardo basso, fisso al terreno, assorto nei suoi pensieri, come se il mondo esterno fosse un disturbo da ignorare. Come sua madre, del resto, che spesso non salutava le persone che incontrava per strada. Non lo facevano per cattive intenzioni, semplicemente non le vedevano, persi nella loro bolla infrangibile di pensieri e silenzi.
Ora Ottavio Adelchi era solo un nome inciso su una lastra di pietra. Una foto sbiadita, un sorriso appena accennato e gli occhi severi che ancora sapevano scrutare. Clelia non aveva mai pensato di venire a cercarlo. Non prima di trovare quella busta.
Il custode del cimitero arrivò spingendo una vecchia carriola. Procedeva lentamente, quasi temendo che le fragili ossa potessero sbriciolarsi da un momento all’altro sotto il peso degli anni. Aveva certamente superato da tempo l’età pensionabile. Continuava il suo lavoro con quella ostinazione tipica delle persone che hanno trovato il loro posto nel mondo e non intendono lasciarlo. La guardò con curiosità mentre estraeva dalla tasca del cappotto un mazzo di chiavi antiche, alcune consumate dal tempo, e si accingeva ad aprire il cancello.
«Cerca qualcuno in particolare?» chiese con la voce roca dei fumatori incalliti.
«Ottavio Adelchi.»
L’uomo si fermò, la chiave ancora in mano. «Adelchi… il minusié. Segua il sentiero perimetrale, terza fila. Ma lei è…»
«Sua nipote.»
«Ecco.» Annuì lentamente come se improvvisamente tutto acquistasse un senso. «Aveva lo stesso sguardo. Quello che guarda le cose da dentro.»
Clelia sorrise, sorpresa da quella osservazione. Era la prima volta che qualcuno le attribuiva un tratto fisico del nonno. Di solito le dicevano che somigliava alla madre, ma in modo vago, come si dice di tutte le figlie. Questo era diverso. Più preciso.
Mentre camminava tra le lapidi, seguendo il sentiero che costeggiava il muro perimetrale, la giovane donna pensò al suo lavoro. Archivista freelance, specializzata in ricostruzioni documentali per cause legali. Passava le giornate a rimettere insieme storie spezzate, a riordinare vite che altri avevano lasciato in disordine. Documenti smarriti, testamenti contestati, eredità complicate. Aveva imparato a leggere tra le righe, a capire cosa le persone non dicevano, a riconoscere le verità nascoste dietro le carte ufficiali. A volte bastava la grafia di una firma, l’inchiostro usato, la carta scelta, per ricostruire un’intera storia familiare.
Forse per questo quella busta l’aveva incuriosita così tanto, fin dal momento in cui l’aveva trovata.
Clelia posò il vaso di erica sui ciottoli bianchi che ricoprivano la sepoltura, davanti alla targhetta “Ottavio Adelchi. 1913–1979”. Chissà se lui avrebbe apprezzato i piccoli fiori rosa dell’erica, simbolo di sicurezza e protezione.
Aveva l’impressione che il paese le stesse parlando. Non con parole, ma con quel modo silenzioso e opaco che hanno i luoghi carichi di memoria. I luoghi che sanno troppe cose e non si sentono più in dovere di spiegarle a chi non è pronto ad ascoltare.
Si voltò. Dietro di lei scorse la figura magra del custode con una pala in mano. Aveva la schiena curva e gli occhi piccoli, penetranti, da talpa, con i quali osservava la tomba di Ottavio.
Senza spostare lo sguardo le chiese: «È tornata?»
«Solo per poco,» rispose Clelia.
«Gli Adelchi non tornano mai per poco.» disse lui. E passò oltre senza attendere replica.
Restò ferma un momento. Il vento si era alzato. Sentiva la neve nell’aria.
Nel taschino interno del cappotto, la busta ingiallita cominciava a pesare.
Era stata l’ultima cosa che aveva trovato, dopo alcuni giorni di lavoro metodico, nell’appartamento della madre. Clelia aveva affrontato quel compito come faceva sempre: con metodo, pazienza e una certa dose di distacco emotivo che le permetteva di non farsi sopraffare dai ricordi. Era la sua tecnica di sopravvivenza, quella che le aveva permesso di diventare una brava professionista riconosciuta.
Aveva iniziato dalla cucina, dove tutto era rimasto come se Luisa dovesse tornare da un momento all’altro. Il calendario appeso alla parete fermo a ottobre, il caffè nella moka, i biscotti nella scatola di latta, una vecchia confezione verde scuro con al centro il profilo della chiesa parrocchiale in rilievo dorato. Era la scatola dei biscotti tipici di San Biagio che Clelia ricordava da sempre sul piano della credenza.
Poi il soggiorno, con quei pochi mobili che sembravano aver perso il loro scopo negli anni: il divano, troppo grande per una persona sola, con una vecchia coperta di quadrati lavorati all’uncinetto appoggiata su un bracciolo, come se qualcuno l’avesse usata solo la sera prima, comodamente disteso per leggere un libro. La libreria con i testi di teoria musicale che nessuno aveva mai più aperto da anni, i dorsi scoloriti dal sole che filtrava dalla finestra esposta a sud.
La camera da letto era stata la più difficile da affrontare. Non solo per il contenuto emotivo, ma per l’ordine maniacale che sua madre aveva mantenuto fino alla fine. Ogni cosa al suo posto, ogni cassetto perfettamente organizzato. I vestiti piegati come in un negozio di moda, la biancheria inamidata e ordinata per colore, i medicinali allineati sul comodino con la precisione di un inventario.
Era nel secondo cassetto del comò, sotto una pila di fazzoletti di lino che profumavano ancora di lavanda, che aveva sentito qualcosa di diverso. Uno spessore anomalo, come se ci fosse qualcosa di più solido nascosto sul fondo.
Aveva sollevato tutto il contenuto del cassetto con cura e aveva visto l’angolo di una busta ingiallita, incastrata tra il fondo e la parete laterale. Come se qualcuno l’avesse spinta lì deliberatamente, per nasconderla da occhi indiscreti.
La busta era più pesante di quanto sembrasse. Carta antica, ingiallita ai bordi, ma ancora resistente, con una grafia elegante che non riconosceva. “Per Luisa” c’era scritto sopra, con l’inchiostro sbiadito ma ancora leggibile. Nessun mittente, nessuna data.
Clelia l’aveva girata tra le mani per lunghi minuti, sentendo che dentro c’era qualcosa di irregolare. Non solo fogli, ma anche qualcosa di più piccolo e duro. Aveva resistito alla tentazione di aprirla subito. Prima doveva finire il lavoro, sistemare tutto, chiudere quel capitolo della vita di sua madre con la stessa cura che avrebbe usato per un archivio importante.
E così quella busta era rimasta lì, sul tavolo della cucina, per tre giorni interi. La guardava ogni volta che passava, se la portava dietro con gli occhi mentre svuotava armadi e cassetti, chiedendosi perché sua madre non l’avesse mai aperta. Perché l’avesse nascosta così bene, e poi conservata per tutti quegli anni come un segreto troppo importante per essere rivelato e troppo prezioso per essere distrutto.
L’ultima sera, prima di partire per San Biagio, aveva finalmente ceduto alla curiosità. Aveva preparato un caffè nella moka della madre, si era seduta al tavolo di formica dove Luisa aveva consumato centinaia di pasti solitari, e aveva aperto la busta con la stessa delicatezza che usava per i documenti antichi analizzati nel suo lavoro.
Dentro c’erano due cose: una chiave piccola, di quelle che si usavano una volta per i mobili più preziosi e una lettera scritta con la stessa grafia elegante dell’intestazione della busta.
La lettera iniziava con “Cara Luisa,” e finiva con “Tuo padre, Ottavio”. Era datata 1979, l’anno in cui lui era morto. Poche righe, scritte con una calligrafia che tradiva l’urgenza, ma manteneva comunque quella precisione che doveva essere stata caratteristica dell’uomo. Parole che cambiavano tutto quello che Clelia credeva di sapere sulla sua famiglia. E, forse, su se stessa.
“Se stai leggendo questo, vuol dire che sono riuscito a nascondere bene quello che dovevo nascondere.
Nel mio laboratorio di falegnameria c’è un mobile che ho costruito apposta.
La chiave è questa.
Quello che troverai dentro appartiene a te, ma soprattutto appartiene a questo paese. Decidi tu cosa farne.
Sono stato troppo severo con te, lo so. Ma alcune cose vanno protette, anche se non tutti capiscono perché.”
2
La casa di Ottavio Adelchi era ancora lì, una costruzione in pietra grigia che tutti chiamavano “la casa del minusié”. Aveva un aspetto austero, semplice e solido. Negli anni sua madre Luisa aveva ricevuto alcune proposte di acquisto, sempre rifiutate.
Era come la ricordava nella sua ultima visita, rimasta immobile, in attesa.
Clelia vi era arrivata a piedi, seguendo una sorta di mappa nella sua mente disegnata più dai racconti della madre che dai ricordi. I suoi capelli castano chiari, raccolti in una coda disordinata dopo il viaggio, si muovevano al vento freddo di novembre. A ogni curva della stradina aveva avvertito un senso di dejà vu sfasato, come se i ricordi d’infanzia le appartenessero e al tempo stesso no.
Il cancello in ferro davanti alla casa era bloccato con un catenaccio arrugginito. Pescò dalla borsa il mazzo di chiavi che aveva trovato a casa di sua madre. Un nastro di velluto rosso come portachiavi e un cartoncino con scritto un laconico “San Biagio”. Dopo alcuni tentativi, trovò la chiave giusta.
Varcò il cancello, fece un lungo respiro e si diresse verso la porta di ingresso.
La porta cigolò, come se protestasse contro il suo arrivo. Trovata la chiave, la fece girare e spinse piano. L’aria all’interno sapeva di chiuso, di legno stagionato, di qualcosa che non aveva più un nome ma solo un peso.
Entrò.
Il pavimento di cotto era freddo sotto le scarpe. Le imposte di legno, ancora serrate, lasciavano filtrare solo strisce oblique di luce, e la polvere danzava come neve lenta nell’ombra.
Tutto si presentava esattamente come lo immaginava. Lo aveva solo immaginato perché in quella casa, da bambina, non c’era mai entrata. Sua madre la osservava da lontano, con occhi duri, come si osserva una ferita che non si è mai rimarginata.
Ora toccava a lei.
Si strinse nel cappotto quasi a volersi dare coraggio, superò il piccolo ingresso e si fermò nel soggiorno. Aprì le imposte per fare entrare la luce e si guardò attorno: i pochi mobili erano ricoperti da spesse lenzuola un tempo bianche. Ne sollevò i lembi procedendo con cautela e iniziando così a rivelare alcuni arredi: una vecchia poltrona accanto alla stufa in ghisa, una libreria con pochi libri dalle copertine consunte, un tavolino con una lampada da lettura la cui base era in legno lavorato. Sicuramente opera di suo nonno.
Il silenzio era denso, più ancora che al cimitero. Come se le pareti conservassero ancora i pensieri non detti, i dialoghi mai avvenuti. Si accorse che stava trattenendo il respiro. Lo lasciò andare piano.
Passò in cucina: un tavolo di legno massiccio con tre sedie, una credenza con i piatti ancora allineati.
Tutto ordinato, tutto fermo in un tempo che sembrava aver smesso di scorrere nel 1979.
Ma era la scala che la chiamava. Stretta, ripida, portava al piano superiore dove sua madre, indicandone le finestre da fuori, le aveva sempre detto che c’erano “solo le camere da letto e lo studio con le cose del nonno”. Salì piano, facendo cigolare ogni gradino. In cima trovò due porte chiuse e, alla fine del corridoio, una terza socchiusa.
La prima camera: i teli nascondevano un letto matrimoniale con la coperta tirata, un armadio di legno scuro, due comodini. Su uno di questi, in una cornice annerita, una foto che mostrava l’immagine di un uomo severo con baffi sottili accanto a una giovane donna dagli occhi chiari: Ottavio con sua moglie Adele.
La seconda: più piccola, con un letto singolo, un armadio e una scrivania sotto la finestra. La camera di sua madre, probabilmente.
C’erano libri, ma pochi. Strumenti, nessuno. Solo una mensola con una piccola scatola in metallo smaltato e sopra, incisa in lettere d’oro, la scritta: Armonie occitane. Clelia la aprì. Dentro, vecchie ance, pagine stropicciate, una linguetta di ottone piegata come un segnalibro.
La terza porta dava su quello che un tempo doveva essere stato uno studio. Scaffali pieni di libri, alcuni strumenti musicali appesi alle pareti: flauti di diversa grandezza, una piccola cetra con le corde allentate. Su una scrivania ingombra di fogli pentagrammati c’era una lente d’ingrandimento e matite temperate con precisione.
Ma non era quello che cercava. Ridiscese al piano terra, con la sensazione di aver perso qualcosa di importante. Fu mentre attraversava di nuovo la cucina che la notò: nell’angolo più buio, quasi nascosta dietro la credenza, una porta che aveva scambiato per un ripostiglio. Era leggermente più bassa delle altre, chiusa a chiave.
La porta del laboratorio.
Riprese il mazzo di chiavi, trovò quella giusta, la fece girare nella toppa e spinse piano. Due gradini di pietra scendevano verso il basso: li scese facendosi luce con la torcia del cellulare. Il laboratorio si rivelò in tutta la sua precisione: un banco da lavoro ancora coperto di trucioli di legno, una distesa silente di attrezzi appesi in ordine perfetto su una parete, barattoli di vernice con le etichette scritte a mano. Nell’angolo, alcuni strumenti musicali lavorati solo a metà: un flauto non ancora levigato, le parti di una chitarra in attesa di essere assemblate.
L’ambiente era permeato da un odore diverso dal resto della casa: legname, colla, qualcosa di dolce che non riusciva a identificare.
Tutto era ancora lì, come se qualcuno avesse solo smesso di lavorarci il giorno prima.
Clelia cercò di capire quale dei mobili potesse essere quello indicato nella lettera. C’erano mensole, cassettiere, un armadio stretto con ante di vetro pieno di piccoli oggetti. Al centro della stanza, appoggiato alla parete come se fosse un pezzo in attesa di essere finito, c’era un mobile particolare. Sembrava una credenza, ma le proporzioni erano strane, troppo stretta per essere pratica, troppo alta per essere solo decorativa. Si avvicinò. Il legno era diverso dagli altri mobili, più scuro, lavorato con una cura maniacale. Ogni intaglio, ogni giuntura parlava di ore passate a perfezionare ogni dettaglio. Non riusciva a vedere dove potesse essere celata una serratura. Doveva esserci un meccanismo nascosto, qualcosa che solo chi conosceva il segreto poteva trovare.
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