Ci sono storie che non cercano eroi, ma memorie. Storie che si muovono tra cortili e trincee, tra l’infanzia e la vecchiaia, dove la vita si rivela nei suoi frammenti più semplici e crudeli. “Il caso Casarotti” è un viaggio nel confine sottile tra ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo, tra la nostalgia che ci tiene vivi e l’oblio che ci consuma.
È un libro che parla di assenze e presenze, di giochi che diventano lezioni di vita, di voci che resistono anche quando il tempo sembra volerle cancellare. Una narrazione che intreccia poesia e crudezza, capace di specchiarsi nelle mancanze che tutti portiamo dentro.
Non è solo un romanzo: è un invito a riconoscere la bellezza fragile dei ricordi e a comprendere che, anche quando tutto sembra svanire, resta sempre qualcosa che ci tiene saldi.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro per dare voce alle memorie che resistono e alle dimenticanze che ci attraversano. Volevo raccontare la fragilità dell’esistenza, i legami che ci formano e le assenze che ci segnano. La scrittura è diventata il mio modo di fermare ciò che rischia di svanire, trasformando il dolore e la nostalgia in poesia, perché ricordare è l’unico modo per restare vivi.
ANTEPRIMA NON EDITATA
CAPITOLO – LE STRADE PRIMA DEL NOME
Parte I
Cesare aveva otto anni e non sapeva nulla del mondo, tranne ciò che aveva davanti agli occhi: i mattoni rossi delle case del quartiere, il cortile scavato dai giochi, i paletti di legno che dividevano il suo spazio da quello degli altri. Era un cortile senza regole scritte, ma ognuno sapeva cosa poteva fare e cosa no. Le porte erano sempre socchiuse, le scale scricchiolavano sotto i piedi di chi rincorreva il pallone o una palla di carta, e il sole scendeva lento, colorando tutto di arancione e polvere.
Quel giorno, come tanti altri, Cesare correva. Non correva per vincere, non correva per dimostrare qualcosa. Correva perché correre era l’unico modo di respirare libero.
Dietro di lui, urlavano i ragazzi del quartiere, cinque, sei, forse sette, con le ginocchia sbucciate e i pantaloni rattoppati. Gridavano nomi inventati, urlavano frasi senza senso, e ridevano come se non ci fosse altro nel mondo. Cesare rideva anche lui, senza capire perché, ma sentendo che quella risata era un regalo.
Avevano trovato un pallone sgonfio, un vecchio oggetto lasciato da qualcuno che forse non tornava più a giocare. Lo passavano avanti e indietro, senza nessuna tecnica.
Cesare lo calciava storto, cercando di non colpire le finestre delle case, ma spesso le pallonate sfioravano vetri e mattoni, e qualcuno correva a raccoglierlo ridendo e imprecando insieme.
Il cortile era pieno di dettagli: un cane randagio che dormiva sotto le scale, le tegole che si muovevano appena sopra il tetto della cantina, le porte delle case aperte dove si sentivano le voci delle madri che chiamavano i figli per pranzo. Cesare passava vicino a tutto questo senza accorgersene, eppure tutto lo attraversava. Tutto entrava in lui, come piccoli semi che sarebbero cresciuti anni dopo, dentro le paure e i ricordi.
Ad un certo punto, si fermò vicino al muretto. Tirava il fiato, le mani sporche di terra, il ginocchio sanguinante per una caduta precedente. Guardò il cielo che incominciava a
farsi più pallido, e sentì il peso di essere lì, in quel cortile, e di non dover fare nulla. Non
c’era obbligo, non c’era guerra, non c’era niente di più grande di quella gioia semplice.
— Cesare! — gridò uno dei ragazzi, più piccolo di lui, con un fazzoletto rosso legato alla fronte, come se fosse un segnale di battaglia. — Passamela!
Cesare passò la palla. Non fece una mossa particolare. Non pensò a vincere, non pensò a perdere. Solo passò, e si sentì parte di qualcosa più grande di sé. Gli altri lo presero al volo, lo calciarono tra le ginocchia e le mani, e in quel contatto sentì che esisteva un mondo che poteva essere gentile, almeno per un momento.
Poi si sedette sul bordo del muretto, il ginocchio ancora sanguinante. Guardò un piccolo uccello che saltellava tra le crepe del pavimento, e sentì un senso di meraviglia. Non aveva idea di quanto fosse fragile quella bellezza, e non gli importava. Bastava che esistesse. Bastava essere lì, bastava sentire l’aria, il sole, le risate.
Una madre lo chiamò dall’angolo del cortile, la voce che attraversava la polvere:
— Cesare, vieni! È pronto il pranzo!
Cesare guardò i suoi amici, che lo chiamavano a loro volta, e scelse di andare via lentamente. Passava accanto a ciascuno di loro, toccando una spalla, un braccio, sentendo il calore della loro presenza. Sentì un brivido: questo è quello che resta, questo è ciò che posso avere prima di tutto il resto.
Mentre camminava verso la porta di casa, pensava al suo piccolo regno, al cortile, alle pallonate, ai muretti, alle risate. Pensava che forse, da quel cortile, nulla di ciò che sarebbe venuto avrebbe potuto togliergli la memoria di quei giorni.
E mentre entrava in cucina, il profumo della minestra lo accolse come un abbraccio. Nessuna guerra, nessuna paura, solo la presenza viva di qualcuno che ti ama e che ti aspetta. Sentì il tavolo, il piatto fumante, la madre che gli sorrideva e gli porgeva il cucchiaio.
Cesare allora comprese, anche se era solo un bambino, che certe cose sono fondamentali: le persone, le mani che ti sostengono, i momenti di felicità semplice, quelli che nessuno può portarti via, anche quando arriverà il resto del mondo.
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