Stéphanie apre la porta ed entra nella camera 202, seguita da suo marito Philip. Accende la luce e butta la sua borsa sul letto. Non ha troppa voglia di parlare, men che meno con Philip. Il marito è andato in bagno. Sente l’acqua del rubinetto scendere. Probabilmente si sta sciacquando la faccia.
Si lascia cadere sulla comoda poltrona della stanza e guarda il dipinto appeso alla parete di fronte. C’è un brigantino in balìa di una tempesta. Come quella che, è sicura, sta per scoppiare tra lei e Philip. Ma, in realtà, non ha voglia di discutere.
Il marito torna dal bagno. Ha l’asciugamano sulla spalla. Un ciuffo di capelli bagnati gli casca sul volto.
Lei lo guarda distrattamente.
Philip sta alzando la voce. Si avvicina a Stéphanie, che non riesce a nascondere quel velo di paura causata dal marito. Si alza e decide di stendersi a letto, per far vedere di essere tranquilla.
Mentre parla, si toglie le scarpe facendo leva una sull’altra. Cadono a terra in maniera disordinata. Philip la guarda. Sta sudando.
Philip si avvicina al letto. Ora comincia davvero a farle paura. Lui alza la voce.
Si butta il ciuffo indietro con la mano. Si allenta la cravatta.
Stéphanie non sa cosa fare. E’ chiaramente spaventata ma vuole darlo a vedere il meno possibile. Si gira verso la finestra, poi risponde a bassa voce nel tentativo di fargli capire che forse è il caso di moderare il tono.
Philip si gira e fa per tornare in bagno. Inciampa nella sedia dello scrittoio; per poco non cade.
Ubriaco fradicio. Calmati, Stéphanie. Non è la prima volta.
- Giuro che prima o poi ti ammazzo con le mie stesse mani, davanti a tutti!
- D’accordo, Phil. Ti chiedo solo di smettere di gridare, ora, ché è quasi l’una di notte e i vicini potrebbero sentirci.
Si gira sul fianco. Non ha voglia di cambiarsi; questo vorrebbe dire prolungare ulteriormente quella surreale conversazione.
Finiamola qua. Domani sarà un altro giorno. Un altro, insopportabile giorno.
Spegne la luce e appoggia la testa sul cuscino, pur non essendo affatto rilassata.
- Me ne fotto dei vicini. Avranno di che parlare domani.
Stéphanie sente il marito aprire e chiudere i mobili del bagno, spostare oggetti, bofonchiare qualcosa. Poi, qualche passo nella stanza.
Acqua passata. L’alcol smetterà con il sonno di fare danni anche questa volta.
Improvvisamente, sente uno strano fastidio alle gambe. Si muove nel letto, d’istinto, e si mette supina. Dalla stanza, così come dal bagno, non arriva più alcun rumore.
Cosa starà facendo Philip?
Nessun suono, nessun lamento del marito. Con la coda dell’occhio vede la luce dell’ingresso e del bagno sfarfallare.
Il polpaccio destro comincia a dolerle, come se qualcosa si fosse avvinghiato attorno, sempre più stretto.
- Philip, mi fai male. Smettila!
Lei alza la voce. Sente la presa sempre più forte. Il dolore cresce.
- Cazzo, Phil, smettila subito!
Riesce a girarsi leggermente e ad accendere la luce. La presa sembra cessare. Si mette seduta sul letto. La luce del bagno è ancora accesa; Philip deve essere tornato di là. Solleva quanto basta il lungo vestito rosso della serata. Ci mette un attimo prima di vedere chiaramente dei grandi segni rossi attorno al suo polpaccio destro. Segni che, il giorno dopo, sarebbero diventati grossi ematomi blu.
ALGERNON
Il computer di Algernon, un vecchio MacBook datogli dal figlio, è acceso sulla scrivania, in attesa di conferma. Sembra quasi puntargli gli occhi addosso. D’altronde, è così da diversi minuti. Il primo movimento del concerto per violino e orchestra in Mi minore di Mendelssohn fa da sottofondo all’attesa e ai fitti pensieri dell’anziano signore.
Un altro sguardo di Algernon si posa sulla mail aperta.
Forse dovrei lasciare perdere. Forse dovrebbe essere mio figlio ad interessarsi alla vicenda.
Si siede sulla poltrona vicina. Prende dal tavolino un bicchiere di scotch e fa un sorso. Fuori ha iniziato a piovere. Le prime gocce si mostrano alla finestra che dà sui tetti di Milsport.
No, mio figlio non farebbe un bel niente. Non vuole creare problemi all’attività, non vuole avere gente tra i piedi. Come dargli torto…
Il campanello di casa suona. I pensieri di Algernon vengono bruscamente interrotti. Ci mette un po’ per realizzare e ad alzarsi, sbuffando. Va alla porta, vicino al vasto salotto colmo di libri.
- Chi è?
- Sono Donald, Algernon. Scusa se disturbo…
Il vicino di casa. Una brava persona, quasi coetanea.
Certo che non disturbi, ma un altro momento sarebbe stato migliore.
Algernon sblocca e apre la porta d’ingresso.
- Donald! Non disturbi mai!
Il vicino dimostra più anni di Algernon. Ha la schiena ricurva e si regge su un bastone. Algernon ha invece un portamento che non farebbe mai pensare ai settantadue anni appena compiuti.
- Prego, entra pure. Stavo giusto bevendo un sorso di scotch.
- Ti ringrazio, Algernon, ma devo tornare a casa per finire di prepararmi. Sta per passare mia figlia, vado a pranzo da lei e Karl.
- Come stanno?
Algernon preferirebbe discutere seduto sulla poltrona piuttosto che sull’uscio di casa. In realtà, preferirebbe tornare alle sue faccende decisamente più importanti.
- Molto bene! Mia figlia a dire il vero è appena uscita da un periodo difficile al lavoro, sai. Però finalmente tutto è tornato alla normalità.
Che lavoro faceva tua figlia?
- Sono passato per chiederti come stavi. Sono andato in bagno poco fa e ho sentito che avevi la musica accesa. Mi pare… Mendelssohn, giusto?
- Mendelssohn.
- Fantastico!
Non di rado Algernon e Donald si trovano a casa del primo per ascoltare un po’ di musica classica. Sono entrambi melomani di prima categoria.
- Sono passato nei giorni scorsi ma non ti ho trovato, quindi volevo sapere se era tutto a posto.
- Sì, tutto a posto, grazie mille. Sono stato alcuni giorni da mio figlio, a Coven Lake, per aiutarlo in alcune faccende.
Non vuole entrare troppo nel dettaglio, anche se sa che Donald non chiederebbe mai cose private.
- Non dev’essere facile per lui gestire quella struttura da solo.
- No, infatti. Però devo ammettere che se la cava abbastanza bene. Anzi, direi che è assolutamente in gamba. Non so se sarei in grado, personalmente, di fare ciò che fa lui.
I due scambiano altre brevi battute, poi Donald torna nel suo appartamento.
- Quando sei più tranquillo, facciamo una delle nostre sedute d’ascolto.
- Assolutamente!
Algernon può finalmente tornare ai suoi pensieri. Il computer è ancora lì che lo guarda.
Eccoci qui. Dove eravamo rimasti?
L’anziano si siede nuovamente sulla poltrona e beve un altro sorso di scotch. Fuori piove ora più intensamente.
Ci hai pensato già a lungo. Altrimenti non avresti scritto la mail.
Guarda fuori dalla finestra. Sembra voler guardare oltre la pioggia, oltre i tetti della città e arrivare al Coven Lake Hotel, scrutare suo figlio, nel suo ufficio, immerso anche lui nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni. Suo figlio è sempre stato così: forte e orgoglioso. Tende a non chiedere aiuto, a trovare da solo una soluzione, anche se dovesse essere al di fuori della sua portata.
E’ un rischio da correre. La questione sembra essere più grande di lui. Più grande di me, di noi tutti.
Si alza, deciso. Guarda ancora per un istante la mail.
Preme sul pulsante “Invia”.
HOWARD
La coppia del tavolino di fronte parla. Lui, un ragazzo alto e moro, di bell’aspetto, sembra triste ma non quanto lei, bionda, con gli occhiali da sole nonostante il cielo grigio. Se gli occhi di Howard non lo ingannano, lei sembra accennare a un lieve pianto, con la bocca tremante e la testa volta raramente in direzione del ragazzo. Gli occhiali da sole potrebbero servire proprio a mascherare qualche lacrima di troppo. Il ragazzo le tiene una mano con le sue e, di tanto in tanto, le dà una carezza in volto. E’ in questi momenti che lei accenna ad un sorriso. La mancanza di rifiuto del contatto con lui sembra allontanare l’idea di un conflitto interno allo coppia. Con tutta probabilità, la ragazza soffre per un parente, un familiare stretto.
Howard non si è accorto dell’arrivo di Susy, la cameriera che conosce oramai da parecchi anni, al servizio del suo bar preferito di tutta la zona, a ridosso del lago.
- Grazie mille, Susy. Perdonami, stavo viaggiando con la testa.
- Me ne sono accorta. Oramai ti conosco bene.
Susy si allontana. E’ la figlia dei proprietari del bar, sui trent’anni. Si vede che ama il suo semplice lavoro ma ancor più i suoi genitori, Sandra e Larry. Farebbe qualsiasi cosa per togliere del peso quotidiano ai coniugi.
Howard beve un sorso di caffè. Osserva, poco lontano, una signora sulla cinquantina con un cane al guinzaglio.
Sembra Jackie.
Jackie è stato per parecchi anni il cane di Howard, un Cavalier King. Era molto affettuoso, come tutti i cani di quella razza. Proprio per quello è stato per lui un compagno e amico importante e dopo quella terribile notte passata con Adeline, cinque anni addietro, non ha più voluto animali.
Ricaccia nell’abisso quella notte, Howard.
Chiude gli occhi. Forme, colori, linee gli compaiono nella mente. Regola il respiro. La lieve brezza sembra volerlo aiutare. Delle parole riaffiorano nella sua testa dal profondo dei suoi pensieri, quelli che vuole mettere da parte, senza però dimenticarli.
Adeline, non ascoltare… Vai avanti, pretendi risposte!
Il respiro di Howard è sempre regolare, più profondo.
Metti da parte quella notte. Non ora, non ti serve.
I passi della signora con il cane si fanno vicini. Il loro suono vince sulle voci del passato. Finalmente, può nuovamente aprire gli occhi. Ha un leggero mal di testa.
Lui china leggermente la testa, in segno di saluto nei confronti della donna. Guarda di sfuggita il cane, ma subito distoglie lo sguardo.
Beve il secondo e ultimo sorso di caffè. Qualche goccia di pioggia attira la sua attenzione.
Forse è il caso di tornare a casa.
Tampona le labbra con uno dei tovagliolini di carta. Si alza e fa per prendere il cellulare dal tavolo. Ma il tempo sembra fermarsi. Sente un uccellino cantare sul vicino salice piangente la cui immagine, insieme al suono delle foglie attraversate dalla brezza, dà vita ad un deja-vu. In quel momento, il cellulare vibra. Howard abbassa lo sguardo sullo schermo.
E’ una mail.
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