«Ciao» dissi allora.
Nessuna risposta.
«Che fai?» chiesi. «Perché non sei a giocare?»
Sospirò e dopo qualche attimo sollevò la testa dal libro. Aveva capelli scuri che gli sfioravano le sopracciglia e gli occhi, di un marrone intenso, erano puntati su di me.
Mi guardava come se avessi fatto qualcosa di sbagliato, era un modo di fare curioso. Tutto di lui mi sembrava curioso.
In risposta a quello sguardo ostile, diedi il più grande dei miei sorrisi, quello che scioglieva il cuore della mamma e le faceva passare l’arrabbiatura.
Sembrò sorpreso. Continuò a osservarmi e io mantenni il sorriso, anche se iniziavano a farmi male le guance. Assottigliò gli occhi, poi si fece di nuovo rilassato e annuì, come se avesse avuto una specie di dialogo interiore.
Allontanò il libro e lo fece scivolare sul banco perché potessi vedere meglio. S’intitolava Il Piccolo Principe e lui lo teneva aperto su un disegno: un bambino che spiccava il volo aggrappato con dei fili a uno stormo di uccelli. Aveva i capelli gialli come le stelle e portava una lunga sciarpa dello stesso colore attorno al collo.
«E questo chi è?»
«Non lo sai? È il piccolo principe.»
«E che fa?» chiesi. «Vuole acchiappare i piccioni?»
Scosse la testa. «Parte per un viaggio.»
«E i piccioni?»
«Non sono piccioni» disse, sembrava seccato. «Sono uccelli. Il piccolo principe ha aspettato che migrassero, poi si è aggrappato a loro, perché con le ali possono portarlo lontano.»
Guardai il disegno, con un dito toccai le corde che partivano dalle mani del principe e le seguii fino ad arrivare alle ali. «Non doveva aggrapparsi ai piccioni.»
«Non sono piccioni» ripeté.
«E che ne sai?»
Aggrottò la fronte e non rispose.
«Dicevo… Doveva aggrapparsi ai palloncini. Volava via in un attimo.»
«Sì e poi in un attimo cadeva…»
«Tra le stelle?» chiesi speranzoso.
«Nel vuoto» rispose secco.
Rimasi zitto, non sapevo più cosa dire. Non mi capitava spesso di rimanere senza parole, papà diceva che mettevo paura al silenzio, ora era lui che la metteva a me. Mi guardai le dita delle mani, erano macchiate di pennarelli.
«Vuoi sapere dove andava il piccolo principe?» chiese all’improvviso. «Andava a vedere i pianeti, è venuto anche sulla Terra.»
Fissai il libro finché chiese: «Vuoi vedere il resto dei disegni?»
Allora mi sedetti al banco vicino al suo e sfogliai il libro cercando di essere molto delicato, perché avevo visto i suoi occhi sulle mie dita colorate e la smorfia che aveva fatto con la bocca quando avevo girato la prima pagina in modo troppo brusco.
Non lessi quasi niente, mi concentrai sui disegni, alcuni mi parevano senza senso, a guardarli mi scappava da ridere.
«Ti piace?» chiese con una certa ansia nella voce.
«È forte» risposi. «Ma è l’ora della merenda, perché non vai fuori a giocare?»
«Perché può piovere» disse e indicò la finestra dietro di lui. Era chiusa, non passava aria fredda, nell’aula c’era solo il caldo dei termosifoni. «E perché leggere è più divertente.»
«Leggi per divertirti?» ripetei per essere sicuro di aver capito bene.
Sollevò le sopracciglia. «Per cosa sennò?»
«Sei strano» gli dissi, «ma va bene. Papà dice che le cose strane sono le più belle.»
Il sorriso venne all’improvviso, con la delicatezza di una foglia che cade. «Come ti chiami?» chiese.
«Mattia» risposi. «Tu come ti chiami?»
Allungò una mano, come facevano gli adulti, e non mi rivelò il suo nome finché non gliela strinsi.
«Piacere, Michele.»
***
Michele aveva una strana teoria sul perché si sente il mare se appoggi una conchiglia all’orecchio. Eravamo a casa di nonna Maria, la torcia in mano, le coperte sopra di noi e la conchiglia più piccola della collezione appoggiata sul cuscino.
Dalla finestra filtravano i fruscii delle foglie e una corrente d’aria fredda, che mi faceva salire brividi lungo la schiena. Volevo indietro l’estate.
«Sai perché qui dentro si sente il mare?» chiese Michele. «Il mare vuole bene a tutte le conchiglie. Sa che prima o poi se ne andranno e allora una per una ci mette dentro la sua voce.» Fece passare le dita sul guscio roseo della conchiglia. «Così, anche se sono lontane, le conchiglie possono sentire la voce del mare. Dovunque siano, anche tra le montagne.»
«Mai vista una conchiglia in montagna» scherzai.
Non rispose, si portò la conchiglia all’orecchio, «sst» fece quand’ero stato sul punto di parlare di nuovo. Chiuse gli occhi e continuò: «Quando sono tristi, le conchiglie possono sentire la voce del mare e ricordare le onde e tutto il resto. Il loro letto di sabbia, il sole sul guscio, l’acqua salata…»
«I pesci palla» dissi, «i pesci rossi come Bollicino, le tartarughe vecchie e sagge, le meduse cattive, le navi dei pirati, gli scheletri dei T-Rex…»
Michele rise, «non si può ascoltare il rumore del mare con te che parli sempre e non si può nemmeno raccontare una storia.»
Allora provai a essere serio, pensai a quello che aveva detto Michele e chiesi: «Quindi sentono le onde e poi il mare non gli manca più?»
Michele sembrò sorpreso, abbassò di nuovo la conchiglia sul cuscino e la tenne tra le mani, come se fosse qualcosa da proteggere. «Non lo so» rispose, «mi sa che a loro manca sempre il mare. Ma quando sentono il rumore è un po’ come se l’avessero di nuovo con loro, no?»
Appoggiai la guancia sul cuscino, iniziavo a sentire sonno. «Tocca a me adesso» dissi, presi la conchiglia e la premetti contro l’orecchio.
Il suono della risacca mi invase, le palpebre si fecero pesanti, il corpo più leggero. Gli occhi di Michele brillarono alla luce della torcia, erano conchiglie sotto il sole, stelle in una notte d’estate.
Faccio scivolare dall’orecchio la conchiglia che mi aveva regalato Michele. Romeo mi guarda mentre è appollaiato sul davanzale della finestra come uno strano uccello rosso dai baffi lunghi. Lo accarezzo, «manca anche a te?» chiedo e quello non risponde, fa solo sbattere la coda in quel modo che mi fa capire che è infastidito.
Ritraggo la mano, il tramonto vernicia di arancio i tetti e i muri delle case, Romeo si stiracchia alzando il sedere e abbassandosi sulle zampe anteriori. Lo faccio entrare, poi chiudo la finestra e rimetto la conchiglia sulla scrivania.
Tiro fuori dal cassetto due buste, entrambe hanno la stessa scritta: Estate 1988 . Le apro seduto sul letto, la prima Polaroid ritrae me e Romeo nel mio giardino. Mentre io sorrido, Romeo si agita tra le mie braccia mostrando denti e artigli.
Credo che più che sorridere stessi ridendo a crepapelle. Ho gli occhi puntati sulla macchina fotografica, no, sul ragazzo che c’è dietro, gli dico di muoversi a scattare, ma lui non mi ascolta. Continua con quello stupido conto alla rovescia, al tre mi rivolge un pollice all’insù, sorridendo.
Appena scattata la foto, allento la presa. Romeo punta le zampe sulla mia pancia e fugge via, un lampo arancione tra l’erba.
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