L’avvocato Licio Rabiotti non era un principe del foro; il suo nome non veniva associato ai processi da prima pagina destinati a lasciare un solco indelebile nella giurisprudenza. L’avvocato Licio Rabiotti era, al contrario, noto per la sua intramatura in affari confusi e fumosi da cui, però, alla fine della fiera, riusciva sempre a trarre una qualche forma di profitto. In realtà c’era stato un tempo, ormai molto lontano, in cui anche l’avvocato Licio Rabiotti sognava di poter cambiare il mondo. Quel tempo era terminato rapidamente, infrangendosi contro gli impietosi crinali della realtà. Ciò accadde molti anni prima quando il giovane avvocato Rabiotti, iscritto di fresco nelle liste dei difensori d’ufficio, venne incaricato della difesa di una sconclusionata studentessa universitaria della facoltà di giurisprudenza.
Costei, figlia cadetta di una aristocratica famiglia, era imputata per avere, nella parte più amena della biblioteca universitaria, tramortito con una bastonata, legato a una sedia, cosparso di benzina e incendiato una collega universitaria. L’evento, all’epoca, aveva suscitato, per le cruente modalità, un enorme clamore mediatico. Tutti davano per scontato che il giovanissimo Rabiotti sarebbe stato rapidamente sostituito, tramite la mediazione del ricchissimo padre dell’autrice, da qualche prestigioso e affermato avvocato penalista, ma ciò non accadde. La famiglia, ritenendo prioritario salvaguardare il proprio buon nome, decise di ripudiare pubblicamente la figlia, nel cui operato non si riconosceva, abbandonandola al proprio destino. La ragazza venne estromessa dal nucleo familiare d’origine per permettere al giovane Rabiotti di potere almeno accedere al gratuito patrocinio a spese dello Stato. L’avvocato Rabiotti, per motivi di anzianità di iscrizione, patrocinò solo i primi due gradi di giudizio. Nel terzo grado, fu sostituito da un prestigioso avvocato, con un’anzianità tale da potere patrocinare anche in tale sede, offertosi pro bono per la difesa. Durante i tre gradi di giudizio, nessuno dei giudici credette alla tesi del plagio.
Le perizie psichiatriche prodotte non vennero ritenute idonee a dimostrare l’incapacità di intendere e di volere della studentessa. I giudici sentenziarono che si era trattato di un omicidio efferato e premeditato. Nessuno credette alla tesi secondo cui la giovane studentessa fosse stata istigata dalle false promesse di un altro collega universitario, tali da radicare nella stessa la convinzione che il suddetto collega avrebbe donato il suo cuore a colei che avesse eliminato la vittima. I referti tossicologici confermarono lo stato di intossicazione da alcol e droghe, pressoché cronico, della ragazza. Per i giudicanti fu molto più facile dedurre che la problematica e inconcludente figlia cadetta di una facoltosa famiglia avesse, in preda a un delirio psicotico indotto da droghe e alcol, tramortito legato a una sedia e bruciato viva la povera collega.
Il giovane studente universitario che Rabiotti tentò di dimostrare essere l’istigatore occulto era, per brillantezza di eloquio e raffinatezza di contegni, un predestinato a diventare un aulico principe del foro, nonché un arguto manipolatore. Il giovane, non casualmente, riuscì, con facilità disarmante, a entrare nelle grazie di una ragazza proveniente da una facoltosissima, oltre che potentissima, famiglia di notai e avvocati. Casualmente il prestigioso avvocato penalista che sostituì Rabiotti nel terzo grado, offrendosi pro bono, era amico storico di tale famiglia. Tuttavia il giovane e la nuova fidanzata attesero, con scaltrezza, la fine del processo per ufficializzare la loro unione. Il giovane Rabiotti, vedendo miseramente sabotato il telaio probatorio costruito nei due precedenti gradi di giudizio da quelle raffinatissime e invisibili trame di potere, comprese immediatamente sia il concetto di cerchio magico sia che uno come lui non ne avrebbe mai fatto parte.
L’avvocato Licio Rabiotti seppe però smaltire rapidamente la delusione e si adattò. L’avvocato Rabiotti iniziò ad agire, con lodevoli risultati, nella melma del disagio e della marginalità, accaparrandosi, senza pudore alcuno, tutti quegli incarichi ritenuti scabrosi e disonorevoli dai colleghi più prestigiosi. L’avvocato Rabiotti sposava la tesi che, alla fine, il profitto di dieci incarichi miserabili finiva per superare il profitto del singolo incarico prestigioso. Nel frattempo, il giovane brillantissimo studente, anche grazie alle poderose spinte della famiglia della fidanzata, diventata, ovviamente per interesse, sua moglie, divenne l’avvocato Nino Masticoni.
L’avvocato Masticoni entrò, a pieno titolo, in quella ristrettissima prestigiosa aristocrazia forense che, da sempre, bistrattava il Rabiotti nelle sedi giudiziarie con malcelata aria di spocchiosa superiorità. Tale disprezzo era ora acuito dall’avere tentato di impantanare in un cunicolo di sordida miserabilità un loro giovane adepto, al punto tale da ritenere motivo di onta dovere abbassarsi anche solo a un colloquio telefonico con quel sordido e discusso collega. Tuttavia, tale aristocrazia non lesinava a contattarlo, fuori dall’orario di ufficio, in atteggiamento scondinzolante, per arrivare ad avvalersi delle abilità professionali delle intrattenitrici serali che il collega Rabiotti patrocinava con riconosciuta inarrivabile abilità.
L’avvocato Licio Rabiotti era appena rientrato nello studio dopo un breve giro di verifica proprio presso le intrattenitrici serali della cui tutela giuridica era stato incaricato, quando lesse la comunicazione e-mail dell’avvocato Nino Masticoni. Masticoni lo invitava a richiamarlo quanto prima. Il tentativo di contatto del prestigioso collega a quell’ora pomeridiana era addirittura fastidioso.
La pantomima “disprezzo in pubblico-confidenza in privato” conveniva anche allo stesso Rabiotti, il quale preferiva essere considerato dall’opinione pubblica il rognoso randagio costretto a rovistare tra i rifiuti, piuttosto che l’abile traghettatore delle anime corrotte verso i dorati inferi del piacere perverso, di cui era l’indiscusso gestore. Masticoni era però una faina troppo navigata per non condividere la medesima esigenza di riservatezza del nefando collega. Nella mente dell’avvocato Rabiotti prese forma l’angosciosa idea che le loro trame potessero in qualche modo essere state intercettate.
La marea dell’ansia, però, fu rapidamente sedata riportando alla mente il tanto carsico quanto solido legame esistente tra Masticoni, il novello questore di Alfena, Guido Maluccio, salito agli onori delle cronache, e incensato come eroe cittadino, per la cattura del famigerato seriale killer Kodiak, e il legale rappresentante della Ceccaldo S.p.A., commendatore Aldo Ceccaldo, detto l’Emiro per la sconfinata ricchezza e arguzia imprenditoriale, storico cliente dell’avvocato Masticoni. Negli ultimi tempi, Ceccaldo era stato addirittura incensato dalla ribalta gossippara per avere impalmato l’ex fidanzata del calciatore Silvano Reia, neo acquisto del prestigioso Atletico Miranda.
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