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Il Club Mùnchhausen

Il Club Munchhausen
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Consegna prevista Gennaio 2024
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“Il signor Roverti era un ottimo investigatore, un imparziale giudice e un efficace assassino, nonché il miglior cappellaio della città”.
Così i membri del Club Mùnchhausen reinventano le biografie degli strani personaggi che incrociano per le vie della città.
Davide ha 15 anni, vissuti in orfanotrofio, ha fondato il Club e, con lo stesso spirito d’avventura e inclinazione ai voli di fantasia, affronterà la ricerca di una madre che non ha mai conosciuto, l’amore per la compagna di classe Vera, l’amicizia fraterna con Luca.
E chi è in realtà Dickens? Un uomo misterioso che sembra aver attraversato il tempo e che gli commissionerà un piccolo furto all’interno dell’orfanotrofio, proposta che Davide non potrà rifiutare per non perdere Vera.
Un incastro di storie che si sovrappongono e diluiscono le une nelle altre, a formare un caleidoscopio che in parte deforma la realtà, ma al tempo stesso ne offre una chiave di lettura forse più autentica.

Perché ho scritto questo libro?

Siamo sempre tutti divisi tra la realtà e la fantasia, tra le imprese mirabili che fantastichiamo e le cose quotidiane che ci accadono. Più cresciamo, più releghiamo il sogno a ricordi d’infanzia… questo libro nasce per riconoscere l’importanza che la fantasia e l’avventura rivestono nelle nostre vite, quali balsami che ci permettono di affrontare le sfide di ogni giorno. E che ci rendono le persone che oggi siamo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

# Epilogo

9# Laura

Assaporò l’ultima boccata della sigaretta continuando a fissare punti indefiniti del mare. L’orizzonte, forse. La gettò a terra, distante. Ormai fumava in rarissimi momenti.

Passò una mano sulla pancia.

Lo so che non devo, pensò. Ma non ti farò del male ancora a lungo, pensò.

Si sentiva bene seduta su quella panchina.

Soprattutto le piaceva il mare dopo una giornata di pioggia.

Quando ancora, in giro, non c’è nessuno e ti sembra di essere sola, in pace. Quando ancora il sole che verrà ad asciugare e accecare è solo un’attesa, e le nuvole nel cielo filtrano una luminosità delicata. Quando la terra, bagnata, profuma.

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Quando pensi che se resti lì, ferma, su quella panchina, allora nulla può più accadere, e tutto dipende da te, e se non ti muovi, allora, quella diventa una fotografia immutabile. Quando ti sembra di non essere tu a guardare il mondo, ma il mondo a guardare te, e attendere un tuo gesto per riprendere ad andare, e tu puoi illuderti di non muoverti. Ancora un minuto. Ancora un attimo.

Qualche metro di ciottolato, una bassa ringhiera, un po’ di sabbia e il mare. Le onde monotone e rassicuranti che si alzano e abbassano strisciando sulla sabbia. Come una carezza. Come un respiro. Come il battito di un cuore.

Come il bambino nel suo grembo.

Labbra sottili. Il corpo minuto. Troppo piccola a guardare l’energia dei suoi movimenti. La curiosità, la fame di vita che si legge nei suoi occhi. Marrone chiaro, con venature quasi gialle, o è il riflesso dorato dei suoi capelli. La pelle chiara.

Una ragazza indecifrabile. Contraddittoria. In bilico. Delicata o violenta. O entrambe le cose. O nessuna.

La profonda tristezza nel suo sguardo, che mai era stato triste, le bagnava gli occhi.

Non nel chiedersi se quel mare le sarebbe mancato.

Ma se lei sarebbe mancata al mare. E al battito del suo cuore.

Al calar della sera era già ritornata in città.

Attese che il treno si fermasse, guardando scorrere dal finestrino la stazione ferroviaria.

Pensò che ormai, la sua vita era un susseguirsi di attese.

Mentre lei aveva sempre vissuto guidata dall’istinto, dall’impulso. Agiva, prendeva, lasciava. Rimorsi o rimpianti dopo. Forse.

Adesso, invece, nulla dipendeva da ciò che lei poteva fare o volere.

O poco.

Telefonò al ginecologo. Non aveva alcuna voglia di discorsi inutili, camici bianchi, sorrisi di circostanza, convenzioni sociali. Rispose la segretaria. Aveva i capelli lisci, rossi e le lentiggini. Le ricordava un’attrice che aveva visto in un film, dove faceva la segretaria in una specie di ospedale. Decise che aveva una relazione con il medico. Non da molto, ma che fosse iniziata dopo molta attesa. Si davano ancora del lei. Ma i loro sguardi erano cambiati. E la donna stava molto più attenta al vestito, al trucco e all’acconciatura.

Disse di non sentirsi bene. Le dispiaceva. Se poteva rinviare l’appuntamento. Si andava tutto bene ma era molto stanca. Non c’era problema. L’indomani pomeriggio era perfetto. Grazie.

Viveva in un appartamento sull’argine del fiume che attraversava la città.

Infilò le chiavi nella serratura ed entrò.

Lanciò la borsetta sul divano, camminando sfilò le scarpe disseminandole nel corridoio, entrò in bagno lasciando cadere al suolo i jeans e il maglione, girò il rubinetto della doccia e terminò di spogliarsi.

Quando il vapore cominciò a mischiarsi al getto d’acqua entrò nella doccia, restando immobile sotto quel caldo abbraccio, finché finalmente, senza sforzo, sentì che le lacrime stavano concedendole un momento di abbandono, dandole l’illusione di trascinar via l’angoscia che le rendeva così pesante anche il respiro.

Si sedette, esausta, concentrandosi solo sull’acqua che l’avvolgeva.

Avvolta nell’accappatoio si diresse in cucina, mise una bustina di tè in una tazza e un pentolino d’acqua sul fuoco.

Squillò il telefono, ma decise di ignorarlo.

Versò l’acqua bollente nella tazza e si diresse in camera, stendendosi sul letto.

Guardò il testo di Neuropsichiatria dello Sviluppo posato sulla scrivania.

Si addormentò pensando che, almeno, quello non era più un suo problema.

Erano passate le undici quando si svegliò.

Il tè, sul comodino, era ormai freddo. Indossava ancora l’accappatoio.

Mise entrambe le mani sulla pancia.

– E Riccardo, ti piace?- chiese ad alta voce.

Fuori il buio, illuminato dalle luci di alcune finestre nei palazzi di fronte.

Forse dovresti conoscere i nonni, pensò.

Per lavoro erano andati a vivere da due anni in Minnesota.

Lei non aveva voluto trasferirsi e questo non glie l’avevano mai perdonato.

Si erano sentiti abbandonati e, quindi, avevano deciso di abbandonarla.

Le accreditavano dei soldi sul conto e si sentivano giusto a Natale.

Lei non aveva detto loro nulla.

E non glie l’avrebbe mai detto.

Si accorse che stava cadendo nella ragnatela dei soliti pensieri che da mesi, ormai, l’avevano monopolizzata. Pensava in circolo. Un pensiero richiamava l’altro. E questo un altro ancora. Partiva tutto dall’immagine felice del figlio che stava nascendo, e dopo aver fatto quel maledetto giro, tornava tutto a esaurirsi nell’immagine triste del figlio che stava per nascere.

Non aveva voglia di percorrere, ancora, quel viaggio. Non aveva voglia di pensare a quanto fosse stanca di farlo. Non aveva più voglia di nulla.

– No, Riccardo non piace neanche a me.

Si alzò.

Toccò il display dello stereo che divenne blu, scorse fino alla cartella Underworld, scelse Rez e schiacciò play.

La stanza si riempì di musica sintetica.

Poteva così ingabbiare i pensieri tra le catene di quei ritmi ripetitivi ed ipnotici.

Alzò il volume.

Andò in bagno.

Passò un leggero rossetto sulle labbra. Un tocco di rosa acceso sulla parte superiore delle guance. Un marcato contorno occhi nero. Raccolse i capelli in una coda.

Sebbene fosse ormai abbondantemente nel quinto mese, era molto magra. Solo la rotondità tesa della pancia tradiva il suo stato. Non era esagerata ma non si poteva più nascondere.

Decise per un paio di jeans larghi, una canottiera verde scuro con macchie viola, un maglioncino sottile, largo, nero e un paio di anfibi.

Prese il pacchetto di sigarette, le tirò fuori tutte lasciandone dentro solo una e lo rimise nella borsa.

Questa è l’ultima, pensò.

Spezzò le altre e le gettò nel cestino dei rifiuti sotto il lavandino in cucina.

Sebbene fosse novembre inoltrato, non faceva ancora troppo freddo.

Camminò qualche minuto lungo il fiume. Fuori dai locali gruppetti di persone fumavano intente nei loro discorsi. Superato un bar da cui proveniva l’eco di musica Jaz girò a sinistra, entrando nel portone del Vox 22, cui faceva da cornice una grande parete interamente ricoperta di murales. Attraversò il cortile interno incrociando qualche sguardo e qualche sorriso e superata una piccola porta, entrò nel locale, dove già molte persone stavano ballando. Venne immediatamente investita dal caldo della sala. L’ambiente era molto buio, illuminato da lampi di luci colorate. I bassi, amplificati dalle casse, rimbalzavano sul suo corpo facendolo vibrare. Era come sentire il battito del cuore in un ventre materno. Pensò che suo figlio dovesse provare qualche cosa del genere.

Tolse il cappotto, lo avvolse attorno alla borsa, e lo lasciò su un divanetto dove già ve n’erano diversi altri.

Si diresse verso il bancone e richiamò l’attenzione del barista.

La musica copriva tutte le parole e gran parte dei pensieri.

– Un negroni – gridò all’uomo che la fissava in attesa e, mentre questi si chinava sparendo per un istante dietro la barra, aggiunse – con poco gin.

– Cosa?- fece l’altro guardandola e indicandosi l’orecchio.

Lei scosse il capo.

– Niente, niente. Un negroni.

– Giuro. E’ l’ultima porcheria che ti faccio. Potrai dire di esserti ubriacato con la tua mamma – disse, poi, abbassando il viso verso la pancia.

Bevve il cocktail appoggiata al banco, guardando la gente che ballava o che chiacchierava sui divanetti.

Due ragazzi parlavano vicino a una colonna, ridendo e lanciando occhiate attorno.

Uno le sembrò molto carino. Alto, capelli corti, ricci, una leggera barba, forse, rossiccia ma non avrebbe potuto giurarlo dato l’alternarsi di luce, buio e colori.

Un paio di volte aveva soffermato lo sguardo su di lei, distogliendolo rapidamente.

Posò quindi il bicchiere e si diresse in pista.

Andò esattamente nel centro.

Chiuse gli occhi.

E ballò.

Si concentrò sul ritmo, sul proprio corpo, sulle vibrazioni, sui movimenti.

Si muoveva con delicatezza e malizia.

Continuò così sino a dissolversi nella musica, sino a sentirsi sola e in pace, sino a dimenticare cosa doveva dimenticare, sino a illudersi che non ci fosse nessun ieri e alcun domani. Sino a sentirsi euforica, inseguendo tale euforia, e abbracciandola abbandonandosi a essa appena la intuì da qualche parte in fondo a sé.

Le piaceva quando il buio veniva interrotto da rapidi flash di luce bianca. Tutto sembrava rallentato e muoversi a scatti. Come quel gioco da bambina che tu chiudevi gli occhi e gli altri correvano verso di te e, quando ti giravi e li aprivi dovevano fermarsi. E quando eri al buio, ogni cosa poteva accadere, e quando guardavi dominavi e fermavi tutto.

Sudata ed esausta andò a prendere un altro cocktail che bevve quasi d’un fiato.

Finalmente aveva la testa leggera.

Il ragazzo dalla barba rossa era appoggiato a un divanetto e guardava la gente in pista.

Si diresse verso di lui.

– Non balli? – gli chiese

Si voltò. La guardò cercando di riconoscere dal proprio passato un viso. Aprì e richiuse le labbra.

Le rivolse un accenno di sorriso.

– E tu?

– Io ho ballato fino adesso. Pausa.

– Mi chiamo Mario.

– Mario? Nome buffo.

– Perchè buffo?

Lei alzò le spalle divertita.

– Se non balli, puoi offrirmi da bere.

– Hai anche bevuto fino adesso – le rispose facendo un cenno del capo verso il bar.

– Mi hai controllato allora? – chiese maliziosamente.

– Cercavo l’ispirazione.

Lei lo interrogò con lo sguardo.

– Stavo passando in rassegna tutte le frasi d’approccio possibili per rivolgerti la parola. Cercando la più originale.

– Bugiardo. E quale avresti scelto?

– Non l’avevo ancora scelta, per questo me ne stavo qui. Non vale, però. Per voi è più facile.

– No, siete voi che siete più facili.

L’intermittenza di luce bianca riprese. I loro gesti divennero scatti nel buio.

Gli si avvicinò, tirandosi sulle punte, e senza toccarle, sfiorò le sue labbra con le proprie.

– Visto?

Si voltò e si diresse verso il bancone del bar.

– Allora, me la offri o no una birra? – gli disse trascinandolo per una mano.

Facendosi largo tra la calca raggiunsero il bancone.

Presero due birre in bottiglia.

– Cin – fece lui, colpendo la sua bottiglia con la propria.

Bevvero vicini. Scambiandosi più sorrisi e sguardi che parole.

In una versione mixata risuonò Everythig in its Rigth Place.

– Mi piace molto questa. Balliamo. Andiamo.

Erano l’uno di fronte all’altro, vicini. Si muovevano lentamente al ritmo della musica senza toccarsi, sfiorandosi. Ora avvicinandosi ora allontanandosi, recitavano la stessa liturgia, in un inconsueto perfetto equilibrio di desiderio e ironia.

Sono viva. Pensò. Sono libera.

Ballando gli si avvicinò facendogli capire che doveva parargli.

Si piegò verso di lei.

Avvicinò la bocca all’orecchio del ragazzo, gli prese una mano e la tirò a sé, poggiandola sulla pancia.

– Per te è un problema? –

Lui smise di ballare. Quindi lei lo imitò.

La guardò esitante, come fece col suo primo sguardo.

Confuso.

Ricapitolando.

Aprì e richiuse la bocca.

Le guardò la pancia, poi di nuovo lei.

– Allora?

Prima scosse il capo, poi fece seguire la voce.

– No – disse incerto.

– Sicuro?

– Cazzo. Se me ne fossi accorto prima avrei trovato la frase più originale del mondo per approcciare una ragazza in discoteca!- e rise.

– Cretino – gli disse canzonatoria.

Lui le si avvicinò e, senza toccarle, sfiorò le sue labbra con le proprie.

– Certo che voi, invece, siete davvero difficili.

– Vieni.

E, così dicendo, nuovamente lo condusse per mano fino fuori dalla pista. Andò verso l’ingresso, cercò tra i cappotti sul divano il proprio e si diresse verso l’uscita.

– Aspetta – disse lui, allontanandosi.

Lo vide avviarsi verso un altro divano, dove attorno a un tavolino erano sedute alcune persone tra cui riconobbe il ragazzo con cui Mario parlava all’inizio della serata.

Frugò anche lui tra gli abiti accatastati sul divano. Prese una giacca di pelle. Due ragazze si alzarono, gli diedero due baci sulle guance e tornarono a sedersi. Strinse la mano agli altri. Tornò da lei.

– Andiamo – le disse.

Appena fuori, all’improvviso, si fermò e si volse verso di lei, inclinò leggermente il capo.

– Dove… –

– Da me, abito qui accanto.

Ripresero a camminare.

– Wow. Bello vivere in questa zona.

Lei annuì.

La strada era quasi deserta.

Solo i rumori dei loro passi.

– Vorrei non finisse mai questa notte.

– Cosa?- chiese lui.

– Nulla- rispose facendo cenno con la mano di lasciar perdere, che non aveva detto niente d’importante.

Arrivarono al suo palazzo. Di fianco un cinema ormai chiuso. Prese le chiavi dalla borsetta e aprì il portone. Salirono le scale per tre piani. Aprì la porta dell’appartamento. Gettò la borsa e la giacca sul divano, imitata dal ragazzo.

Da fuori filtrava una delicata luminosità.

– Non ti offro da bere, che ho già bevuto troppo per il mio stato.

Senza permettergli di rispondere si girò verso di lui e lo baciò.

Una prima volta feroce.

Poi lo guardò e lo baciò nuovamente, con più calma.

Baciandosi e spogliandosi si diressero verso la camera da letto.

Ancora sul comodino la tazza con il tè e, sul letto, l’accappatoio.

Si sdraiarono sul letto, toccandosi e scoprendosi.

Nel distendersi su di lei, sentì la sua pancia sotto la propria, allora le si stese accanto carezzandole una coscia.

– Non ho mai…- disse a bassa voce.

– Neanche io.-

– Non so…-

– Neanche io.-

Risero.

– Aspetta.

Si girò sul letto e allungò la mano verso lo stereo.

– Voglio mettere una musica.

Schiacciò il tasto ripetizione automatica, abbassò il volume quasi al minimo e fece suonare One of Us.

Tornò a voltarsi verso di lui. Lo baciò sul collo. Lo spinse fino a farlo distendere.

– Forse dovrei stare sopra io- sussurrò.

Salì su di lui e si sciolse i capelli.

La canzone, via via divenuta semplice eco di mille pensieri, di nessun pensiero, riprese dall’inizio diverse volte, facendo da sfondo alle loro sensazioni ed emozioni.

Ogni volta si sorprendeva di come, in quel momento, si riuscisse a essere al contempo emotivamente tanto vicini e tanto lontani da una persona.

Esausta e soddisfatta, gli si stese accanto.

Allungando il braccio spense la musica.

Restarono così, in silenzio, qualche minuto.

– Grazie – disse lei.

– E’ la prima volta che mi ringraziano. Dopo. Bhè. E’ anche la prima volta che mi abbordano in discoteca. E, è la prima volta che… insomma. Un sacco di prime volte.-

Si girò verso di lei e le baciò una spalla.

– Grazie a te.

– Non mi hai detto come ti chiami.

– Non voglio dirtelo.

– Per quale motivo non vuoi dirmelo?

– Non voglio che tu abbia un nome da ricordare quando mi penserai. Se.

– Vuol dire che non ci rivedremo?

– Si. Non ci rivedremo

– Ma…- sospirò. – Ah, è per il padre.

– No. Non lo vedo da mesi. Non sa neanche di essere padre. Nessuno lo sa.

– Perché?

– Non mi va di parlarne.

– Non mi lasci nessuna scelta vedo.

– Scusa.

Si girò verso di lui.

– Te lo dico. Ma devi promettermi una cosa.

– Dimmi.

– Appena finito, te ne vai.

La guardò. Le spostò una ciocca di capelli che aveva avanti al viso. Capì che non l’avrebbe davvero più rivista.

– Continui a non lasciarmi nessuna scelta- rispose annuendo.

Fece un respiro profondo cercando di non far vibrare la voce.

– Cinque mesi fa ho scoperto di essere incinta. Lui non era una storia importante. Anzi. L’avevo lasciato da poco. Stavo pensando a cosa avrei fatto. Anzi. No. Neanche. Non avevo ancora realizzato la cosa a dire il vero. Dopo pochi giorni ho scoperto di avere un tumore. Non si può operare. Ovviamente, nel mio stato, non posso fare grandi terapie. Se avessi abortito non sarei arrivata comunque a vivere tre anni, così, se va bene, arrivo a due.

Si accarezzò la pancia.

– Oggi l’ho trattato proprio male, povero piccolo. Ma sarei stata una splendida madre.

– Non so cosa dire. Scusa.

– Te ne sono grata. Sono stanca di qualsiasi parola. Me le sono già dette tutte. Non si può dire nulla in certi casi. Così ho preso una decisione. Decisione che sono sempre sul punto di cambiare ma che alla fine mi sembra la migliore.

Si girò a guardarlo.

– Ora te la dico, ma tu non la commenterai. E’ una mia scelta.

Il ragazzo annuì.

– Nessuno saprà mai di questo bambino. Non voglio che viva con me neanche un giorno. Non voglio che cresca con la sua mamma e, dopo un anno di vita, che gli venga portata via. Non voglio che si affezioni a me per dovermi subito perdere. Non voglio che abbia in un angolo del suo inconscio il mio viso da rimpiangere. Non voglio che qualcuno gli parli di me e così possa avere un fantasma che pesa sulla sua vita dall’inizio. Non voglio che i miei genitori lo nutrano col disprezzo che provano verso di me. Voglio che sia libero. Lo porterò in un orfanotrofio, qui in città. Lo abbandonerò sulla soglia, come nei vecchi film. Con una lettera dove dirò solo di prendersi cura di lui e di amarlo perchè io non posso. Nessuna spiegazione. E finchè sarò viva ci passerò davanti tutti i giorni. E lo vedrò da una finestra, in un giardino, su una panchina. E quando me ne andrò lui non lo saprà. E se dovrà odiare, odierà una persona, non la vita. Contro la vita non puoi farci nulla.

Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulle labbra.

– Ora devi andare. Hai promesso. Questa è l’ultima notte di vita che mi sono concessa.

Mario scese del letto e cominciò a vestirsi, con infinita lentezza, scuotendo il capo.

Anche lei si alzò dal letto. Raccolse da terra l’accappatoio e se lo infilò.

Un indefinito dubbio di chiarore sembrava attraversare il cielo. Erano passate da poco le sei e mezza del mattino.

Il ragazzo si tolse un anello di metallo che aveva al dito e che raffigurava una specie di geroglifico egizio.

– Tieni – disse porgendoglielo – le vie del caso sono imprevedibili. Magari, tra una vita, lo ritroverò da qualche parte e sarà come se ti rincontrassi.

Laura lo infilò.

– Mi sta. Perfetto. Grazie.

Si salutarono sulla porta. Non conosco il tuo nome, le disse lui, ma non ti scorderò mai. Scusami per questo, le disse anche.

Tornata in camera si avvicinò alla finestra.

Lo vide allontanarsi, camminando lungo la sponda del fiume, per perdersi subito nascosto alla vista da un palazzo.

Si appoggiò al vetro e si abbandonò alle lacrime.

Il chiarore del giorno stava diventando evidente.

Quella notte, alla fine, era finita.

Socchiuse la finestra e si accese la sigaretta.

– E’ l’ultima Davide- disse sfiorando la pancia attraverso l’accappatoio – ti piace Davide?

Finito di fumare, gettò la sigaretta fuori dalla finestra, e andò alla scrivania.

Chiuse il libro di psicologia riponendolo su uno scaffale.

Prese un foglio e una penna, e cominciò a scrivere.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. Gianfranco Dell'Aglio

    Questo di Manuel Galdo è davvero un bel libro, caratterizzato da un scrittura semplice, molto chiara e scorrevole oltre che da una trama che riesce a tenere incollato il lettore, pagina dopo pagina, fino all’epilogo… per nulla scontato.
    Gli eventi cruciali, che scandiscono la storia di questi ragazzini, provocano ogni volta una vera e propria scossa al lettore.
    Leggendolo mi sono tornate alla mente le atmosfere mistery/fantasy dei libri di Carlos Ruiz Zafón, che ho letto anni fa e che ho molto apprezzato, pur trattandosi di un altro genere.
    È una storia che riesce ad emozionare, lasciandoti addosso, una volta terminato il libro, una piacevole malinconia.
    Non è semplice riuscirci… ma l’autore è stato in grado di farlo pienamente.
    Quindi consigliatissimo, da leggere e far conoscere per permetterne la pubblicazione.

  2. (proprietario verificato)

    Quando ho iniziato a leggere questa storia, credevo di essere di fronte ad un racconto di avventura, forse interessante, magari avvincente, ma pur sempre un racconto. Ed invece mi sono ritrovato immerso sempre più in un’atmosfera inaspettata, che mi ha ricordato quella di ‘Stand by me’ (il film tratto dal racconto di Stephen King), in cui la parte adolescente dello spettatore/lettore viene risvegliata dal suo torpore e si sente coinvolta nella trama insieme ai protagonisti, convinta di comprenderne lei sola le motivazioni ed il motore delle scelte. Salvo poi a scoprire, all’ultima pagina dell’ultimo capitolo, che ci vuole una gran parte dell’essere adulto per comprendere veramente il senso di tutto.
    Mi è piaciuto lo stile, volutamente essenziale e sempre diretto, che permette una lettura fluida e snella, e che di contro non ti dà il tempo di capire quale storia si stia intrecciando intorno a te. Solo all’improvviso ti rendi conto di una trama che ha avuto davvero inizio chissà quando nelle pagine precedenti, e che ti ha cullato senza che te ne accorgessi con il suo filo conduttore, costante e mai scontato. Allora non resta che arrivare subito all’altro capo del filo, all’ultima pagina dell’ultimo capitolo, per mettere insieme tutti i pezzi, con la fantasia dell’adolescente e la saggezza dell’adulto, e scoprire qual è la verità.
    Scoprire di aver letto davvero un bel libro.

  3. Laura Gagino

    (proprietario verificato)

    Una storia davvero brillante e avvincente, ho fatto fatica a staccarmene e mi sono mancati i personaggi una volta terminata la lettura. Scritto bene, con suggestioni quasi poetiche. Spero sinceramente che questo progetto possa vedere la luce, perché è un libro che merita di essere pubblicato.

  4. Matteo Badino

    (proprietario verificato)

    Una scrittura semplice asservita alla narrazione di una storia complessa, densa di sentimenti e non priva di svolte. Personaggi sinceri, dialoghi brillanti, una discreta dose di avventure e un movimento inesorabile della trama da un segno più ad un segno meno, controbilanciato dal movimento inverso della dimensione del protagonista. Una riflessione potente sulla natura e sulle fragilità dell’uomo, sulla fantasia come salvezza del fanciullo, che diviene peccato capitale per l’adulto.
    Manuel Galdo, nato a Milano, il giardinaggio…. tutto giusto, ma ti sei dimenticato di dire qualcosa: chi è davvero Manuel Galdo? Conosco la risposta. Manuel Galdo è una delle persone più straordinarie che, se ne avrete la sfacciata fortuna, incontrerete. E non lo incontrerete in chiesa o in banca, in un modo usuale, da gente normale. Sarà tutto strano, e magico, fin da principio.
    Un’incredibile intelligenza divergente in un anima immensa, una sequela di dissonanze protette da una mente libera, uno spirito traboccante di grandi sentimenti per cose piccole agli occhi della gente. Per me un amico, spesso un riferimento, talora un rifugio, sempre un fratello.

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Manuel Galdo
Sono Manuel, nato a metà anni '70 a Milano, ho vissuto in giro per l'Italia e all'estero durante l'Erasmus in Spagna, per tornare a vivere a Milano, per lavoro.
Maturità Classica e Laurea in Giurisprudenza, a Genova, esercito ora come avvocato presso il mio studio legale.
Varie le passioni, leggere e scrivere, disegnare, il mare e il giardinaggio, i fumetti e i viaggi, improvvisazione teatrale e... molta pigrizia che le ostacola.
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