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Il Club Münchhausen

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Ospiti dell’orfanotrofio La Sacra Famiglia, Davide e Luca sono inseparabili. A quindici anni decidono di fondare il Club Münchhausen, un club esclusivo che ha lo scopo di far volare la loro fantasia: una volta individuato un soggetto interessante, iniziano a immaginare la sua vita, costruendovi intorno la storia perfetta, in grado di rapire ogni lettore. Ma quando decidono di mettere alla prova Veronica, per capire se è all’altezza del loro Club, tutto prende una piega inaspettata. Per trovare una storia degna della sua ammissione, la ragazza incontrerà un tipo enigmatico vestito come un dandy di fine Ottocento, che sembra avere la passione per la demonologia e che lei soprannomina Dickens. Sarà solo il primo di una serie di strani avvenimenti che metteranno Davide di fronte a una realtà che non aveva mai preso nemmeno in considerazione…

PROLOGO

Il tempo cura tutte le ferite, ma tutto ciò che fa è sostituire al dolore la nostalgia.

Ho ucciso la ragazza che amavo.
Non l’ho fatto per amore, per dovere, per necessità.
Non ho queste scusanti.
Neanche il fatto che sia stata lei a chiederlo rende meno terribile ciò che ho fatto. Perché lei, se è corretto parlare di lei, lo ha chiesto per amore.

No, è stata comunque una scelta. Mia.
Ho ucciso la ragazza che amavo. Dovevo farlo. Rimpianti? Quelli che ogni scelta porta con sé.
Lo rifarei?
Non so rispondere, oggi.
Posso solo raccontare, e che ognuno giudichi da sé.

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PARTE PRIMA 

1. IL FAGGIO 

La Sacra Famiglia era casa mia.

A dispetto di ciò che il nome potrebbe far supporre, era un’istituzione laica, un orfanotrofio. Vivevamo e studiavamo lì.

Il signor De Bortoli ne era il direttore, nonché professore di italiano, ma era anche nostro padre, mio e dei compagni che negli anni hanno vissuto e frequentato la Famiglia.

Alcuni dei ragazzi accolti nel centro non l’hanno mai lasciata, mentre altri ci sono tornati, come amava raccontare il direttore all’inaugurazione di ogni anno scolastico.

Il Giulivo, per esempio, all’interno dell’istituto è stato bambino, ragazzo, uomo, ora era il giardiniere e tuttofare.

Sempre sorridente, sempre con la terra sotto le unghie, sempre profumato di pioggia e fatica, sempre con una caramella in tasca da offrirci, sempre di fretta, sempre pronto a raccontarci di come tutto sia rimasto uguale all’interno, come quando ci era arrivato lui a cinque anni, portato da una zia francese alla morte di entrambi i genitori.

Il professor De Albertis, invece, c’è stato solo da bambino, è cresciuto nella famiglia adottiva, si è laureato, sposato e vi è tornato come insegnante di filosofia, anche se non aveva nulla del filosofo e sembrava più un ragioniere.

Con distaccata e asettica minuziosità, esponeva il pensiero dell’umanità, riuscendo a far stare ogni concetto nelle caselle di un inutile schema; a sentir lui, si sarebbe creduto che la filosofia altro non fosse che una teoria di asserzioni da dizionario che attraversava in linea retta la storia, senza che l’uomo avesse interferenza alcuna.

Durante la lezione, che passava di spalle alla classe a incasellare col gesso sulla lavagna le sue rassicuranti definizioni, ogni tanto si fermava esausto, si sedeva alla cattedra e ci guardava.

Nei suoi occhi si leggeva lo sconforto di un uomo consapevole di non essere capito. Mai, credo, lo sfiorò l’idea che il problema fosse lui e non noi. Guardava sconfitto la nostra ignoranza, non riuscendo a vedere il riflesso della propria.

Quando iniziai la scuola, nella mia classe eravamo in diciannove. Non che proprio lo ricordi, ma spesso sentivo snocciolare quei numeri.

In terza media eravamo rimasti in otto.

Non c’era anno che le classi, e più in generale la popolazione della Famiglia, non si modificasse, nonostante la politica dell’istituto fosse tesa a favorire che l’alunno, quand’anche fosse stato adottato durante l’anno accademico in corso, lo terminasse nella scuola interna, cosa che avveniva comunque di rado. O la famiglia adottiva abitava in un’altra città, se non in un’altra nazione o, comunque, si trattava di famiglie generalmente altolocate che non vedevano di buon occhio la permanenza del proprio nuovo “figlio” presso l’orfanotrofio.

Vi erano poi i nuovi arrivi, sebbene la preferenza andasse ai bambini più piccoli, esistendo altre strutture – per lo più ecclesiastiche – per l’aiuto ai ragazzi più grandi. Nonostante ciò, capitava che qualcuno entrasse nell’istituto durante l’anno.

La giornata iniziava con la sveglia che suonava alle sette, poi tra le sette e mezza e le otto veniva servita in refettorio la colazione.

L’istituto accoglieva in media una settantina di orfani che la mattina facevano risuonare posate e tazze insieme a risa e grida. Se qualcuno tra i più piccoli piangeva, a seconda del caso, veniva preso in giro o confortato da qualche compagno sino all’arrivo di un adulto, generalmente laico a parte alcune suore che prestavano servizio dal vicino convento.

Nel refettorio, seppur non vi fosse una regola scritta, ci disponevamo per età: dai più piccoli, seduti vicino ai tavoli degli adulti che vivevano nell’istituto, via via ai più grandi. La mia crescita, si può dire, è stata infatti scandita dal posto a tavola occupato in refettorio.

Raggiunta la maggiore età, si doveva abbandonare la Famiglia. La legge, infatti, non consentiva a un “adulto” di restare in orfanotrofio.

Quando si poteva, quindi, si assumeva il ragazzo come un normale lavoratore che prestava servizio in cambio di vitto, alloggio e qualche soldo. I posti disponibili non erano però molti, così si cercava tramite amici, amici di amici o vecchi residenti di procurare qualche lavoro all’esterno e una stanza a poco prezzo.

Finita la colazione, si passava dal bagno e quindi in camera a posare l’occorrente per la toeletta, per poi andare in aula.

Sino all’una meno dieci si tenevano lezioni da cinquanta minuti ciascuna, con un intervallo di quindici minuti a metà mattina. Poi nuovo rito al refettorio, che aveva stranamente sempre lo stesso odore di “refettorio”, qualunque fosse il pasto servito: un indefinito aroma umido di grano cotto e fagioli.

Chi aveva tra i quattordici e i diciassette anni, nel pomeriggio tra le due e un quarto e le cinque e un quarto faceva attività tecnica, per imparare un mestiere.

Io scelsi il restauro.

Si era poi liberi sino alle sette e mezza di sera, quando veniva servita la cena.

I più grandi potevano uscire, ma il rientro era previsto al massimo per le diciotto e trenta d’inverno, un’ora dopo sul finire della primavera, quando il sole concedeva più ore di luce.

2023-06-15

Aggiornamento

A una ventina di giorni dalla fine, una ventina di copie mancanti all'obiettivo.
Dopo un buon avvio, un lento rallentamento che mi faceva intravvedere nuvole buie all'orizzonte e, invece, da qualche giorno uno sprint inaspettato.
So che sono poco "social" e che la cosa è dovuta a quanti mi hanno seguito sin dall'inizio e che recentemente si sono rimboccati le maniche col passaparola "vecchio stile", e mi hanno donato un entusiasmo e un impegno che non immaginavo.
Grazie. Davvero.
Ciò che era iniziato come una personale avventura, ha coinvolto molti ed è diventata un'avventura condivisa!
Soprattutto, confesso, ormai sento un dovere morale verso Davide, Luca e Vera... non posso pensare, a questo punto, di non vederli "nascere" ed andare per il mondo (...come fogli di carta... cit.) a vivere le proprie avventure nei cuori di quanti leggeranno: mi sentirei colpevole verso di loro, così...entusiasti di vita!
Grazie.
Manca poco, speriamo di raggiungere, insieme, l'obiettivo!

Commenti

  1. Catto Chiara

    Sono rimasta davvero molto colpita nel leggere questo libro, dallo stilo semplice e scorrevole, ma allo stesso tempo elaborato e ricercato, soprattutto nella descrizione di dettagli rilevanti che si susseguono capitolo dopo capitolo, suscitando un grande interesse nel lettore. Leggere questo libro per me è stato come intraprendere un viaggio interiore, toccando temi esistenziali e imprescindibili come l’ amicizia, l’ amore e la paura dell’abbandono, ponendo domande essenziali sul nostro passato che inevitabilmente ci appartiene. I protagonisti ti entrano dentro in modo repentino, con le loro svariate emozioni, che a tratti sembrano quasi tangibili, in particolar modo quelle del protagonista Davide. Il tutto è calibrato perfettamente da una narrazione che mescola continuamente sogno e realtà, fantasia e vita vera, fino ad arrivare appunto all’epilogo in una sorta di quiete. Complimenti a Manuel Galdo e alla bontà di questo progetto davvero meritevole!

  2. Gianfranco Dell'Aglio

    Questo di Manuel Galdo è davvero un bel libro, caratterizzato da un scrittura semplice, molto chiara e scorrevole oltre che da una trama che riesce a tenere incollato il lettore, pagina dopo pagina, fino all’epilogo… per nulla scontato.
    Gli eventi cruciali, che scandiscono la storia di questi ragazzini, provocano ogni volta una vera e propria scossa al lettore.
    Leggendolo mi sono tornate alla mente le atmosfere mistery/fantasy dei libri di Carlos Ruiz Zafón, che ho letto anni fa e che ho molto apprezzato, pur trattandosi di un altro genere.
    È una storia che riesce ad emozionare, lasciandoti addosso, una volta terminato il libro, una piacevole malinconia.
    Non è semplice riuscirci… ma l’autore è stato in grado di farlo pienamente.
    Quindi consigliatissimo, da leggere e far conoscere per permetterne la pubblicazione.

  3. (proprietario verificato)

    Quando ho iniziato a leggere questa storia, credevo di essere di fronte ad un racconto di avventura, forse interessante, magari avvincente, ma pur sempre un racconto. Ed invece mi sono ritrovato immerso sempre più in un’atmosfera inaspettata, che mi ha ricordato quella di ‘Stand by me’ (il film tratto dal racconto di Stephen King), in cui la parte adolescente dello spettatore/lettore viene risvegliata dal suo torpore e si sente coinvolta nella trama insieme ai protagonisti, convinta di comprenderne lei sola le motivazioni ed il motore delle scelte. Salvo poi a scoprire, all’ultima pagina dell’ultimo capitolo, che ci vuole una gran parte dell’essere adulto per comprendere veramente il senso di tutto.
    Mi è piaciuto lo stile, volutamente essenziale e sempre diretto, che permette una lettura fluida e snella, e che di contro non ti dà il tempo di capire quale storia si stia intrecciando intorno a te. Solo all’improvviso ti rendi conto di una trama che ha avuto davvero inizio chissà quando nelle pagine precedenti, e che ti ha cullato senza che te ne accorgessi con il suo filo conduttore, costante e mai scontato. Allora non resta che arrivare subito all’altro capo del filo, all’ultima pagina dell’ultimo capitolo, per mettere insieme tutti i pezzi, con la fantasia dell’adolescente e la saggezza dell’adulto, e scoprire qual è la verità.
    Scoprire di aver letto davvero un bel libro.

  4. Laura Gagino

    (proprietario verificato)

    Una storia davvero brillante e avvincente, ho fatto fatica a staccarmene e mi sono mancati i personaggi una volta terminata la lettura. Scritto bene, con suggestioni quasi poetiche. Spero sinceramente che questo progetto possa vedere la luce, perché è un libro che merita di essere pubblicato.

  5. Matteo Badino

    (proprietario verificato)

    Una scrittura semplice asservita alla narrazione di una storia complessa, densa di sentimenti e non priva di svolte. Personaggi sinceri, dialoghi brillanti, una discreta dose di avventure e un movimento inesorabile della trama da un segno più ad un segno meno, controbilanciato dal movimento inverso della dimensione del protagonista. Una riflessione potente sulla natura e sulle fragilità dell’uomo, sulla fantasia come salvezza del fanciullo, che diviene peccato capitale per l’adulto.
    Manuel Galdo, nato a Milano, il giardinaggio…. tutto giusto, ma ti sei dimenticato di dire qualcosa: chi è davvero Manuel Galdo? Conosco la risposta. Manuel Galdo è una delle persone più straordinarie che, se ne avrete la sfacciata fortuna, incontrerete. E non lo incontrerete in chiesa o in banca, in un modo usuale, da gente normale. Sarà tutto strano, e magico, fin da principio.
    Un’incredibile intelligenza divergente in un anima immensa, una sequela di dissonanze protette da una mente libera, uno spirito traboccante di grandi sentimenti per cose piccole agli occhi della gente. Per me un amico, spesso un riferimento, talora un rifugio, sempre un fratello.

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Manuel Galdo
nato a Milano nel 1976, dopo la maturità classica conseguita all’Istituto Don Bosco di Alassio si laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Genova. Avvocato cassazionista esperto in diritto del lavoro e in diritto penale, esercita la professione presso il suo Studio Legale di Milano. Divide la sua vita tra quest’ultima e la sua amata Alassio, angolo di paradiso e di bellezza e soprattutto il luogo della famiglia e degli affetti più cari - a partire dalla sua adorata figlia Caterina - oltre che il posto ideale per mettere nero su bianco storie di avventura e di fantasia.
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