Capitolo 1
Helena aveva sempre pensato che la nebbia fosse qualcosa di estremamente affascinante, non solo perché accompagnava il suo malumore mattutino lungo tutto il percorso che la portava a scuola, ma anche perché le ricordava una soffice coperta che avvolgeva qualunque cosa. In effetti, non era il miglior paragone che si potesse fare visto che c’erano cinque gradi quella mattina, ma non era mai stata brava nell’elaborare i suoi pensieri. Come il suo solito lunedì mattina, era in ritardo; tuttavia, abitando fuori città, la maggior parte delle volte i professori chiudevano un occhio. Era il suo ultimo anno al liceo De Amicis di Cuneo. Si era iscritta all’indirizzo umanistico con un solo obiettivo: capire le persone e soprattutto capire se stessa, cosa che non era ancora riuscita a fare.
Arrivata a scuola, prima di aprire la porta, rimase un secondo fuori a guardare come diavolo era conciata: il vento le aveva spettinato completamente i lunghi capelli bruni, che di liscio ormai non avevano più nulla, mentre gli occhi azzurri le lacrimavano come al solito, perché erano troppo sensibili a qualsiasi cosa. C’era il sole, lacrimavano, faceva freddo, lacrimavano, si metteva un filo di mascara, lacrimavano. Erano condannati. Avrebbe dovuto girare tutto il tempo con gli occhiali da sole, ma sarebbe sembrata una di quelle ragazze snob, sicure di sé, a cui non frega niente di nessuno. Quanto avrebbe desiderato essere una ragazza del genere, invece era tutto il contrario. Si faceva mille problemi per qualsiasi cosa ed era fortemente bipolare: riusciva a essere felice e triste a distanza di cinque minuti, piangeva molto facilmente e, per finire in bellezza, se qualcuno la fissava con troppa intensità, iniziava ad arrossire pesantemente. Per quanto riguarda il vestire, secondo la madre, doveva essere più fine e femminile; lei, invece, alle sei del mattino prendeva le prime cose che vedeva nell’armadio e via. Quel giorno indossava i soliti jeans e un semplice maglioncino azzurro. Adorava quel colore perché si intonava perfettamente ai suoi occhi, l’unica parte del corpo per cui spesso riceveva dei complimenti.
Entrata in classe, si sedette al solito posto vicino a Federica che le fece un gran sorriso e poi, sedute davanti, si girarono Clara ed Elisa per salutarla. Le quattro ragazze erano amiche fin dall’asilo, ognuna sapeva qualsiasi piccolo segreto dell’altra, storie che mai uscirono dal loro quartetto. Helena stava bene con loro, non erano ragazze pretenziose, tutte molto semplici, anche se ognuna aveva una sua caratteristica particolare.
Federica era la più brava a scuola, portava sempre i capelli scuri e corti, ma aveva un viso talmente fine che riusciva a portarli benissimo. Sua mamma da bambina la chiamava sempre il suo piccolo cerbiatto, soprattutto per i suoi occhi a mandorla color cioccolato. Di tutte le ragazze, era sempre stata la più piccola del gruppo. Clara era la più gentile, anche troppo a volte. Potevi fare o dirle qualsiasi cosa e lei riusciva a ringraziarti pure se la criticavi. Aveva dei ricci rossi stupendi, che Helena le invidiava amaramente, e le lentiggini, che lei odiava, ma in realtà si intonavano perfettamente con gli occhi verdi che aveva ereditato dalla madre. Sua mamma era morta quando lei era molto piccola, così suo padre aveva tappezzato la casa con loro foto insieme per consentirle di avere anche solo un piccolo ricordo di lei. Difficilmente, però, parlavamo dell’argomento: era l’unica cosa che poteva toglierle quella fantastica positività che portava ogni giorno con sé. Infine, Elisa, nata in una famiglia di soli figli maschi, quattro, era cresciuta in mezzo a palloni, partite di calcio, basket e pallavolo. E indovinate un po’? Era perfettamente il contrario dei suoi fratelli. Lei, forse, era quella che tra tutte le ragazze del gruppo teneva di più al suo aspetto, amava la moda e passava ore intere a disegnare vestiti. Infatti, per il suo compleanno Helena aveva in mente di regalarle un corso annuale di cucito, cosicché potesse dar vita ai suoi modelli. A livello grafico era fantastica, ma per quanto riguardava il cucito non era il massimo. Una volta le si erano perfino incastrati i lunghi ricci castani nella macchina da cucire. Nonostante tutte queste differenze, loro erano molto unite.
Prima che potessero finire di parlare iniziò la prima lezione. Materia? Matematica. Helena, come la maggior parte degli adolescenti, la odiava, non che fosse una capra, però se una cosa la capiva, bene, sennò era capace di arrendersi come niente. La sua professoressa conosceva questo aspetto di lei e quindi, appena notava che si stava perdendo, la chiamava per prima alla lavagna, nonostante la mano perennemente alzata di Federica.
Le due ore di matematica erano passate in fretta ed era già il tempo del primo intervallo. Per fortuna il cielo si era aperto e la nebbia era scomparsa. La classe si spostò in cortile e il gruppo delle ragazze si diresse al sole, che a novembre dava una piacevole sensazione di calore.
In cortile, come sempre, c’era lui, Marco, un ragazzo della quinta C per cui Helena aveva una cotta dal suo primo giorno di liceo. Arrossiva sempre quando lo vedeva e se per caso lo incontrava in corridoio, non gli dava nemmeno il tempo di parlare: appena vedeva i suoi meravigliosi occhi verdi notarla, fuggiva. Era molto alto e giocava a basket nella squadra della scuola. Spesso le ragazze andavano a vedere le sue partite ed Helena non riusciva a staccare gli occhi da quei riccioli ribelli che gli cadevano sul viso.
«Forza, vai a parlare con lui!» I pensieri di Helena furono interrotti da Elisa che, come al solito, voleva spingerla a fare la prima mossa, ma lei non avrebbe mai osato, neanche con tutti gli incitamenti delle amiche.
Quel giorno tornarono in classe appena suonò la campanella, nonostante fossero solite rimanere qualche minuto in più fuori. Helena non era molto dell’umore: tra qualche giorno sarebbe stato il suo diciottesimo compleanno e quindi si aspettava già un super cenone con i parenti. La cosa non l’allettava per niente. Sua madre come sempre avrebbe raccontato la storia della sua nascita: era il 6 dicembre 1996 quando, alle dieci e mezzo di sera, cominciò ad avere le doglie. La portarono subito in ospedale e, dopo solo un’ora di dolore, Helena nacque. Ma la cosa più strana fu che, dopo la sua nascita, fuori cominciò a nevicare come mai prima d’ora. Fu uno degli inverni più freddi mai visti. Helena, quindi, spesso pensava di aver portato sfortuna sin dalla nascita. L’unica cosa positiva della maggiore età sarà prendere la patente, pensava.
Le ore successive di italiano e storia passarono molto velocemente e finalmente si fecero le due e gli alunni poterono tornare a casa. Fuori ad aspettarla, come sempre, c’era sua mamma che, non lavorando, poteva venirla a prendere. Visto che ci sarebbe voluta almeno un’ora di bus per tornare a casa a Festiona, il fatto che ci fosse sua madre era una fortuna.
Arrivata a casa, Helena salì in camera e trovò già il pranzo pronto sulla scrivania. Una delle cose che amava di più al mondo era mangiare da sola, sul letto, con un bel programma alla TV, proprio quello che fece quel giorno. Non che alle due ci fosse tanto da vedere in televisione, ma un po’ di relax prima di iniziare a studiare non era male. Trovò un programma carino chiamato The Originals, sulle vicende di una famiglia di vampiri originali nella città di New Orleans, abitata anche da licantropi e streghe. Insomma, il classico trio di mostri televisivi, ma non le dispiaceva. Tutto il mondo sovrannaturale l’aveva sempre affascinata fin da bambina. Non che ci credesse, ma erano molte le volte in cui avrebbe voluto avere qualche super potere per saltare scuola o rompere le scatole a qualcuno di fastidioso.
Pensando a quel mondo strano e misterioso si ricordò del sogno che da un po’ di mesi faceva ogni notte: è sola, in un prato immenso. Fa freddo, quando a un certo punto il sole spunta tra le nuvole e intorno a lei qualcosa comincia a crescere: alberi. Alberi verdi che salgono verso il cielo a una velocità impressionante e la feriscono con i rami. Poi, tutto si ferma. Nessun rumore. Comincia a sentire sempre più caldo e il terreno prende fuoco, gli alberi iniziano a bruciare e il terreno scotta. È come se percepisse il dolore di ogni cosa che si distrugge e così lei urla. Urla sempre più forte e un’onda, di cui non si capisce la provenienza, arriva e spazza via tutto. Si avvicina sempre di più a lei, ma quando Helena pensa che la trascinerà via affogandola, le passa attraverso e non le fa nulla. Comincia allora ad alzarsi in volo fino a che non riesce a vedere la distruzione che l’acqua ha provocato. Dopo di che, l’acqua svanisce ed Helena torna a terra dove, aprendo gli occhi, trova lo stesso immenso prato di prima, ancora verde e freddo.
In quel momento si svegliava sempre. Le sembrava strano il fatto che non si svegliasse prima, quando si sentiva davvero in pericolo, ma i meccanismi dei sogni sono complicati. Chissà cosa le passava per la testa. Sua madre e suo padre, sentendola urlare, erano spesso andati da lei preoccupati, ma quando gli raccontò per la prima volta del sogno, loro rimasero un attimo perplessi e le dissero solo che probabilmente era dovuto allo stress scolastico, al suo ultimo anno di liceo.
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Helena pensava che fosse possibile dato che, nell’ultimo periodo, tra verifiche e interrogazioni non aveva avuto più un giorno in cui rilassarsi completamente. Ecco perché la madre, quando questi sogni diventavano insostenibili, andava giù in cucina a prepararle una tisana con delle erbe che raccoglieva lei stessa. Helena non sapeva quali erbe fossero, però erano davvero efficaci: qualche sorso e si svegliava la mattina dopo ben riposata.
Sua madre era come lei: capelli lunghi, lisci e biondi, con due occhi azzurri che invece di trasmettere freddezza, esprimevano tutto l’amore del mondo. Il padre era tutto il contrario: molto autoritario, con capelli e occhi bruni, si era sempre preso cura della famiglia. Non era mai stato un tipo che dimostrava affetto a primo impatto, ma Helena aveva imparato a conoscerlo crescendo e sapeva che, in fondo alla sua severità, si nascondeva un animo gentile.
Da bambina passava la maggior parte del suo tempo con i nonni perché i genitori dovevano lavorare quasi tutto il giorno. Poi, all’inizio dell’adolescenza, sua madre smise di lavorare e passò sempre più tempo in sua compagnia. Non chiese mai perché avesse lasciato il suo lavoro, se fosse stata licenziata o altro, ma suppose che suo padre avesse avuto un aumento di stipendio nell’azienda per cui lavorava, visti i continui viaggi di lavoro.
Finito di guardare la TV, passò l’intero pomeriggio sui libri come era solita fare. Gli unici momenti in cui si lasciava un po’ andare erano nel fine settimana. Prese il libro di matematica per iniziare a fare qualche esercizio, anche se difficilmente riusciva ad arrivare al risultato. Cominciò a scrivere il testo e a svolgere il compito: una riga, due righe, tre righe ed ecco la soluzione. Aspetta un secondo, pensò… soluzione? Da quando?! Non era mai stata capace in cinque anni di risolvere un esercizio al primo tentativo e ora, tutto a un tratto, sì? Sarà stato un caso, pensò. Ne fece un altro e un altro ancora, arrivò all’ultimo, finiti. In dieci minuti aveva finito dieci esercizi. Le sembrava di sognare. Aveva ricevuto un’illuminazione divina? Non riusciva a spiegarselo. Corse di sotto per far vedere a sua madre cos’era riuscita a fare.
«Mamma, non ci crederai!» urlò mentre scendeva le scale.
Quando arrivò di sotto rimase basita: sua madre era alle prese con i rubinetti impazziti della cucina che non facevano altro che spruzzare acqua dovunque. Lei era fradicia e la cucina praticamente allagata.
«Oh mio Dio! Aspetta che ti aiuto!» disse a sua madre.
«No! Non ti avvicinare!» rispose lei.
Non fece in tempo a dire una parola che entrò suo padre di corsa dalla porta di ingresso, guardando sua moglie spaventato. Si avvicinò verso Helena e, prendendola da parte, le mise una mano sulla fronte. Quella fu l’ultima cosa che vide.
Si svegliò verso l’ora di cena terribilmente stordita e con un mal di testa allucinante. Aveva di nuovo fatto lo stesso sogno, anche se ora i dolori che aveva percepito le sembravano quasi veri. Si osservò le braccia, le mani e credette di vedere delle bruciature ma non fece in tempo a controllare che salì immediatamente sua madre.
«Tesoro! Menomale che stai bene. Eri così pallida. Per fortuna che tuo padre ti ha presa in tempo!»
«Pallida? Ma io ricordo che stavo benissimo.»
«Ma come? Sei svenuta così, su due piedi. Ci hai fatto spaventare. Ora come ti senti? Bevi questo, vedrai che ti tirerà un po’ su.»
Non riuscì a dire niente che sua madre subito le infilò la tazza con una bevanda bollente direttamente in bocca. Bevve tutto l’infuso che le aveva preparato e in effetti aveva ragione, il mal di testa sparì.
Helena posò la tazza e le chiese se andava tutto bene di sotto. Le raccontò nuovamente il sogno, di come tutto le sembrasse molto più reale, ma appena provò a mostrarle le braccia con le scottature, non c’era più nulla. La madre la rassicurò dicendo che probabilmente era dovuto alla tisana e alle troppe erbe che aveva messo, ma questo non placò granché i suoi pensieri. Si sentiva strana, diversa e poi le sembrava che i suoi genitori le stessero nascondendo qualcosa. Ma cosa? Forse, poteva riguardare una sorpresa per il suo compleanno. Sorrise al pensiero. Non era male come ipotesi. Si convinse che non era successo nulla e scese per la cena.
Durante il pasto raccontò a entrambi il grande successo con gli esercizi di matematica e loro le dissero che finalmente si stava impegnando con serietà a scuola e che quelli erano i risultati, ma non la convinsero molto. Non era tanto male in matematica ma nemmeno un genio! Pensò che fosse solo fortuna e mise da parte altri dubbi. Domani avrebbe raccontato tutto alle sue amiche. Chissà se ci crederanno, pensò.
Dopo cena sua madre non volle nemmeno un aiuto con i piatti e fu invece suo padre che, per la prima volta, la invitò a vedere un po’ di televisione con lui in salotto.
Forse hanno una crisi di mezza età, pensò Helena. Forse il fatto che tra qualche giorno compirò diciotto anni e sarò finalmente ritenuta matura dall’intera società li sconvolge. Gli mancherà il fatto di non avere più una bambina a cui badare, ma dovranno farsene una ragione perché questi atteggiamenti mi mettono a disagio.
Il padre le fece vedere un film su Italia uno, Kung fu Panda. Fatto molto strano dato che lui, padre serio per tutta la sua infanzia, sosteneva che a cinque anni lei dovesse vedere documentari e non cartoni, e ora le faceva vedere un film su un panda ninja? Le scappava troppo da ridere, ma quando gli chiese il motivo di questa visione lui rispose in tono serio: «Devi rilassarti un po’. Sai, l’esame, poi il caos di oggi. Ridiamoci un po’ su».
Parlare di ridere con un tono del genere non fece altro che crearle ulteriore disagio.
Dopo che ebbe finito di lavare i piatti, anche sua mamma li raggiunse, chiaramente con la solita tisana alle erbe che concilia il sonno, all’interno della sua bellissima collezione di tazzine giapponesi. Erano bellissime. Da piccola Helena non poteva nemmeno sfiorarle. Ora poteva prenderle in mano e osservarle per ore senza che nessuno le potesse dir nulla. Su ogni tazzina c’era un guerriero con bellissimi vestiti ampi e colorati, come se fossero mossi dal vento. I loro occhi sembravano brillare di forza, coraggio, come se avessero combattuto milioni di battaglie. La sua preferita era Kalhee: sua madre da bambina le raccontò che era la protettrice del suo popolo, un popolo cinese che viveva sulle rive del Fiume Giallo e che sconfisse ripetutamente il grande sovrano Gengis Khan, che lo voleva ridurre in schiavitù. La cercò anche su Internet una volta, ma non trovò nulla riguardo alla sua storia o a quelle dei vari guerrieri raffigurati. Suppose, quindi, che sua madre si fosse inventata tutto, tanto per raccontarle una favola. Bevve l’ultimo sorso di quella bevanda calda e profumata. Come pensava, sentì subito il sonno assalirla e così diede la buonanotte ai suoi genitori e andò a dormire.
Capitolo 2
L’indomani Helena si alzò rinvigorita. Non aveva avuto nessun incubo e quindi si svegliò piuttosto positiva. Andò in bagno e guardandosi allo specchio non notò più le solite occhiaie da nottate insonni, anzi si sentiva anche più carina del solito. Gli occhi le sembravano leggermente più azzurri e i capelli, che di solito erano simili a un mucchio di paglia messa lì a caso, quel giorno le cadevano dritti e lucenti sulle spalle. Si chiese se nelle tisane di sua madre ci fosse qualche erba che rendesse più belli, ma a pensarci bene le sembrò una grande stupidaggine. Mise un filo di mascara tanto per approfittare di quella bellezza improvvisa e scese di sotto a fare colazione. Anche sua madre notò il cambiamento e, dopo averle detto che aveva dormito tutta la notte e che non aveva avuto incubi, a Helena sembrò più serena. Disse che era radiosa e che l’avrebbe portata a scuola perché non aveva molto da fare quella mattina. Suo papà doveva essere uscito presto, quindi non ebbe il tempo di salutarlo.
Dopo aver chiuso a chiave la porta di casa, sua madre si diresse verso il garage esterno per prendere la macchina. Helena l’aspettò fuori dal cancello del giardino. La notte aveva piovuto e riusciva a sentire il profumo di rugiada come se fosse sulla sua pelle. Le piaceva quell’aria fresca di prima mattina che accompagnava l’avanzare del sole. La rugiada faceva brillare le foglioline degli alberi, sembravano tante piccole stelle. Sua madre arrivò con l’auto e lei salì in macchina. Passarono l’intero viaggio a parlare di quegli strani cambiamenti di cui si era accorta e di cui, anche se faceva finta di nulla, era consapevole anche sua madre. Lei disse semplicemente che stava crescendo, non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Inoltre, forse essendo maturato il suo modo di pensare, senza che lei se ne stesse accorgendo, anche il suo modo di vedere se stessa e il mondo che la circondava poteva essere cambiato.
Le parole della madre a Helena non sembravano del tutto sbagliate. Dopotutto, la crescita comportava forti cambiamenti. Forse in prima persona non si notavano, ma gli altri se ne sarebbero accorti? A scuola avrebbe chiesto alle ragazze se vedessero qualcosa di diverso in lei, tanto per essere sicura che la maggiore età non la stesse portando alla demenza.
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