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Il cuore guasto

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Sara vuole essere madre. Vuole creare vita. Il suo più grande desiderio, però, viene ostacolato da una malattia che la porterà quasi ad abbandonare il suo progetto.
Attraverso un racconto che si mescola tra passato e presente, Sara ripercorre la sua infanzia, le sue gioie e i suoi dolori, in una storia a cui fanno da sfondo donne forti, come la “nonna bis”, e donne tormentate, come sua madre, che ha amato e odiato per tutta la vita, ma che sarà il motivo che la spingerà a riscattarsi, a ricercare quella maternità tanto odiata da una, quanto agognata dall’altra.
È una storia di perdita e di rivincita, in cui Sara dovrà rinunciare al suo amore più grande per sposarne uno più “tiepido”, senza mai però rinunciare all’ambizione di diventare madre.

Si fanno cose, da piccoli, che si ricordano per sempre. Si sentono odori che non vanno più via e poi, quando sei cresciuto, un giorno, così, all’improvviso, ti ritornano addosso e rimangono lì, identici a trent’anni prima. Indelebili più di un tatuaggio sulla pelle. Da piccoli, si fanno cose anche se annoiano, ripugnano, fanno rabbia o paura.

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E adesso, sopra questa barella che tra poco mi porterà in sala operatoria, ho paura. Forse è per questo che tutto il mare di dettagli mi scorre davanti. Forse l’odore acre e acetato che respiro in questa anticamera fredda mi rimanda là. Dove tutto era totalmente differente.

Da piccola andavo spesso a trovare la mia bisnonna. Era vecchissima. Aveva un dente solo, io la chiamavo la “nonna del dente”. Leccava tutto il giorno la crosta del groviera. Il groviera che aveva nel frigo era il migliore del mondo. È morta che avevo dieci anni. Me la ricordo perfettamente.

Ero uno scricciolo di bambina, nervosa, con qualche tic e mania strana. Ma il giorno della visita alla nonna bis ero felice. Mettevo i pantaloni e gli stivali di gomma; abitava in campagna, allora potevo andare con lei nel pollaio a raccogliere le uova o a vedere le galline che covavano, aspettando di diventare mamme, chiocce. E lei era una grande chioccia. Una leonessa, di quelle che difendono i propri cuccioli a costo della vita. Non come mia madre. Mia madre, fosse stata nel regno animale, sarebbe stata una di quelle specie che prima li mette al mondo e poi se li sbrana, i piccoli. Perché sono troppi, ingombranti, invadenti.

La nonna bis mi prendeva la mano, piccola e bianca la mia, la stringeva nella sua, ossuta, ruvida e deformata dall’artrite, dalla guerra, dal freddo, dal cibo che non c’era stato. Io mi sentivo bene con quel guanto di pelle raspante e secco. Mi faceva saltare nel fango e io mi divertivo un sacco.

«Non dirlo a tua madre, che sennò mi dicono che son matta e mi portano nella casa dei vecchi da soli.»

Io non ci pensavo proprio a dirlo, e prima che mia nonna o mia madre venissero a riprendermi lavavo bene le galoches di plastica in modo che paressero linde e perfette come quando ero arrivata.

Per merenda entravamo in casa. Nella grande cucina un po’ spoglia, con il fornello di ferro nero, le pentole attaccate per aria e un frigo bianco con il lato del manico sbeccato. La nonna bis lo apriva e cercava con le sue mani lunghe e ossute un pacchetto piccolo e quasi sempre malamente accartocciato. Lo scartava, prendeva un coltello col manico di legno e tagliava un bel pezzetto di groviera. Me lo porgeva. «Mangia che questo fa sangue» diceva. Tutte le volte.

Io, tutte le volte aspettavo di vedere uscire il liquido rosso e caldo da qualche parte, ma non succedeva mai. E dopo qualche minuto di attesa, mi gustavo quel groviera saporito e la guardavo ruminare il pezzetto che anche lei si tagliava e che, con fatica, succhiava fino a scioglierlo completamente. Mi ricordo i movimenti storti delle sue labbra e di tutta la sua bocca sdentata.

Poi, qualche volta, prendeva un pentolino di rame, ci metteva l’acqua e lo poneva sul fuoco perché bollisse. Quando l’acqua cominciava a brontolare e a chiamare, ci gettava dentro alcune manciate di erbe strane che odoravano di incenso della chiesa e di pane bruciato. A volte sapevano di menta. Rimestava a lungo col cucchiaio di legno e io vedevo il fumo grigio salire sul soffitto. La nonna bis allora alzava la testa, chiudeva gli occhi, balbettava qualcosa a bassa voce. Sembrava una lagna con quei suoni rotti, corti, che si inceppavano. Una litania da vero capo tribù indiano. Ancora non sapevo che la mia bisnonna fosse una strega.

Abitava in una campagna che era verde d’estate, gialla in autunno e grigia o biancastra d’inverno. Però nella casa di campagna della nonna bis, il fango rosso dei residui velenosi di alluminio io non l’ho mai visto. Già. Il fango rosso dei residui tossici di cui parlava l’altro giorno qualcuno in TV. Chissà perché ci penso adesso, qui, sopra questa barella d’ospedale. Quasi fossero stati quei fanghi lontani a inquinare il mio corpo.

IL PRESENTE

Muoio di paura. La paura, che assomiglia tanto al dolore, che ti fa contorcere, irrigidire, ti cambia il colore del volto. Tutta la vita ho dovuto lottare contro la paura. Mostro con tante facce. Tutte diverse. E negli anni ho imparato che se la paura vuole starmi addosso, ci stia, ma non mi tocchi. Se vuole svegliarsi ogni mattina con me – come succede ora – lo faccia, ma mi stia sempre ad almeno trenta centimetri dal viso. Devo poterla guardare. Se vuole portarmi a letto la sera, va bene, ma non mi stia sopra, non mi schiacci. Deve accontentarsi di stare lì, sdraiata al mio fianco, come un bravo e onesto marito che non osa chiedere nulla perché sa che nulla potrebbe ottenere. Io con la paura ci ho dovuto fare i conti.

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ho letto il romanzo.
    Mi è piaciuto. Molto.
    La prima, immediata sensazione è stata quella di essere davanti a un’opera che ti ‘affascina’. Nel senso letterale: ti fascia, ti avvolge, ti tiene lì attaccato. E questo nonostante non vi sia una trama vera e propria. Il racconto altro non è che il richiamo di più storie al femminile, una saga matriarcale che percorre la famiglia della protagonista Sara, le sue ave. Il racconto sta nel continuo confronto tra il riCORdo (parola/azione che già rimanda al cuore, al titolo) di queste storie passate e il presente della protagonista, attraversata dalla malattia. In sostanza la trama del racconto finisce per identificarsi con il viaggio di conoscenza/consapevolezza che, attraverso il suo stato patologico da un lato e il ricordo delle ave dall’altro, Sara compie per giungere a trovare una sua collocazione in quello che, dal punto di vista femminile, matriarcale -se vogliamo-, rappresenta il motore stesso della vita: la successione, perpetua, madre-figlia-madre-figlia-madre-…
    Si parte con una donna in condizione di malattia. Il presente è una malattia, una malattia con tanto di diagnosi. La diagnosi è il presente, lo stato patologico della donna. Attenzione la malattia non è tanto il cancro, in sé. Il cancro è solo il paradigma della malattia della donna. La malattia è il suo malessere da “cuore guasto”, appunto. Da lì, dalla diagnosi, si comincia la retrospezione, che qui, rimanendo in metafora, costituisce l’anamnesi della donna. È giunta al “cuore guasto” attraverso quella storia, che non è solo la propria precedente vita biologica, ma è anche e soprattutto la propria vita come frutto di quella saga matriarcale. Il proprio “cuore guasto” è come se fosse il portato di tutti quei “cuori guasti” che hanno segnato le vite delle proprie ave. E dalla diagnosi si passa alla prognosi, al percorso di guarigione, guarigione che potrebbe essere identificata nell’appropriazione della idea di maternità, quale che ne sia la modalità di espressione, o, forse meglio ancora, nello svelamento della capacità di essere madre.
    Il viaggio è duplice, in due direzioni contrapposte: nel passato e nel presente-futuro.
    Nel romanzo il ritmo, tra queste due direzioni, è alternato. Non c’è prima tutto il passato e poi tutto il presente-futuro. Ogni passaggio del racconto è offerto al lettore in entrambe le due prospettive e il collegamento tra di esse è sempre evidente, persino testualmente dichiarato: il punto d’inizio dei paragrafi “presente” coincide con la fine dei paragrafi “passato”.
    E questo continuo prospettare contemporaneamente le due direzioni del viaggio, collegandole proprio testualmente, rivela a sua volta un significato ulteriore: il percorso di Sara verso l’appropriazione della idea di maternità avviene non solo e non tanto per mezzo delle sue personali esperienze di vita, quanto piuttosto attraverso l’appropriazione della consapevolezza del patrimonio storico genetico consolidatosi nelle precedenti generazioni femminili.
    Quanto alla guarigione, attenzione, non è concepita come punto di arrivo statico, è piuttosto un punto di partenza. Il finale è aperto. La consapevolezza di poter essere madre, forse anche di voler essere madre conduce a sua volta a un nuovo cammino, che è cammino aperto, per sue stesse natura e definizione dinamico. La condizione di Sara-madre è tutt’altro che di quiete, è nuova avventura, sempre all’insegna di quel meccanismo, ancestrale, madre-figlia-madre-figlia-madre-…
    La seconda percezione è che l’autrice ha una sua originalità, un suo stile, il suo scrivere non è anonimo.
    A me è parso di individuare due registri linguistici diversi. Uno per il passato, per il mondo ‘semplice’, caratterizzato da un lessico e da una sintassi naïf, con rimandi anche dialettali. Un altro per il presente, con sintassi e lessico canonici, grammaticalmente più ortodossi. In ogni caso ho avvertito uno stile scarno, asciutto, sobrio all’essenziale ogni qualvolta l’autrice ha voluto metterci davanti a realtà nude, crude, senza croste. E quella sobrietà arriva al cuore del lettore.
    C’è poi un uso oltremodo ricco delle immagini. Il racconto si dipana e acquista esteticamente anche e soprattutto grazie alle numerose similitudini e metafore, numerose ma sempre ben dosate, mai esagerate. Si rincorrono, si incastrano, divenendo corpo unico con l’elemento narrativo e arricchendolo.
    Questo, a mio parere, il segno che l’autrice dispone di un patrimonio tecnico ‘professionale’ non comune.

    Una cosa è senz’altro certa. Il Cuore guasto è un’opera nella quale vale sicuramente la pena immergersi. È piacevole. E interroga.
    Enrico Danzi

  2. (proprietario verificato)

    Alessandra, ho letto la bozza non editata. Bellissima, mi è piaciuto molto leggerti. Hai uno stile davvero coinvolgente, la ricerca della bella parola accompagna il lettore in un viaggio carico di emozioni. Hai reso i colori e i profumi con estrema raffinatezza e compostezza nella tua danza delicata tra passato e presente. Avrai successo, ne sono certa. Sicuramente le tue impronte in questa terra spesso arida non andranno perdute. Bravissima Alessandra!

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Alessandra Caccia
è nata e cresciuta a Legnano, dove tuttora risiede. Laureatasi in Lingue e Letterature moderne, dopo un master in Bocconi, abbraccia la carriera aziendale. Da sempre appassionata di letteratura, segue, per oltre sette anni, i corsi di scrittura creativa dell’editor Laura Lepri. Lì, nella “bottega” dello scrivere, impara a esser lettore prima che autore e scopre la sua voce, il suo ritmo. Dopo aver scritto molteplici racconti brevi, esordisce con Il cuore guasto.
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