E lei era una grande chioccia. Una leonessa, di quelle che difendono i propri cuccioli a costo della vita. Non come mia madre.
Mia madre, fosse stata nel regno animale, sarebbe stata una di quelle specie che prima li mette al mondo e poi se li sbrana, i piccoli. Perché sono troppi, ingombranti, invadenti.
La nonna bis mi prendeva la mano, piccola e bianca la mia, la stringeva nella sua, ossuta, ruvida e deformata dall’artrite, dalla guerra, dal freddo, dal cibo che non c’era stato. Io mi sentivo bene con quel guanto di pelle raspante e secca. Mi faceva saltare nel fango, io mi divertivo un sacco.
“Non dirlo a tua madre, che sennò mi dicono che son matta e mi portano nella casa dei vecchi da soli.”
Io non ci pensavo proprio di dirlo, e prima che mia nonna o mia madre venissero a riprendermi lavavo bene le caloches di plastica in modo che paressero linde e perfette come quando ero arrivata.
Per merenda entravamo in casa. Nella grande cucina un po’ spoglia, con il fornello di ferro nero, le pentole attaccate per aria e un frigo bianco con il lato del manico sbeccato.
La nonna bis lo apriva e cercava con le sue mani lunghe e ossute un pacchetto piccolo e quasi sempre malamente accartocciato. Lo apriva, prendeva un coltello col manico di legno e tagliava un bel pezzetto di groviera.
Me lo porgeva “Mangia che questo fa sangue” diceva. Tutte le volte.
Io, tutte le volte aspettavo di vedere uscire il liquido rosso e caldo da qualche parte, ma non succedeva mai.
E dopo qualche minuto di attesa, mi gustavo quel groviera saporito e la guardavo ruminare il pezzetto che anche lei si tagliava e che con fatica, succhiava fino a scioglierlo completamente. Mi ricordo i movimenti storti delle sue labbra e di tutta la sua bocca sdentata. Poi, qualche volta, prendeva un pentolino di rame, ci metteva l’acqua e lo poneva sul fuoco perché bollisse. Quando l’acqua cominciava a brontolare e a chiamare ci gettava dentro alcune manciate di erbe strane che odoravano di incenso della chiesa e di pane bruciato. A volte sapevano di menta. Rimestava a lungo col cucchiaio di legno e io vedevo il fumo grigio salire sul soffitto.
La nonna bis allora alzava la testa, chiudeva gli occhi, balbettava qualcosa a bassa voce. Sembrava una lagna con quei suoni rotti, corti, che si inceppavano. Una litania da vero capo tribù indiano.
Ancora non sapevo che la mia bisnonna fosse una strega. Abitava in una campagna che era verde d’estate, gialla in autunno e grigia o biancastra d’inverno.
Però nella casa di campagna della nonna bis il fango rosso dei residui velenosi di alluminio io non l’ ho mai visto.
Già. Il fango rosso dei residui tossici di cui parlava l’altro giorno qualcuno in tivù. Chissà perché ci penso adesso, qui, sopra questa barella d’ospedale. Quasi fossero stati quei fanghi lontani a inquinare il mio corpo.
Il presente
Muoio di paura. La paura, che assomiglia tanto al dolore. Ti fa contorcere, irrigidire, ti cambia il colore del volto. Tutta la vita ho dovuto lottare contro la paura. Mostro con tante facce. Tutte diverse.
E negli anni ho imparato che se la paura vuole starmi addosso, ci stia, ma non mi tocchi. Se vuole svegliarsi ogni mattina con me, come succede ora, lo faccia, ma mi stia sempre ad almeno trenta centimetri dal viso. Devo poterla guardare.
Se vuole portarmi a letto la sera, ok, ma non mi stia sopra, non mi schiacci. Deve accontentarsi di stare lì, sdraiata al mio fianco, come un bravo e onesto marito che non osa chiedere nulla perché sa che nulla potrebbe ottenere. Io con la paura ci ho dovuto fare i conti.
E anche se i conti con lei non tornano mai, almeno adesso, riesco a respirare quando lei si insinua con prepotenza sfacciata nei miei pensieri e tutto diventa enorme, e pesante e nero. Come adesso.
Non mi muovo. Aspetto che qualcuno venga a prendermi. Che qualcuno mi addormenti. Forse sotto anestesia potrò sognare. La scienza dice di no. Ma io ce la metterò tutta. Voglio perdermi da qualche parte, perché poi, quando mi sveglieranno e tornerò, non sarò più quella di prima. Devono togliermi un pezzo che non funziona più. Non solo. E’ addirittura impazzito.
E intacca tutte le altre parti buone della mia ancora giovane carcassa. E pensare che era il pezzo migliore che avevo. Era il covo della vita. Solo con un covo sano si può fare la vita. Ci ho provato tante volte, da sfinirmi. Ogni volta che restavo incinta: “Finalmente.” pensavo.
Ridevo, anzi no, mi ridevano gli occhi, le guance pallide, i denti sporgenti e grandi che attraversano il mio viso minuto e lungo. Viso furbo dice la mia amica Michi. Però gli occhiali sono sempre troppo grandi. Non riesco mai a trovarne un paio adatto alla mia faccia, sparisce sempre dietro alle montature che mi piacciono.
Poi, dopo qualche settimana di gravidanza, i dolori, i crampi, la corsa in ospedale. Finiva tutto lì, dentro un mucchietto di garze sterili.
Non mi perdevo d’animo io, continuavo e continuavo come le mondine di cui mi parlava la nonna bis.
Mi diceva che stavano abbassate, e lei con loro, per un tempo che non finiva mai, perché più erbacce strappavano, più riso riuscivano a fare e più pane portavano a casa.
E di pane c’era sempre bisogno. E la loro paga era sempre poca. E cantavano pure. A turno. Fatica nera e canto libero. Che ritmava gli sforzi, cadenzava i movimenti delle braccia, della schiena, delle cosce indolenzite.
Stavano ore immerse nell’acqua torbida della risaia. Una delle ragioni per cui la nonna bis aveva i piedi corti e raggrinziti.
Tutte quelle ore in ammollo glieli avevano fatti ritirare e arricciare, sai come quando stiri per sbaglio una calza di nylon? In meno di un secondo la calza sparisce raggrumandosi sulla lastra del ferro bollente.
La mia bisnonna, che era stata in ammollo tutto il giorno con la schiena piegata aveva avuto cinque figli in poco più di sette anni. In ammollo. Cinque figli da crescere e, a Dio piacendo, da sposare.
Io che sono stata giorni seduta su una poltrona ergonomica con la schiena dritta, senza l’ammollo, al caldo d’inverno e al fresco d’estate ho avuto cinque aborti. Certe coincidenze fanno più male di uno schiaffo in pieno volto.
E adesso devo mollare. Mi tolgono ogni possibilità. Svanisce il sogno. Il desiderio più grande e spaventoso, l’ambizione di essere una madre buona. Una madre diversa da quella che ho avuto io. Sembra impossibile, una contraddizione in termini. Odiare la maternità e volerla ad ogni costo. Non riuscire a smettere di pensarci. Non riuscire a farne a meno. Io che ho sempre odiato mia madre, non vedevo l’ora di esserlo, madre. Io che per tutta la vita avrei fatto a meno di lei. Visto che per lei non c’ero, non esistevo. Ero un intralcio.
E la contraddizione tra ciò che non volevo e ciò a cui aspiravo mi pare sia stata sempre l’essenza del mio esistere.
E adesso non ho più nemmeno il sogno. Non potrò più crederci.
La nonna bis diceva sempre che se a una cosa ci credi davvero, se la sogni, se la vuoi tanto, tantissimo, quella cosa accade. Mia madre invece diceva di non credere a niente ,perché tanto la vita era tutta un “bleff”.
Io non sapevo cosa volesse dire “bleff .” Sentivo solo il freddo rumore di quella stramba parola.
La nonna bis aveva certi poteri che non si potevano neanche nominare. Sapeva chi voleva arrivare e chi voleva andarsene. Sapeva dove finivano le cose perse e le persone che non si riuscivano più a trovare.
Quando era sparita la Lisa, che era piccola coi capelli ricci ricci e neri come l’inchiostro, lei, dopo aver litaniato davanti al suo miscuglio amaro nel pentolino di rame, aveva detto che era a casa del Nino “el matt .”
E la Lisa era davvero là. L’avevano trovata coi vestiti sporchi, seduta per terra, in silenzio, con una corda al collo, legata alla gamba del tavolo della cucina.
Il Nino l’aveva presa perché assomigliava al Negro, il cane riccio e nero che gli avevano portavo via. Il suo migliore amico. L’unico.
Il Nino era un ragazzone buono, che camminava sempre con la testa abbassata. Se lo salutavi rispondeva, ma non alzava mai lo sguardo. Stava così forse a causa di tutte le botte che aveva preso da suo padre che gli diceva “Non capisci niente quando ti parlo! Perché sei così scemo? Sei solo un povero scemo!”e un giorno gli aveva fatto sparire il cane.
Lui, disperato, lo aveva cercato, lo aveva trovato nei capelli ricci e neri della Lisa e se l’era ripreso.
La nonna bis era alta, magrissima e storta come la sua bocca sdentata. I capelli raccolti erano una scodellina in rilievo sbiadita e rotta appoggiata dietro la nuca.
Le forcine uscivano da tutte le parti e le vedevo brillare, ogni tanto, dentro la crocchia opaca, illuminate dal sole del pomeriggio.
Da giovane, mi raccontava, era bella. Coi capelli neri e lunghi sempre raccolti in una treccia che faceva girare dietro alla testa. Poi, col tempo, la treccia si era consumata insieme a lei. Io, infatti, me la ricordo con la scodellina sbeccata.
Sono quarantacinque chili di donna, sdraiata e spaventata. Quando mi sveglierò peserò anche meno. Devo tornare in ufficio tra una o due settimane.
Appena esco dall’ospedale voglio andare alla casa della nonna bis, o meglio a quello che resta della sua grande casa in campagna.
L’hanno lottizzata, qualche tempo fa. Era stata divisa tra i figli e poi loro, a loro volta, l’hanno data ad alcuni dei loro figli che alla fine l’hanno lottizzata e venduta.
Una porzione però è rimasta a una nostra cugina. Lei mi farà entrare di sicuro. Mi calma pensare a quella casa adesso. E’ strano, eppure sento che devo andare là per sentirmi a casa. Come se là si celasse l’origine di tutto.
Io non dovrò lottizzare niente. Non dovrò dividere nulla con nessuno.
Non avrò figli io. Che poi forse è meglio così. Tutti ‘sti figli, venuti al mondo quasi per caso. Allora perché mi sento vuota, inutile? Perché mi pare di non avere più voglia di combattere e di vincere contro il gigante cattivo ? Il consiglio della nonna bis con me non ha funzionato.
O sono io che forse, non ci ho creduto abbastanza. Io non sono una strega. Lei si che lo era. Stava sulla porta della vita, buttando dentro quelli che si affacciavano per entrare e buttando fuori quelli che volevano uscire, dalla vita.
E’ arrivato qualcuno. Spingono la barella. L’infermiere mi sorride in silenzio.
Spingono me e i pezzi dei miei ricordi in una sala fredda. Lotto contro il gelo coprendomi con tutto il calore della grande casa di campagna e della nonna magica.
Voglio addormentarmi con questi caldi dettagli in testa. Quando mi sveglierò, saranno le prime cose che torneranno alla mente.
Sono pronta. O no. No, non lo sono. La paura è più forte. Cerco di dominarla, di tenerla alla larga stringendo idealmente più che posso la mano forte e ossuta di Adelaide, la mia “nonna del dente.”
RITA SAVOINI (proprietario verificato)
Alessandra, ho letto la bozza non editata. Bellissima, mi è piaciuto molto leggerti. Hai uno stile davvero coinvolgente, la ricerca della bella parola accompagna il lettore in un viaggio carico di emozioni. Hai reso i colori e i profumi con estrema raffinatezza e compostezza nella tua danza delicata tra passato e presente. Avrai successo, ne sono certa. Sicuramente le tue impronte in questa terra spesso arida non andranno perdute. Bravissima Alessandra!