1. L’incontro
La voce del muezzin distorta dagli altoparlanti mi arrivò in lontananza. La luce dell’alba sul Bosforo la conoscevo bene, così non mi scomodai a osservarla di nuovo. Mi bastava l’aria dal vago sapore salmastro che giungeva dalla finestra aperta.
«Il mio vero nome è Mario… sono un militare. Un ufficiale del SISMI, dei Servizi segreti» dissi, rompendo il silenzio.
Percepii solo un lieve cambio del suo respiro. Era sveglia e mi aveva sentito. Non si mosse; restò voltata verso la finestra. Non aggiunsi altro e mi soffermai a guardarla. I suoi lunghi capelli neri erano sparsi sul cuscino e sulla sua schiena bianca. Il suo fresco profumo estivo si mescolava con il leggero sudore che le era rimasto sulla pelle.
Perché lo avevo detto? Non usavo mai il mio vero nome quando non era necessario. Perfino la mia famiglia non sapeva quale fosse il mio vero lavoro. Per chi mi conosceva ero Mario Dalmine, un colonnello dei carabinieri, distaccato al ministero degli Esteri al dipartimento immigrazione. Per tutti gli altri, soprattutto quando ero in missione all’estero per il Servizio, io ero Riccardo Schiavi, amministratore delegato di un’inesistente azienda di progettazione robotica. Non trovai subito la risposta a quella domanda. Forse non l’ho mai veramente cercata fino in fondo.
Restai per un attimo ancora a guardare la sua schiena. Il respiro era tornato regolare. Possibile che sapesse cosa fosse il SISMI? Sì, forse lo sapeva, ma la verità era che non le interessava nulla di cosa facessi e quale fosse il mio vero nome. Voleva solo essere lì, in quel letto, con quella finestra aperta e con quel vento che entrava a scombinare le esistenze.
L’avevo notata qualche sera prima, seduta al ristorante dell’hotel Göksel Sultan. Accompagnava suo marito, un manager di una multinazionale, alla convention annuale della sua azienda produttrice di sistemi aerospaziali. Una loro delegazione era da poco arrivata a Istanbul. Era il suo primo viaggio in Turchia. Quel giorno, dopo un tour tra le principali attrazioni di Sultanahmet, avevano deciso di defilarsi dalla noiosa cena internazionale organizzata nella grande sala del loro cinque stelle. Il caso li portò al mio hotel, insieme a un piccolo gruppo di colleghi.
Il Göksel Sultan era uno degli hotel che frequentavo a Istanbul. Nulla di sofisticato e sufficientemente economico, anche perché il ministero non era certo di manica larga con i rimborsi. Ian Fleming aveva contribuito a creare il mito degli agenti segreti con carte di credito illimitate e con i Vesper Martini sempre disponibili. Tuttavia, nella vita reale io dovevo fare i rimborsi spese ogni mese e la mia Miss Moneypenny era un burbero maresciallo dell’ufficio del personale che non ne lasciava passare una. L’hotel era frequentato soprattutto da turisti, cosa che mi semplificava la vita nel caso in cui intorno a me avessi avuto qualcuno che non era quello che cercava di sembrare. Malattia professionale la mia, ovviamente. Analizzo tutti quelli che vedo per capire se c’è una reale minaccia, oppure anche solo un potenziale pericolo. All’inizio della mia carriera, nelle prime missioni questo era uno stress incredibile. Poi con l’esperienza diventai come gli scanner degli aeroporti: uno sguardo di pochi secondi e via al successivo.
In realtà, il vero motivo per cui andavo al Göksel Sultan era la magnifica vista su Aya Sofia, che riempiva la finestra della stanza numero trentasei. Era quella che solitamente mi facevo riservare da Hakan, il concierge, un uomo minuto con i baffi sottili e i modi raffinati, acuto come una lince, nonché il mio informatore fidato in città.
Ero seduto al mio tavolo in attesa di una generosa porzione di imam bayildi, mentre compilavo il report giornaliero per il mio capo. Stavo seguendo un losco personaggio di una banda di trafficanti siriani. Tutti pensavano che il traffico fosse quello dell’oppio, ma noi sapevamo che quella non era la loro unica attività criminale. C’era qualcosa di decisamente più pericoloso. I servizi turchi ci avevano avvisato di aver intercettato delle comunicazioni tra esponenti di vertice di Al Qaida e il capo di questa banda. Quello che avrebbero cercato di fare era far arrivare dei lanciarazzi sulle coste siciliane. Io avevo l’incarico di validare le informazioni ricevute.
Restando concentrato sul computer, tenevo anche d’occhio cosa accadesse nella sala attraverso il grande specchio che avevo di fronte. L’angolazione dello specchio era tale da permettermi di vedere ogni movimento fino alla porta d’ingresso. Tuttavia, era necessaria una particolare attenzione per vedere me. Un punto di osservazione privilegiato e rilassante, anche se credo di non essermi mai rilassato veramente in missione. Pretendevo da me stesso di avere sempre tutto sotto controllo.
Così presi ad analizzare l’allegra comitiva: quattro italiani, due americane, un francese, due inglesi.
Continua a leggereSi sforzavano di parlare una lingua che fosse comprensibile a tutti. L’argomento principale era, fatto quasi scontato, il lamentarsi delle cose che non andavano sul lavoro. Il convivio non durò molto: dopo poco i due inglesi erano concentrati sulle loro birre; le due americane, che si rivelarono una coppia, si erano messe a parlare di sesso senza proferire quella parola; il francese era al telefono con qualcuno, nella sua lingua.
Dei quattro italiani, tre erano colleghi; uno di loro mi sembrò di averlo già incontrato una sera di un paio d’anni prima in un bar di Tel Aviv. Anche in quel caso avevo usato una convention aeronautica come copertura della mia missione. L’uomo era molto preparato nel suo campo: mi fece molte domande circa i miei progetti di robotica per l’automazione degli impianti di montaggio dei satelliti in camera bianca. Confidai che avesse dimenticato quell’incontro, dopo la consistente razione di arak che gli avevo fatto trangugiare, anche per nascondere che di robotica di certo lui ne sapesse molto di più di me. Quella volta sua moglie non c’era.
Hakan mi aveva portato personalmente il tè di fine cena, come gesto di cortesia. Nel farlo mi passò davanti coprendo parzialmente lo specchio. In quel frangente, che cambiava il contesto della scena che potevo osservare, mi accorsi che lei mi stava guardando.
Il telefono sul tavolo vibrò brevemente. Un laconico messaggio senza mittente diceva solo: call the garage. “Chiama l’officina”. Era uno dei tanti codici usati per nascondere le informazioni. Un po’ infantili, quasi romantici, molte volte inutili. Non saprei dire se li abbiamo copiati dai film sulle spie, oppure gli agenti segreti delle pellicole li hanno presi dal nostro bizzarro mondo.
L’officina sarebbe la sezione locale dei Servizi presso il consolato. Il punto alla fine della frase indicava una certa urgenza; quasi sempre era il capo sezione che aveva bisogno di parlare.
Alzai gli occhi dal telefono. Guardai prima Hakan e poi la comitiva; capì al volo che volevo muovermi senza essere notato. Non volevo rischiare che dall’altro tavolo potessero riconoscermi; avrei perso tempo con degli inutili convenevoli. In meno di un minuto, i commensali furono attorniati da quattro camerieri che riempirono il tavolo di narghilè. In un improbabile inglese misto al turco, cercarono di spiegare come usarli e quali fossero le differenze tra il tabacco Tabamel e quello Jurâk.
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corradino corradi (proprietario verificato)
Romanzo che ho letto tutto di un fiato! Trama avvincente e personaggi ben delineati ma mai scontati! Consiglio a tutti la lettura!
Mike Lanzetta
Ho apprezzato molto questo romanzo che mi ha tenuto incollato dalla prima all’ultima pagina. La trama si dipana magistralmente sull’idea del “nulla è come sembra” e crea un effetto avvincente, non solo per gli appassionati del genere. Consiglio vivamente la lettura a chiunque cerchi una storia ben scritta, con personaggi convincenti , capace di trasportare in luoghi lontani e misteriosi , dove si può restare intrappolati anche dopo l’ultima riga.