Un piastrino militare, ritrovato in un bosco in provincia di Cuneo, risveglia in Antonia Maria la curiosità verso la storia di suo nonno, Luigi Calivano. Un uomo che ha attraversato la guerra, la povertà e i sacrifici, lasciando dietro di sé profondi silenzi e un’eredità radicata nella terra.
“Il figlio della vite e dell’ulivo. Una storia di profondi silenzi” ripercorre le vicende di Luigi: dalla sopravvivenza nel conflitto mondiale al ritorno in Calabria, dove la forza della famiglia e il legame con la natura lo aiutarono a ricostruire una vita. La sua storia, silenziosa ma carica di significato, emerge grazie alla nipote, che scopre come ogni sacrificio e dolore possano tramandare un insegnamento.
Un romanzo biografico toccante che intreccia passato e presente, mostrando quanto sia importante custodire i ricordi e le radici che ci legano a chi siamo davvero.
Perché ho scritto questo libro?
Questo libro è nato dal desiderio di trasmettere un messaggio: dietro ogni silenzio si nasconde una storia. Spero di ispirare chiunque a riscoprire le proprie radici e a valorizzare i legami familiari.
ANTEPRIMA NON EDITATA
ƪ RADICI ƪ
Le ombre del tempo
Quanto tempo presente perdiamo cercando di rivivere il passato, anche se si tratta di un passato doloroso, che il più delle volte si desidera dimenticare. Ma si può dimenticare chi siamo stati? Dovremmo dimenticare anche noi stessi e chi siamo in questo momento perché senza quel trascorso, con ogni probabilità, saremmo diversi ed estranei a ciò che siamo oggi. Mi chiedo sempre cosa ne sarebbe stato di me se non avessi fatto alcune scelte, preso alcune decisioni, se anziché il cuore mi avesse trascinato la ragione o viceversa. Forse è la saggezza della vecchiaia che mi spinge a rifugiarmi in queste riflessioni ormai superate e insensate; sto percorrendo un percorso impervio dentro di me accompagnato da una nostalgia maledetta e da una pesante tristezza. Sento un peso sul cuore quando rifletto su ciò che è stato e a ciò che tra un po’ di tempo non potrà più essere.
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Quando si è giovani, ci si sente invincibili… Ogni errore può essere riparato, ogni esperienza può essere vissuta nuovamente. La vecchiaia invece non dà più alcuna possibilità: ogni lasciata è persa per sempre. La salute sembra mi stia tendendo una mano amica mentre io, d’altro canto, cerco di mantenere intatte le mie abitudini di sempre. La fatica della campagna in questo mi è utile, senza dubbio alcuno. Il mio corpo forse potrebbe reggere qualche anno ancora ma dentro… dentro mi sento troppo stanco per continuare a godere della luce del giorno e del buio della notte. Quando scrivo di me i miei occhi diventano tristi e umidi perché credo che mai io abbia, in verità, ricorso alla sincerità nel corso dello scorrere delle parole. Rivivere certi momenti è sempre stato troppo doloroso, quasi invalidante, eppure la vecchiaia, questo angelo e diavolo della vita, mi confina nell’angolo della confidenza e con i suoi duri colpi non mi concede di vivere nella menzogna emotiva nella quale ho vissuto fino a questo istante. Che sia arrivato il momento di raccontarmi la verità? Che sia arrivato il momento di tracciare tra queste pagine la linea della mia vita senza remore né timore? Io ci provo ma non è detto che ci riesca! Sicuramente sarà faticoso, estenuante a volte, ma il mio silenzio deve pur trovare sfogo in qualche modo, nonché occasione di riscatto.
Non ho detto molte parole nella mia vita, anzi ne ho detto troppo poche e non c’è peggior sentimento del rimorso. Si potesse tornare indietro, non prometterei certo di diventare un oratore ma mi servirei di parole più affettuose; mi piacerebbe intraprendere più discorsi, impegnati o meno; eviterei di scambiare con i miei figli solo poche e semplici frasi, povere di contenuto. Il silenzio molte volte non è un’arma vincente, non solo fa perdere la battaglia ma anche la guerra. Un meccanismo di autodifesa che invece di proteggere, uccide. Avrei preferito capirlo prima anziché all’età di 85 anni. Potessi avere una macchina del tempo, viaggerei tantissimo, visiterei ogni momento della mia vita impreziosendolo di significato senza mai stancarmi perché il tempo che sfugge è una condanna ma poter vivere ripercorrendo i ricordi è una ricchezza. Io ho trascorso la mia intera vita con la paura di imbattermi in immagini e sensazioni che ho sempre cercato di dimenticare e accantonare.
Ma ognuno di noi sa che tutto torna… Far finta che una cosa non esista non la rende realmente inesistente! C’è, è presente, sempre pronta a sbucare dal suo nascondiglio e a prendersi un pezzetto della nostra emotività per nutrirsi e continuare a vivere indisturbata come fosse un parassita. Vorrei cercare di ricominciare, di fermare il tempo per ritrovarmi e capire quale sia il mio posto in questo mondo in attesa della fine; so che dovrò rovistare tra i pensieri più profondi per cercare le giuste combinazioni di parole e frasi che possano spiegare perché esistono così tanti dubbi e poche certezze. Resistere ed esistere in fin dei conti non sono degli infiniti così diversi e vivere significa rassegnarsi a ridere di gioia e a piangere di dolore, lo so da sempre, e così come la luce, anche il buio – presto o tardi – si esaurisce. Per la gioia e il dolore vale lo stesso. Molte volte penso che la vita sia fatta di momenti che vanno via senza chiedere il permesso, altre volte penso che sia un discorso già scritto e che bisogna solo trovare il coraggio di leggere ogni parola fino alla fine ma, chi può dire quale delle due teorie sia vera? La verità è così complessa per quanto vorremmo in tutti i modi semplificarla.
“Il destino ride del piano degli uomini”, dice un proverbio, infatti facendoci caso non siamo mai realmente protagonisti del nostro tempo. Moriamo ogni giorno, molte volte, senza accorgercene eppure succede! Il dolore diventa compagno del tempo e nella vita sembra che non smetta mai di piovere, la vista si annebbia e si perde la capacità di apprezzare la vivacità dei colori. I debiti con il passato non si estinguono mai, anche se ci sono momenti in cui ci si sente inspiegabilmente leggeri, come se i problemi dell’esistenza venissero per un breve attimo segregati in una remota parte di sé stessi; gli attimi successivi invece vengono riempiti da un profondo senso di colpa dovuto proprio all’abilità, dimostrata durante i frangenti precedenti, di riuscire a godere della gioia immotivata e, proprio per questo, immeritata. Ci sono giorni in cui pensiamo che ci sarà un domani migliore, altri in cui invece lo speriamo e basta; ci sono giorni in cui sentiamo con ogni fibra del nostro corpo di essere saldamente attraccati al porto della vita, altri in cui invece pensiamo di non essere in nessun luogo, di essere dissolti nel nulla pur continuando a vivere. Così mi sono sentito quando, il 5 gennaio 1941, all’età di diciannove anni, passai dall’essere un giovane calzolaio che ancora sapeva ben poco della vita – e al quale l’idea di indossare la camicia nera, così come quella di essere un balilla oppure un giovane fascista, proprio non andava giù – che viveva con sua madre e sua sorella in un paesino di mille anime – Cerenzia – a un impaurito e inesperto soldato affidato, il 7 gennaio dello stesso anno a Catanzaro, al 207° Reggimento Fanteria “Taro” nella mansione di fuciliere.
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