Milano era avvolta in un grigio uniforme, lo stesso colore che sembrava avvolgere anche i miei pensieri. Seduta accanto alla finestra del mio appartamento al terzo piano, osservavo i tetti della città, bagnati dalla pioggia sottile e incessante. In lontananza, il Duomo si stagliava contro il cielo plumbeo, quasi a ricordarmi che ero qui, a chilometri di distanza da dove tutto era iniziato.
Milano, con il suo ritmo frenetico e i suoi tram che scivolavano rumorosi lungo i binari lucidi, era il mio presente. Ma il passato… quello apparteneva a un luogo diverso, un luogo fatto di luce e di mare. Catania.
Chiudo gli occhi e quasi riesco a sentire il profumo della salsedine, il calore del sole che accarezzava la pelle. Vedo la Piazza del Duomo con la sua imponente fontana dell’Elefante, le vie strette e vivaci, i mercati che brulicavano di voci e colori. È lì che l’ho incontrato. Lì che il mio cuore ha smesso di essere mio.
Eppure adesso sono qui, in questa città che sembra divorare tutto, anche i ricordi, tranne lui. Lui è l’unica cosa che Milano non può cancellare. Era il mio amore, il mio respiro, e ora è solo un’assenza che mi porto dentro, come una ferita che non si rimargina.
Mi lascio avvolgere dal silenzio della stanza, mentre la pioggia batte più forte sui vetri. Questa è la mia storia, o forse è la nostra. Ma per raccontarla devo tornare indietro, al mio ultimo anno di liceo a Catania, quando tutto ebbe inizio.
Capitolo 2: L’inizio
Al liceo mi sentivo sempre come un’ombra. Camminavo per i corridoi con lo sguardo basso, sperando di passare inosservata. Non ero brutta, ma c’era qualcosa in me che non riusciva a emergere, come un fiore che non trovava mai abbastanza sole per sbocciare. Avevo pochi amici, e il mio mondo si limitava ai libri, alla musica e ai miei pensieri.
Poi c’era lui. Il ricciolino con i capelli dorati e gli occhi nocciola. Quando passava, sembrava che la luce del sole lo seguisse, anche nei giorni più grigi. Era il tipo di ragazzo che non avrebbe mai notato una come me, eppure non potevo fare a meno di osservare ogni suo gesto, ogni sua risata. Era popolare, carismatico, e soprattutto, irraggiungibile.
Non avrei mai immaginato di trovarmi accanto a lui, quella sera. Era una festa a cui ero stata invitata quasi per caso, probabilmente più per pietà che per vera amicizia. La casa era enorme, una villa con un giardino che sembrava uscito da una rivista di design. La piscina al centro brillava sotto le luci soffuse, e intorno si aggiravano ragazzi e ragazze che sembravano appartenere a un mondo diverso dal mio.
Stavo cercando un angolo tranquillo, lontano dal frastuono della musica, quando accadde. Non so come, forse una spinta accidentale, forse la mia stessa goffaggine, ma in un attimo mi ritrovai nell’acqua gelida della piscina.
Il mondo intorno a me si fermò per un secondo, poi esplose in risate. Il suono mi trafisse come una lama. Emersi dall’acqua, con i capelli appiccicati al viso e i vestiti fradici, e tutto ciò che desideravo era scomparire.
Stavo ancora nell’acqua gelida, sentendo il peso degli sguardi su di me e le risate che sembravano rimbombare più forte del previsto. Cercavo di mantenere la calma, ma l’umiliazione mi bruciava più del freddo. Nessuno si avvicinò per aiutarmi, e lui, il ragazzo dai ricci dorati, rimase fermo con le mani in tasca, accennando appena un sorriso divertito per compiacere i suoi amici.
Stavo per uscire da sola, goffa e fradicia, quando una voce gentile mi raggiunse sopra il frastuono.
“Vieni, ti porto un asciugamano e dei vestiti asciutti.”
Mi girai e vidi Antonio, il padrone di casa. Era un ragazzo alto e magro, con occhi scuri e un sorriso timido che non sembrava appartenere a quel mondo di apparenze. Mi tese la mano, noncurante degli sguardi degli altri, e mi fece segno di seguirlo.
Attraversammo il giardino e rientrammo nella villa. Le risate alle mie spalle si affievolivano man mano che ci allontanavamo. Antonio mi condusse lungo un corridoio decorato con quadri e mobili eleganti, fino a una porta.
“Questa è la camera di mia madre. Puoi cambiarti qui,” disse, aprendo la porta e indicandomi un armadio. “Prendi quello che vuoi, tanto a lei non importa. Ti lascio un po’ di privacy.”
“Grazie,” mormorai, stringendomi nel tentativo di trattenere il freddo e la vergogna. Lui annuì e richiuse la porta alle sue spalle.
Rimasi un attimo immobile, fissando la stanza. Era arredata con gusto: tende di seta, mobili di legno massiccio e un profumo leggero di fiori che rendeva l’ambiente accogliente. Mi avvicinai all’armadio, trovando un abito lungo e morbido che mi sembrava abbastanza comodo. Quando mi guardai nello specchio, con i capelli ancora umidi e i piedi scalzi sul tappeto, mi sembrava di essere una sconosciuta.
Un bussare leggero alla porta mi distrasse dai miei pensieri. “Va tutto bene?” era ancora la voce di Antonio, gentile e preoccupata.
“Sì, arrivo tra un attimo,” risposi, sistemandomi l’abito e cercando di apparire più sicura.
Ma quando aprii la porta, non c’era solo lui. Accanto a lui c’era Alice, la mia amica d’infanzia, quella che riusciva sempre a leggere dentro di me anche quando cercavo di nascondere tutto. Dietro di lei, una ragazza che non avevo mai visto prima: minuta, con occhi verdi brillanti e capelli di un rosso intenso che sembravano danzare sotto le luci.
“Stai bene?” Alice mi guardava con un misto di apprensione e affetto. “Che figuraccia, quei cretini sono insopportabili.”
“Non ci pensare,” aggiunse la ragazza dai capelli rossi con un sorriso gentile. “Mi chiamo Tania. Se ti consola, a queste feste succedono sempre cose ridicole. Dai, scendi con noi, voglio presentarti ai miei amici. Vedrai, ti divertirai.”
Non ero convinta, ma la gentilezza di Tania e lo sguardo incoraggiante di Alice mi spinsero a seguirle. Antonio ci accompagnò fino al soggiorno, poi si defilò con discrezione, lasciandoci tra la folla.
La sala era affollata e rumorosa, con la musica che rimbombava nelle pareti decorate con quadri costosi e mobili moderni. Tania ci guidò verso un gruppo di ragazzi che ridevano accanto al divano. Tra loro c’era lui.
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