«Cos’è?» Massimo alzò il foglietto con due dita. Lo girò per vedere se sul retro ci fosse scritto altro.
«Roba mia» rispose Paolo cercando di arraffare il pezzo di carta. La mano di Massimo si spostò in modo fulmineo. Paolo abbassò lo sguardo in direzione delle braccia unite e ferme davanti alle gambe.
«Ancora questa frase.» Paolo alzò le spalle. «L’hai scritta tu?»
«Me la diceva sempre il babbo.»
Massimo appallottolò il foglietto e se lo ficcò in tasca. Guardò Paolo con gli occhi piatti e arrossati.
«Lascia stare queste scemenze.»
«Non sono scemenze» rispose Paolo a denti stretti.
«Finché starai qua dentro farai quello che ti dico io e ora ti sto dicendo che se ti trovo a scrivere queste frasi del cazzo ti prendo a ceffoni per una settimana. Sono stato chiaro?»
L’indice appuntito dello zio arrivò a pochi centimetri dal naso di Paolo.
Massimo si spostò in salotto.
«Quel ragazzetto ha la testa piena di stronzate» mormorò con un sospiro.
«Ti ho già detto di non trattarlo così» ribatté sua moglie. Era più alta di lui di dieci centimetri e quando gli si parava davanti in quel modo voleva mettergli soggezione. Massimo la scansò senza curarsene.
«Dio solo sa il dolore che sta provando. E tu lo tratti come un ragazzino da raddrizzare!»
Massimo aprì lo sportello della credenza e tirò fuori una bottiglia di cognac. Letizia gli stava attaccata ai talloni. Sentiva il suo respiro nervoso che gli soffiava sulla nuca.
Massimo riempì un bicchiere e chiuse lo sportello.
«Hai la faccia tosta di dire a lui di piantarla quando non hai il coraggio di smetterla con questa robaccia!» La voce si alzò in un mezzo grido. Letizia schiaffeggiò la mano di Massimo e il bicchiere si rovesciò a terra.
Lo sguardo di Massimo s’infiammò e le abbrancò il polso: «Questa robaccia non fa male come quelle frasi che il ragazzino non fa altro che scrivere dappertutto».
«Sono un ricordo di suo padre.»
«Dovrebbe dirti molto di tuo fratello.»
Letizia si gonfiò di rabbia. «Non permetterti di dire una cosa del genere» sibilò, e spruzzi di saliva raggiunsero le labbra di Massimo.
«Non mi interessa che sia morto. Non cambio idea su di lui.» Massimo distolse lo sguardo.
Il braccio di Letizia prese a tremare.
«Voglio che i tuoi sporchi piedi di ubriacone se ne vadano da questa casa. Immediatamente!» Letizia staccò la mano di Massimo dal suo polso e la respinse lontano. «Vattene!» gridò.
***
Zio Massimo se ne andò quella sera stessa. Erano passati venti giorni dall’incidente.
Paolo scrisse la frase in un altro foglietto, lo ripiegò dieci volte fino a farlo diventare una minuscola mattonella di carta. Lo infilò a forza dentro una piccola sfera cava che portava al collo, attaccata a un filo di caucciù. Zia Letizia si sbagliava, quella frase non era l’unico ricordo che aveva di suo padre. C’era una foto che aveva sempre tenuto nascosta nel suo comodino. Lui, in mezzo a suo padre e a sua madre, col cielo violaceo di un tramonto estivo a fare da sfondo. I piedi nudi, lambiti dalla risacca pigra, sorrisi felici sulle loro bocche e un riflesso dorato sul mare alle loro spalle. Come se il flash della macchina fotografica ci avesse sbattuto contro.
Dietro al riflesso, sulla linea quasi invisibile dell’orizzonte, s’intravedeva la sagoma di una nave. Paolo se ne era accorto dopo un po’.
Nel momento in cui la foto era stata scattata, la nave era ancora lontana. Poi si era avvicinata senza che nessuno di loro se ne accorgesse e aveva scaricato a terra il suo equipaggio. Tristezza, silenzi, rabbia, litigi. Probabilmente era sceso da quella nave anche Roberto, l’amico di mamma che un paio di volte aveva visto mettersi la giacca in gran fretta nell’ingresso di casa e poi svanire come un ladro.
Un pomeriggio di qualche settimana dopo, zia Letizia lo portò con sé alla sua vecchia casa, quella nella quale aveva abitato con suo padre e sua madre.
«La affittiamo e ci tiriamo su qualcosa» gli disse quando parcheggiarono davanti alla facciata color cremisi.
Paolo odiava quella casa. L’avrebbe abbattuta volentieri con una di quelle palle gigantesche che aveva visto in TV.
Ad aspettarli c’era un signore vestito di tutto punto. Paolo fu colpito dalle sue scarpe. Brillanti come il riflesso sul mare della foto che teneva nel comodino.
L’uomo salutò zia Letizia e poi si chinò su di lui, con la mano rattrappita che spuntava dalle maniche grigie della giacca pronta ad accarezzarlo sulla testa.
«Mi dispiace molto per quello che è successo. La vita gira storta a volte» disse l’uomo.
Suo padre avrebbe detto che era una battuta che poteva uscire dalla bocca dello Straniero nel film Il grande Lebowski.
A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te. Paolo chiese a zia Letizia di non portarlo più alla sua vecchia casa.
Il desiderio fu esaudito. Zia Letizia dovette venderla tre mesi più tardi. Tutta colpa di alcune lettere arrivate per posta.
Zia Letizia s’infuriò, imprecò, pianse e a nulla servì nemmeno la telefonata nella quale accusò zio Massimo di essere un verme schifoso, meschino approfittatore della sua buona fede.
Il ricavato della vendita fu utilizzato in buona parte a ripagare i debiti contratti da zio Massimo.
***
Zia Letizia morì quando Paolo compì ventidue anni.
«Puoi rimanere a vivere qui dentro. Non mi chiedere altro perché non ti darò niente di più di questo» gli disse zio Massimo la sera del funerale.
In piedi sulla soglia di casa, con una giacca più grande di due taglie, zio Massimo aveva l’aria di un barbone che ha chiesto due spiccioli per mangiare ma che li spenderà per bere.
A Paolo parve invecchiato di cent’anni. Le rughe erano triplicate e pesavano sulle palpebre rendendo gli occhi di zio Massimo poco più spessi di una fessura.
Zia Letizia aveva lasciato a Paolo una piccola somma di denaro. Il ricavato di una polizza vita per la quale lo aveva nominato beneficiario.
Anche l’auto di zia Letizia rimase a Paolo. Solo perché era vecchia e dalla vendita zio Massimo non avrebbe potuto ricavarci che poche centinaia di euro.
Paolo gestì quei soldi con grande oculatezza, come aveva fatto suo padre con i pochi risparmi che avevano. S’impegnò a non toccarli mai, per nessun motivo, nemmeno quando Laura divenne la sua ragazza e il suo cuore innamorato lo tentava di riempirla di regali.
Dovette fare un’eccezione un paio di anni più tardi.
«Quando uscirai da qua, ti consiglio di entrare nella prima chiesa che trovi e di accendere qualche decina di candele.» L’infermiere dell’ospedale era un tipo allegro, incline alla battuta e a trattenersi a parlare anche oltre il tempo che i ritmi del suo lavoro gli avrebbero consentito. Si chiamava Gianni.
Fu lui a raccontargli cosa era successo perché Paolo non si ricordava quasi niente. Sapeva solo che riusciva a vedersi la spalla destra quasi senza voltare la testa e che quando girava il collo, centinaia di martelli gli battevano nel cranio fino a farlo impazzire dal dolore.
«Laura dovrebbe accenderne un centinaio. Se l’è cavata solo con qualche graffio. Lo sapevi, no?» Gianni glielo aveva già detto almeno un paio di volte ma aprire la bocca per rispondere gli costava troppo dolore.
Paolo rimase in ospedale dieci giorni. Laura non andò mai a trovarlo. I soldi che Paolo aveva da parte servirono per pagare le sedute di fisioterapia.
Gli sarebbero bastati anche per ricomprarsi un’auto, poiché quella di zia Letizia era semidistrutta dopo l’incidente, ma decise che per un po’ ne avrebbe fatto a meno.
Passarono quasi dieci anni prima che ne comprasse un’altra. A rate, nonostante Sara si fosse opposta fino all’ultimo.
Avevano già una piccola utilitaria e, benché con la nascita di Ester la loro famiglia avesse raggiunto il numero di quattro membri, ce l’avrebbero fatta.
Paolo ne aveva bisogno. Era un modo di emanciparsi dalla munifica generosità dei suoceri, che spendevano i soldi come se giocassero a Monopoli. L’ultimo investimento era stato l’acquisto di una vecchia villa di campagna, nei pressi di Setriano, un borgo distante quaranta chilometri dalla città. Era stata disabitata per molti anni e il progetto di Luciano, il padre di Sara, era quello di ristrutturarla e ricavarci tre appartamenti. Non era difficile capire che nelle intenzioni del suocero uno di quelli sarebbe stato lasciato a loro.
Luciano ne parlò apertamente a Paolo il giorno in cui li invitò a salire a Setriano per ammirare i lavori conclusi. Paolo non ci andò.
«Sara è rimasta entusiasta. È un vero capolavoro. Può diventare casa vostra in qualsiasi momento vogliate» gli disse.
A decidere il momento in cui trasferirsi a Setriano non fu Paolo e nemmeno Sara.
«L’appartamento in cui vivete è stato pignorato al signor Massimo Lavini. Mi dispiace ma dovrete lasciare la casa entro trenta giorni.»
L’avvocato aveva una voce gentile al telefono. Doveva essere uno di quei giovani tirocinanti cui lasciano sbrigare gli incarichi più scomodi e umilianti.
Il trasloco fu pianificato per la metà di agosto. All’inizio del mese Paolo aveva compiuto quarantuno anni.
Capitolo due
It takes me wonder why I’m still here, for some strange reason it’s still now feeling like my home. I never gonna go.
Welcome to Paradise, Green Day
«Adesso dovete solo fare le valigie e venire via da quella vasca di smog che è la città» gli disse Luciano consegnandogli le chiavi di Setriano.
La prima volta che era salito alla villa, Paolo era rimasto impressionato. Luciano aveva fatto un lavoro eccezionale. La casa era bella, accogliente, semplice e molto comoda. Gli aveva fatto visitare tutti e tre gli appartamenti. C’era così tanto orgoglio nella sua voce e nel suo sguardo, che Paolo si era sentito in colpa. Trasferirsi a Setriano era l’ultima cosa che avrebbe fatto se non gli avessero pignorato la casa.
Tuttavia aveva finto di essere entusiasta della sua nuova abitazione.
Uno affianco all’altro in terrazza, Luciano gli aveva messo una mano sulla spalla e sorridendo gli aveva confidato: «Sono contento che questo posto ti piaccia».
Paolo aveva allontanato lo sguardo verso la vallata.
«È un posto bellissimo dove crescere Ester e Niccolò» si sforzò di dire.
«Ho fatto del mio meglio per rendervi felici. Mi dispiace solo non avere avuto il tempo di liberare a dovere la rimessa» aggiunse Luciano.
«È tutto perfetto. Non devi preoccuparti.»
«Spero che tu non pensi che abbia voluto decidere tutto io al posto vostro. È la cosa che rinfaccio a Rita più spesso, ma alle volte mi comporto come lei.»
«Sistemerò io la rimessa» disse Paolo d’istinto.
Luciano sorrise compiaciuto: «Sappi che ho evitato accuratamente di fartela vedere. È un caos totale».
***
Alle nove di mattina del 18 agosto, Paolo terminò di caricare la Ford stipandola a tal punto che non ci sarebbe stato posto nemmeno per un acaro. Sara e i bambini erano già a bordo, elettrizzati come per un fine settimana a Gardaland. Prima di partire avevano scattato una foto.
Paolo aveva insistito perché fosse lui a scattarla, nonostante Ester volesse che comparissero tutti e quattro.
«Non mi piacciono gli addii lacrimosi» aveva risposto Paolo.
Alle nove e mezzo partirono.
Percorsero poco più di venticinque chilometri, fino al punto in cui avrebbero abbandonato la statale per cominciare a inerpicarsi lungo la stretta strada provinciale circondata da pendii coltivati a vigna, seguiti da prati, platani e tigli piantati come birilli sul ciglio della strada. Cinque minuti prima di arrivare a Setriano la strada penetrò dentro una foresta di abeti.
Sara e i bambini cantavano a squarciagola. Le casse della Ford sparavano nell’abitacolo la musica del loro CD preferito, un mix di musiche pop e cartoni animati. Era il loro turno come suggeriva la regola che avevano stabilito. Una volta sceglievano Sara e i bambini, una volta era il turno di Paolo. E se fosse toccato a lui, in quel momento, le casse avrebbero rimbombato come il petto di un vecchio catarroso diffondendo il ritmo travolgente dei Green Day. Erano qualcosa di più del suo gruppo musicale preferito. Li considerava amici fidati.
«Babu, quando arriviamo possiamo andare a giocare nel prato?» gridò Ester per sovrastare la musica.
Paolo abbassò il volume.
«Potete ma senza fare giochi pericolosi perché io e la mamma avremo da fare per un po’.» Paolo la guardò dallo specchietto retrovisore e vide i suoi occhietti furbi stringersi in un sorriso da piccola peste.
Niccolò sembrava assente. Guardava fuori dal finestrino con un’espressione malinconica.
«Non voglio lasciare i miei amici e tutto il resto» aveva confidato a Paolo pochi giorni prima.
«Non andiamo ad abitare dall’altra parte del mondo. Potrai invitarli su alla casa nuova o scendere a trovarli.»
«Ma non è la stessa cosa» aveva ribattuto Niccolò.
Paolo non aveva risposto niente. Niccolò gli assomigliava più di quanto avrebbe desiderato. Si portò una mano alla bocca e, come se stesse parlando attraverso il microfono di una radiotrasmittente, disse: «Terra chiama Nicco, terra chiama Nicco. Stazione Nicco, rispondete».
Niccolò voltò la testa di scatto. Paolo lo stava osservando dallo specchietto retrovisore.
«Qui stazione Nicco, vi riceviamo forte e chiaro» rispose, con tutte e due le mani intorno alla bocca.
Sorrise in modo svogliato mentre Paolo gli faceva l’occhiolino dallo specchietto.
Paolo adorava la sintonia che riusciva a stabilire con Niccolò, era un’intesa speciale. E soprattutto quella scenetta era un’esclusiva tutta loro. Il suo amico Andrea gli rinfacciava da sempre che fosse il suo modo semplicistico per giustificare una predilezione per Niccolò.
«Da che mondo è mondo esiste il figlio prediletto» gli ripeteva. Paolo negava, perché era convinto che fosse qualcosa di genetico, un piccolo brandello di DNA esattamente duplicato.
«Come quello che avviene tra fratelli gemelli. Sono in grado di sentire se l’altro sta bene o no, anche se sono distanti chilometri. È un’intesa speciale, come quella tra me e Nicco» sosteneva.
«Chiamala pure come ti pare. Io la chiamo predilezione» chiosava Andrea.
Paolo tornò a concentrarsi sulla strada, scalò la marcia e lasciò la mano sul pomolo del cambio. Un attimo dopo la mano di Sara si appoggiò sulla sua. La accarezzò come se volesse rassicurarlo.
La strada curvò sulla destra e cominciò a punteggiarsi di tigli. Tagliavano la luce del sole in fette regolari. Ester si divertiva a chiudere e a riaprire gli occhi ogni volta che usciva e poi rientrava dalla copertura degli alberi.
Poi il filare terminò.
«Sono riuscita a non farmi mai colpire dal sole» esultò Ester.
«Brava, tesoro!» esclamò Sara.
«Manca ancora molto?» chiese Niccolò che pareva intristirsi un po’ di più ogni metro che facevano verso la meta.
«Siamo quasi arrivati» rispose Paolo.
La vegetazione s’infittì. Le ombre lunghe degli abeti erano delle enormi macchie nere sull’asfalto.
Paolo spense l’aria condizionata e aprì il finestrino. L’odore resinoso degli alberi penetrò nell’abitacolo. Era pungente e inebriante. E con esso si diffuse un’inaspettata frescura.
Raggiunsero il piccolo borgo di Setriano. La strada lo tagliava in due. Non c’erano più di quaranta case, qualche negozietto e una trattoria dall’insegna vecchia di decenni. Si lasciarono alle spalle il cartello barrato di rosso che indicava la fine del paese e dopo poco, arrivarono alla casa. Ci sbatterono quasi contro. Uno dei muri perimetrali sporgeva subito dopo la curva. Correva parallelo alla strada, prima di lasciare che si aprisse un ampio spiazzo sul quale si affacciava il cancello di accesso. Sulla sinistra un vialetto sterrato scendeva verso la proprietà che fronteggiava la villa.
Paolo aprì il cancello e parcheggiò nel rettangolo di ghiaia. Sulla destra c’era un altro piccolo cancelletto che conduceva alla terrazza.
Ester saltò fuori dall’auto come se il sedile fosse diventato improvvisamente arroventato. Corse sulla terrazza e si mise a saltare sulle larghe piastrelle in cotto.
Niccolò invece filò dentro casa. La prima cosa da fare era appendere il mega poster de Il Signore degli Anelli alla parete accanto al suo letto. Era ciò cui teneva di più. Voltarsi e vedere Frodo, Sam e gli altri protagonisti snocciolati sullo sfondo del monte Fato, lo faceva sentire a casa. Poi raggiunse sua sorella e scesero in giardino.
Paolo e Sara si fermarono all’ingresso della terrazza e osservarono la casa. Sotto quel cielo azzurro era splendente.
«Allora è proprio vero. Siamo quassù» disse lei con un po’ di trepidazione nella voce.
«Già» rispose Paolo.
Sara gli si avvicinò e gli circondò la vita con le braccia.
«Sono molto orgogliosa di te, lo sai?» disse.
«Davvero?»
«Sì.»
Paolo dondolò la testa dall’alto in basso.
«Pensavi che non avrei mai accettato di venire a stare quassù?»
«In un certo senso… sì.»
«Ma?»
«Ma sapevo anche che non ci avresti fatto vivere sotto un ponte solo per dare retta al tuo orgoglio.»
Si baciarono e si tennero abbracciati finendo di ammirare il capolavoro che aveva portato a termine Luciano.
«Adesso diamoci da fare» suggerì Paolo.
«Hai ragione. Ne avremo per tutto il giorno, lo sai, vero?»
Paolo lasciò cadere le spalle e fece un’espressione disfatta.
«Mi hai già fatto perdere quel po’ di sprone che avevo.»
«So anche come fartelo tornare, però.» Sara gli strizzò l’occhio e cominciò a scaricare il bagagliaio della macchina.
Paolo attraversò la terrazza per andare ad aprire la porta di casa. L’entrata era direttamente nel salotto. Di fronte salivano le scale che conducevano al piano superiore. Sulla sinistra c’era la cucina. Un lungo divano era piazzato in mezzo alla stanza. Sullo stesso lato della porta d’ingresso c’era un mobile basso. Sotto le scale, accostato al muro, c’era un tavolo stretto sul quale risaltava un vecchio telefono nero a cornetta. Poco distante, sulla destra, c’era una poltrona verde rivolta verso il camino. La cappa era enorme ed era la prima cosa che saltava all’occhio entrando in casa. Paolo immaginò quanto conforto potesse dare stare lì, davanti al fuoco acceso.
«Nella casa là sulla montagna, un camino grande grande sta, nel camino grande grande grande un gran fuoco, fuoco, fuoco va…» cominciò a canticchiare. Era una vecchia filastrocca che sua madre gli aveva insegnato quand’era bambino.
Era saltata fuori da qualche piccolo cassetto dimenticato della mente. Non ricordava di averla mai cantata a Ester o a Niccolò. Le parole erano riemerse tutte in fila come se l’avesse riletta pochi minuti prima.
«Perciò pim pam, le scarpe pim pam, di notte fan sul sentiero di pietre grosse, pim pam le scarpe pim pam, di notte fan sul sentiero così…» Ridacchiò. Non aveva mai capito cosa c’entrassero le scarpe con la casa e il camino, ma alla fine importava poco.
Lasciò la porta di casa spalancata e tornò verso l’auto fischiettando.
Massimo Francioni (proprietario verificato)
Romanzo giallo avvincente e ricco di colpi di scena, personaggi e intreccio perfetti. Da leggere assolutamente.
Caterina Gabbiai
Cattura fin dalla prima pagina e si legge tutto d’un fiato. Imperdibile, assolutamente geniale
vilianipaolo66 (proprietario verificato)
Scorrevole e avvincente, ti tiene incollato alle pagine.