Scrutai il
cielo e non riuscii a non cogliere con ironia la sottile linea di confine che univa quell’atmosfera tenebrosa all’instabilità della mia mente. Come se tutto in quel momento volesse ricordarmi che ero ancora schiavo delle mie fragilità. L’ansia che mi pervase quel pomeriggio riportava alla luce l’impazienza della mia gioventù e di quando ero solamente un bambino alle prese con un padre dispotico e sanguinario. L’attesa era la tortura che mi veniva inflitta per far sì che mi trasformassi nel degno erede della dinastia:
«Ti comporterai da adulto figlio mio, un giorno capirai», mi diceva, e poi chiudeva la porta dello scantinato lasciandomi lì, in quel tugurio putrido e
fatiscente in cui giorno e notte si intervallavano così lentamente che perdevo il senso del tempo e l’unica cosa che mi consentiva di lottare era chiudere gli occhi e concentrarmi sul ticchettio dell’orologio. Solo per un’istante le lancette avevano smesso di girare: quando mi ero liberato del potente Bart trafiggendolo con la sua stessa spada. Sorrisi tenendo ancora il suo corpo caldo tra le braccia e lasciai che quella sensazione di vittoria mi avvolgesse come il caldo di una piacevole sera d’estate. Era stato così gratificante e dolce il brio della vendetta che, da allora, non avevo più smesso di uccidere. Eppure, c’erano voluti anni per raggiungere il coraggio necessario e la sensazione di essere schiavo del tempo non mi aveva ancora abbandonato: le cose non erano affatto cambiate. Mi trovavo in balia dell’attesa mentre attimi vividi del passato scorrevano incessanti nei miei pensieri, così reali che era difficile non cedervi e tornare a concentrarsi sulla realtà. Ma, il presente tornò a scorrere quando udii quei passi lontani e concitati correre verso di me. Mi girai di scatto, così velocemente che un lembo del mantello formò una piccola piega verso l’alto come se fosse rimasta ancora all’istante precedente. Un uomo grassoccio e ansimante percorreva il patio, madido di sudore e con le gote rosse come il fuoco. Quando lo vidi riuscii a stento a trattenere l’irritazione per via del suo grottesco tentativo di correre. Osservando quell’essere tanto malconcio mi chiesi perché avevo deciso di salvare proprio lui durante quell’attacco al suo villaggio, quando mi trovai di fronte quel febbricitante omuncolo che aveva mostrato un timido coraggio, o forse astuta codardia, e si era inchinato sussurrando. «Sono al tuo servizio». Così era diventato l’ombra fedele che portava avanti i miei affari.
«Ebbene». Domandai, sperando di ricevere le risposte che avrebbero cambiato il mio destino. «Quali notizie porti al mio cospetto con così tanto ardore?».
«Mio Signore». Si avvicinò con reverenza e ancora ansimante, ricomponendo la sua squallida tunica sgualcita come se da essa dipendessero
le sorti della sua piccola vita insignificante. «Kardin Bassa è in fermento, aleggia un sentimento comune di festa. Sole e Luna hanno aperto gli occhi nel nostro mondo e così anche le Stelle».
«Dunque, è successo». Finalmente. La conferma di tutti i miei sospetti era arrivata. L’inizio della mia ascesa e della distruzione dei miei nemici. «Che magnifica piega possono prendere gli eventi, non è forse vero, Alasi?». Da quel momento la profezia avrebbe potuto avverarsi, o forse no. Le cose potevano cambiare con un piccolo aiuto e quelle cinque stupide righe scritte su un vecchio libro sarebbero rimaste incompiute e prive di significato.
«È il Fato». Quando Alasi si rivolse a me lo fece tremando per la paura, ma riuscii a capire le sue intenzioni. Voleva dissuadermi dal percorrere la via stabilita, ma non poteva. «N-n-non può essere modificato, mio si-signore».
«Questo lo vedremo». Non avrei mai permesso a una profezia di rovinarmi i piani, le leggi dell’universo si sarebbero piegate al mio volere. «Passami il medaglione». Ordinai e, il mio stupido ma fedele servitore tirò fuori il medaglione dorato sul quale era incisa la rosa; sembrava un insignificante gingillo, ma era tutto ciò che mi restava di lei e, nascosto al suo interno, vi era un potere superiore che aveva arginato e piegato il confine tra vita e morte: la più grande strega di tutti i tempi. Lo afferrai con disprezzo lanciandolo in aria. Girò tre volte prima di toccare terra e, quando si aprì, una patina bianca si librò nel cielo espandendosi sempre più in quel manto grigio e tumultuoso. Rapito e spaventato da ciò che emerse dalla nube Alasi indietreggiò, lasciando che fossi solamente io a guardare negli occhi l’essenza di quella magia tanto oscura. Lei, un corpo esile dai lunghi capelli bianchi, occhi scuri e spenti come se tutta la luce fosse stata risucchiata dal male e appena un velo trasparente di pelle attaccato alle ossa scheletriche, si materializzò al mio cospetto con uno sguardo carico di dolore e disapprovazione e poi si inchinò. «Dovresti lasciarmi andare». Disse piangendo lacrime rosso sangue che evidenziarono ancor di più il viso
scarno e segnato dalla sofferenza. «Non appartengo più a questo mondo e tu lo sai, figliolo». Ebbi un brivido nel sentire quell’ultima parola con la tenerezza che solo una madre è in grado di conoscere. Eppure, nonostante quella debole sottomissione riuscivo a vedere la rabbia che la divorava dall’interno. Era convinta che avrebbe assistito impotente alla distruzione del suo bambino senza poterlo salvare. E, così, mia madre mi stava guardando con rimpianto e dolore. O, per meglio dire, lo stava facendo ciò che restava della donna che era stata prima che Bart le togliesse la vita. Era accaduto proprio davanti ai nostri occhi, miei e di mio fratello, in una tiepida giornata d’autunno in cui il manto degli alberi aveva da poco cambiato i suoi colori e, da allora, nulla era più stato come prima. Avvenne tutto in un istante: Bart ci stava punendo e impugnava la spada per combatterci, ma lei corse verso di noi per convincerlo a lasciarci ancora la magia dell’infanzia. Lo implorò con tutte le sue forze, ma il vecchio e temibile sovrano impugnò la spada e la diresse verso di me. «Se non può essere degno del suo nome allora non merita di vivere», urlò scagliando la sua lama che affondò fiero dinnanzi a sé. Ero convinto che sarei morto, ma la mamma mi spinse via e restò lì, in ginocchio, con lo sguardo perso nel vuoto mentre la spada ne trapassava il corpo. Un tragico incidente l’aveva portata via e il padre sadico e crudele era diventato il tiranno che tutti avevano imparato a temere e che, schiavo delle sue velleità, aveva intrappolato l’anima di sua moglie nel medaglione poiché non sopportava l’idea che lo avesse abbandonato per sempre: così, quando lo apriva, alla sera, lei tornava a vivere per un po', ma non appartenendo a questo mondo si era consumata poco a poco e mio padre aveva deciso di non aprirlo più poiché stentava a riconoscere il fiore che un tempo aveva amato. Ricordavo ancora le carezze fredde di mia madre che si sedeva sul ciglio del letto e mi accarezzava lentamente i capelli, attraversandoli con le sue dita spettrali e senza materia. Un gesto che suscitava in me soltanto rabbia poiché, alla fine, anche lei mi aveva
abbandonato. Una furia che continuava incessante ad alimentarsi ogni volta che si appellava al vincolo di sangue che ci legava. «Smettila con le solite storie e mostrami Kardin Bassa». Le ordinai. Agitò svogliatamente il medaglione davanti a sé e pochi istanti dopo comparve un portale da cui riuscivo a intravedere la città; il villaggio sembrava un dipinto incorniciato da quell’apertura. Senza alcuna esitazione vi passai attraverso lasciando mia madre in compagnia di Alasi. L’aria salmastra che penetrò nelle mie narici mi diede il voltastomaco. Gli anni passati senza mettere piede in quel posto mi avevano fatto dimenticare, fortunatamente, la sensazione di umido che compariva sulla pelle toccata dal sole e dalla brezza marina. Un odore così forte che persino le mura delle case ne erano intrise. Avrei voluto attraversare le strade della città in pompa magna e mostrare agli abitanti chi meritava di comandare su di essa, ma l’esigenza di non essere visto era più forte del desiderio di collezionare un solo piccolo istante di gloria. Così, mentre le campane della città suonavano a festa e la gente si affrettava animosamente a raggiungere il castello che si ergeva sulla ripida scogliera, mi nascosi in un vicolo e incrociai le mani al petto sussurrando le parole dell’incantesimo che mi avrebbe reso invisibile. Un velo trasparente, appena accennato, mi circondò all’istante permettendomi di confondermi tra la folla adorante e raggiungere le celebrazioni. Fu più difficile del previsto porsi in condizione di vedere qualcosa, ma quando riuscii a farmi largo tra quella marmaglia riunita di gente sudata ma felice, finalmente potei osservarli da vicino: Sole e Luna erano al centro della piazza, si libravano in cielo adagiati su delle piccole foglie di color vermiglio; erano circondati dai regnanti, genitori di uno, e da una coppia di nobili stregoni, genitori dell’altro; vi erano poi le Stelle adagiate su delle modeste culle tutte intorno ai prediletti e, infine, una schiera di guardie intente a ereggere una barriera impenetrabile che li avrebbe separati da coloro che erano arrivati a festeggiare la venuta al mondo dei prescelti. A un occhio esterno tutta quella protezione per dei
neonati poteva apparire come uno spreco inutile di risorse, un bieco momento in cui i regnanti mostravano tutto il loro sfarzo. Eppure, quei bambini innocenti erano il futuro. I marchiati, secondo la profezia, coloro che se uniti da un legame magico indissolubile avrebbero potuto creare una nuova stirpe di stregoni persino più forte dei regnanti, toccando una sola Stella con il palmo della mano, poiché possedevano la forza del Sole e delle Tenebre. Non solo quella profezia avrebbe garantito la sopravvivenza di Kardin Bassa, ma anche il dominio su tutta la città alta. Inoltre, grazie a quei bambini, i regnanti sarebbero stati in grado di ottenere la mia completa dipartita. Osservai sprezzante i miei nemici acclamati dal popolino e fui sopraffatto dalla rabbia. Avrei voluto ucciderli proprio in quell’istante, ma mi limitai a osservare i loro piccoli attimi di gioia. Se le cose fossero andate in modo diverso, se solo quei due non mi avessero tradito forse non sarei stato costretto ad agire nell’ombra. Non c’è mai stato posto per uno come te. Pensai, guardando un’ultima volta quel magico quadretto familiare. Infine, voltai le spalle alla celebrazione con la consapevolezza che presto la fortuna sarebbe stata dalla mia parte. Non vincerete mai questa guerra. Chiusi gli occhi, lasciandomi trascinare indietro dalla forza del portale magico. Pochi istanti dopo calpestai nuovamente il freddo suolo confortante del mio castello e rivolsi l’attenzione ad Alasi. Era rimasto solo, mentre mia madre era tornata all’interno del medaglione. «Verik». Lasciai che la luce crescesse nei miei occhi e risi di gusto assaporando la vittoria. «Mandalo a chiamare immediatamente».
«Credo che non ce ne sia bisogno, mio signore». Il suono incessante dei
passi scanditi dal rumore di un’armatura pesante si diffuse nell’aria segnando il suo ingresso. Verik, un uomo alto come una montagna dalla folta chioma corvina era proprio davanti a me. Nonostante tutto il suo corpo fosse martoriato dalle cicatrici riportate in anni di battaglia, ad attirare l’attenzione era soltanto una, nera come una bruciatura in cui si era annidata la cenere di
un fuoco ormai spento e frutto della magia, che come tale, era destinata a restare immutata nel tempo: tagliava in due il suo volto attraversando la guancia destra fin sopra le labbra, inflitta quando combatteva per l’intera città di Kardin e per Bart. Quando il suo sguardo si posò su di me, si inchinò con reverenza e la punta della sua spada toccò il pavimento continuando a tintinnare, lentamente, sfiorando l’armatura. «Sono qui per servirvi».
«Bene. Molto bene, Verik». Esclamai compiaciuto dalla sua prontezza. L’assoluta fedeltà che mi rivolgeva era innegabile: aveva abbandonato il prestigio della sua posizione a corte per seguirmi assieme a una piccola schiera di guerrieri. «Sai cosa devi fare». Lui accennò un segnò d’intesa e restò in silenzio in attesa di ulteriori ordini. Non era intimidito dalla mia maestosità, nonostante la conoscenza che avevo delle arti oscure avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque si trovasse al mio cospetto. Lui mi era devoto, al punto di sacrificare sé stesso senza alcuna esitazione.
«Segui i miei ordini e verrai ricompensato». Lo esortai con freddezza. «In caso contrario, le teste dei tuoi uomini penzoleranno sanguinanti dal cancello della mia casa e per tre notti e tre giorni vedrai le conseguenze del tuo fallimento dipinte nei loro occhi senza vita, con la consapevolezza di essere vivo solo per mia volontà».
«Non vi deluderemo». Rispose, senza paura. «Saranno vostri da stanotte e per sempre». Abbandonò la sala e il fastidioso stridio dell’armatura si fece sempre più lontano.
«Padrone». Alasi restò per alcuni istanti, ma infine sulla scia del mio silenzio abbandonò il patio lasciandomi solo, cullato dalla mia euforia.
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