Non fiatai.
Mi presi ancora qualche momento per metabolizzare quel numero, poi dalle mie labbra secche uscì un suono che somigliava molto a uno stanco: «Ok, accetto il voto».
Agli occhi del professor Fassari, la mia faccia doveva sembrare un palloncino sgonfio, in procinto di abbandonare le ultime risorse di elio al suo interno. In realtà non vedevo l’ora di alzarmi da quella sedia di legno, così scomoda da ricordarmi una di quelle su cui ho passato cinque anni al liceo, e abbandonare la desolazione di quell’aula universitaria che stava diventando buia. Dopotutto, a Teramo, era fine gennaio, e stavano per scoccare le diciassette.
Il professore mi passò una penna e firmai in fretta e furia sul foglio contenente la lista degli studenti che si prenotarono al suo esame. La velocità con cui scrissi “Giorgio” fece sembrare la prima G quasi un 6, ma non mi interessò, e nemmeno Fassari sembrò curarsene. Mi alzai dopo aver stretto la mano all’uomo che mi tempestò di domande su Rousseau, Montesquieu e Tocqueville, dopodiché mi incamminai verso l’uscita. Nella mia testa feci una rapida conta degli studenti che si presentarono a quell’appello: una decina prima di me, un paio dopo. Decisamente meno persone rispetto ai nomi scritti sul foglio delle presenze. Il pensiero politico tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo fu pesante per tutti da studiare, senza alcun dubbio.
Solo dopo aver varcato l’uscita del campus avevo realizzato che era davvero finita; quello era stato l’ultimo esame di una carriera universitaria non proprio brillante, ma che ero riuscito comunque a terminare. Il voto non mi aveva preoccupato molto, date quelle che erano le mie aspettative prima di presentarmi in quella fredda aula 8. Uscendo di casa alle 9:30 mi ero detto: «Ok, sono al traguardo, vado lì, faccio il possibile e chi si è visto si è visto, che mi frega del voto.» Missione compiuta, dunque. E dire che, da settembre in poi, dopo il fattaccio, le mie certezze erano crollate.
Mi accesi una sigaretta e guardai l’orologio sul mio polso: le diciassette in punto. Il sole stava per andare a nascondersi dietro le montagne innevate lasciandosi dietro un alone arancione nel cielo, che si stava man mano riempiendo di nuvole. Aspirai due boccate di tabacco bruciato, ritraendomi nel mio cappotto invernale come una tartaruga fa con il suo guscio, e a mano a mano alcuni ricordi mi balzarono in testa: il primo esame superato senza studiare, la delusione amorosa con una ragazza iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, i project work eseguiti con gente noiosa (come tutti gli altri, a dire la verità). Il viaggio mentale finì quando la sigaretta iniziò a bruciarmi le dita, e mi resi conto che era il momento di tornare in macchina e andarsene dall’università: non potevo fare tardi, di nuovo.
Arrivai alla mia Focus e aprii lo sportello, per poi lasciarmi cadere sul sedile. Ero mentalmente esausto dopo aver passato sette ore nell’aula più piccola del campus, mal riscaldata e scarsamente illuminata. Gli unici piccoli istanti di leggera evasione erano dati dalle brevi pause che mi permettevano di sgranchire le gambe e uscire a fumare, per cercare di smaltire la tensione che però mi restava addosso come una stalker invisibile. Pensai: «Per fortuna non dovrò più passare momenti del genere.»
Accesi il quadro e mi saltarono all’occhio due dati: la temperatura esterna, calcolata in gelidi 3 gradi, e l’ora, le 17:11. L’appuntamento era alle diciotto, ma dovevo tornare tassativamente nel mio appartamento in centro, in cui ero in affitto. Il bisogno di una doccia era insistente e non potevo certo presentarmi nello studio della dottoressa Musso nelle condizioni in cui ero in quel momento. Inoltre, non potevo passare per il ponte San Gabriele, chiuso da diversi mesi per lavori di ammodernamento; quindi, ero costretto ad allungare il tragitto di qualche minuto, perdendo tempo prezioso.
Mentre guidavo cominciavano a venirmi alcuni dubbi, dovuti all’incertezza del futuro. A mente fredda, mi ero convinto che la fine del percorso di studi mi avrebbe lasciato un vuoto che avrei fatto fatica a colmare: fino a quel giorno ero concentrato su un obiettivo, laurearmi, ma poi cosa avrebbe occupato il mio tempo e il mio cervello? Non avrei mai voluto che i fatti di settembre riaffiorassero nei miei pensieri, pronti a colpire nei momenti meno opportuni, quando si abbassa la guardia e arriva un minimo di tranquillità.
Certo, avevo pensato di cominciare a cercare un lavoro appena dopo la cerimonia di conferimento delle lauree a metà marzo, ma provando a buttare lo sguardo avanti nel tempo non riuscivo a immaginare qualcuno con un contratto pronto per me nell’ambito della comunicazione o nei media. L’alternativa era quella di tornare a fare il cameriere, possibilmente non stagionale, a Giulianova, in uno squallido ristorante sul lungomare, ma preferivo restare a spasso piuttosto che riprendere quel mestiere. Era un modo per lavorare d’estate e per autofinanziarsi l’università, poi è diventata una sfida perenne con alcuni dei clienti più rompicoglioni d’Italia. L’avevo fatto presente al titolare, che in tutta risposta mi aveva detto: «Finché pagano, possono anche sputarti in faccia.» Non proprio l’ambiente ideale in cui lavorare, o almeno non lo è stato per me.
A poche centinaia di metri dal condominio in cui si trovava il mio appartamento, il giardino della villa dell’avvocato Venturi si stava illuminando artificialmente con dei vecchi lampioni a incandescenza. Gli invidiavo quella casa e glie lo facevo notare in ogni occasione possibile, scherzosamente. Ci aveva presentati mia madre qualche anno fa, come per dire: «Ecco colui che ha contribuito a dividere la nostra famiglia.» I miei genitori avevano divorziato nel 2017, quando ero appena diventato maggiorenne, e per questo erano stati abbastanza schietti con me sulle cause della loro separazione: non si amavano più, punto. Mio padre è tornato nelle Marche, a Offida, mentre mia madre è rimasta nella nostra vecchia casa di famiglia, appena fuori il centro di Teramo, a Villa Mosca. Ero comunque in buoni rapporti con Venturi e suo figlio Saverio e lo sono tuttora, dopotutto faceva il suo lavoro. E avere un avvocato tra le conoscenze, anche se si occupava quasi interamente di divorzi, poteva fare decisamente comodo.
Finalmente parcheggiai nella piazza adiacente il condominio. Non ho mai capito cosa non mi piacesse davvero dell’esterno di quell’edificio, ma forse era più di un aspetto che non mi convinceva: l’anno di costruzione, che doveva essere tra il 1980 e il 1985 o giù di lì; la sua capacità di perdere pezzi di intonaco rosso bordeaux a intervalli di dieci giorni; il fatto che, affacciandosi al balcone della cucina, la sede di una società di costruzioni, la Edil Grocchio, ti ostruisse la vista. Era stato mio fratello, Daniel, a segnalarmi la presenza di questo appartamento in centro: «Non sarà Buckingham Palace, ma per te andrà più che bene.» In effetti era così, Daniel non avrebbe mai potuto darmi un consiglio sbagliato.
Salii le scale affannosamente, forzando le mie gambe ad arrivare il prima possibile al piano del mio appartamento, il secondo. Rientrai a casa alle 17:29 e iniziai subito a farmi dei conti: doccia, dieci minuti; vestirsi, dieci minuti; tragitto a piedi da casa allo studio della dottoressa Musso, dieci minuti.
«Ok, ce la faccio.»
Passati venti minuti, mi trovai in perfetto orario di fronte allo specchio per gli ultimi “ritocchi”, ma per le occhiaie non potei fare nulla. Indossai il giubbotto nero imbottito al posto del cappotto che aveva fallito nel difficile compito di tenermi al caldo in quella mattina ghiacciata in università, e che soprattutto emanava troppa puzza di tabacco. Controllai le tasche un’ultima volta, passandoci sopra le mani compulsivamente. Cellulare, portafogli, chiavi di casa, c’era tutto. Nella tasca interna del giubbotto, un pacchetto di sigarette non ancora aperto e un accendino si tenevano compagnia: avrei fumato solo nel tragitto di ritorno.
Alle 17:51 uscii di casa e mi incamminai verso Via Rozzi, a pochi passi da Piazza Garibaldi (più che una piazza, è una rotonda), dove la dottoressa Musso aveva allestito il suo studio. Il buio aveva ormai preso il sopravvento sul giorno. Lungo Corso San Giorgio fui tentato di fermarmi in un bar per un caffè, ma la tabella di marcia che pianificai prima di uscire non me lo permise. Dovevo arrivare assolutamente per le 18:00 e per farlo avevo allungato il passo.
Il numero della psicoterapeuta me lo aveva dato Daniel l’estate precedente, raccontandomi dei progressi che aveva fatto con lei: si erano visti per una decina di sedute, e la “pesantezza mentale” che aveva mio fratello era scomparsa. Io mi ero incazzato, quasi offeso al pensiero che, per lui, avrei fatto meglio a contattare una di quelle persone che nei film americani chiamano “strizzacervelli”. «Ma no, ti do il numero nel caso ti possa servire in futuro» mi aveva detto cercando di smorzare una mia tipica reazione negativa, che di solito esprimo prima ignorando l’interlocutore, poi rivolgendogli uno sguardo quasi di disprezzo, indipendentemente da chi ho davanti a me.
Arrivai davanti la palazzina che ospitava al primo piano lo studio della “strizzacervelli”. Citofonai a Dr.ssa Cinzia Musso aspettando l’apertura del portone, che arrivò pochi secondi dopo. Buttai un ultimo sguardo sul mio orologio: le diciotto in punto.
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