Ciò che importava di più al signor Breton, prima di chiudere la cassaforte della banca in cui lavorava, era assicurarsi che tutti i lingotti del caveau fossero esattamente al loro posto.
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Non c’era nessun motivo in particolare, voglio dire, nessuna regola interna o tacito accordo con i legittimi proprietari; era più che altro un semplice gesto scaramantico che compiva ogni giorno, e il cui unico significato era che la giornata lavorativa stava per giungere al termine. Anche se, in fondo, fare il contabile nella banca di Buron, un piccolo paese alle porte di Parigi, a lui piaceva molto.
Adorava soprattutto quella sensazione che, durante le ore di ufficio, gli faceva credere di essere l’unico proprietario di tutto il tesoro che la banca ospitava.
Vent’anni di ligio attaccamento al lavoro gli erano valsi tre promozioni e un cospicuo aumento di stipendio che gli avrebbe permesso di vivere agiatamente la pensione ormai prossima.
Migliaia di mazzette di ogni valore, da dieci a cinquecento euro, tutte perfettamente accatastate e divise per taglio: non appena entrava nel caveau, era come se gli sbattessero davanti il più fantastico e prezioso degli arcobaleni, con il luccichio dell’oro proveniente dal basso che nulla aveva da invidiare a quello del sole.
Quando ormai tutto il resto del personale era già andato via, il signor Breton si fermò a contemplare quell’affresco stupendo che neanche il più bravo dei pittori sarebbe mai riuscito a rappresentare su nessuna tela, come soleva sempre pensare.
Era così che passava gli ultimi dieci minuti della sua giornata lavorativa. Ogni tanto prendeva una di quelle mazzette ancora vergini e se le strofinava sul viso. Si lasciava accarezzare il naso da ogni singola banconota che formava il mazzo, muovendolo più volte, a destra e a sinistra, come se fosse un ventaglio. Avrebbe continuato all’infinito a inebriarsi di quell’odore e di quel contatto; era un’emozione inappagabile. In quei momenti si impadroniva di lui un desiderio che scatenava istinti sessuali ma, preso dai sensi di colpa e dalla vergogna di scoprirsi a pensare certe cose con dei soldi in mano, lo reprimeva immediatamente.Ritornò in sé. Ripose il mazzo da cento euro al suo posto, controllò che tutto fosse in ordine e, infine, richiuse la pesante porta della cassaforte, bloccandola con il sistema di sicurezza: una combinazione alfanumerica che cominciava e terminava con le cifre “1-2-4”.
Verificò che tutte le telecamere del sistema di sorveglianza interno fossero azionate e si diresse una rampa di scale più sopra per accertarsi che ogni cosa fosse a posto. Fece un giro di 360 gradi su se stesso e notò che era tutto in ordine, a parte le piante e i fiori che adornavano i locali della banca. Le rose, infatti, erano quasi appassite. Pensò che avrebbero avuto bisogno di un po’ d’acqua e, giurandosi che se ne sarebbe occupato il giorno dopo, guadagnò l’uscita.
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