Capitolo uno
Mi chiamo Viktor Kovacs. Per quanto il mio nome non lo dimostri, sono un cittadino italiano. Italiana mia madre, italiane le mie due sorelle. Non italiano mio padre, invece, e nemmeno mio nonno, bensì ungheresi. E infatti fu il padre di mio padre a decidere, in un travagliato momento della storia dell’Ungheria, di lasciare Budapest, per salvaguardare l’incolumità della propria famiglia. Più precisamente, ciò avvenne sul finire dell’ottobre del 1956, quando il governo ungherese richiese l’intervento di contingenti dell’Armata Rossa a rinforzo dell’AVH, la polizia di sicurezza nazionale. Era la rivolta ungherese, nata da un moto studentesco per, poi, ingrossarsi con l’adesione di cittadini, lavoratori, contadini, soldati, ed estendersi rapidamente al resto del Paese. La dolorosa repressione di quel moto di libertà è nota, così come l’eco che ebbe il dibattito tra i partiti comunisti nei Paesi occidentali e, più in generale, nella coscienza mondiale. Per quel che riguardò la mia famiglia, essa fu tra le migliaia che abbandonarono l’Ungheria per trovare rifugio all’estero. Il ricetto, nel caso di mio nonno, gli fu dato in Italia, da una cittadina costiera della Campania, a nord di Napoli: Pozzuoli. Il buon vecchio, che era stato in patria un falegname, dovette cambiar mestiere e divenire pescatore. A districarsi tra reti, lenze, barche, si rivelò particolarmente bravo visto che, in poco tempo, poté garantire alla sua famiglia più di quanto necessario per vivere. A onor del vero, egli trovò in sua moglie, mia nonna, una compagna straordinaria, grande lavoratrice e amministratrice della casa: grazie alla sua oculata cura dell’economia domestica, fu in grado di permettere a mio padre e a mia zia, poco più che dodicenni all’arrivo in Italia, di diplomarsi e avviarsi entrambi a una carriera dignitosa.
Mio padre, uomo razionale e naturalmente portato per i numeri, divenne esperto contabile nella pubblica amministrazione; per nulla arido di animo, però, covava la dolce passione per l’arte e per l’antichità. Quale migliore condizione per lui, visto il luogo in cui viveva. Pozzuoli, la romana Puteoli nonché, prima ancora, la magnogreca Dicearchia, custodiva e faceva orgoglioso sfoggio di tesori di antica nobiltà. Nei suoi racconti della passata gioventù, mio padre mi narrò più volte del suo abbandono romantico alla magia che circonfondeva quelle archeologiche vetustà: le lunghe passeggiate all’ombra dei mausolei, tombe che, a distanza di secoli, ancora trasmettevano a chi si trovava al loro cospetto la potenza e la ricchezza delle famiglie che le avevano fatte erigere; le meditazioni silenziose nei sotterranei del possente Anfiteatro Flavio, ora percorrendo i vuoti corridoi ora riposando seduto su colonne diroccate, cercando di afferrare a occhi chiusi gli echi di un tempo lontano, fatto di ruggiti di belve rinchiuse, fragore di armi, ansia e impazienza di gladiatori, dramma di condannati a morte e, su tutto, entusiasmo sanguinario di un pubblico mai sazio. La sua fantasia volava indietro nei secoli indugiando sull’arena dello stadio di Antonino Pio, dove una volta correvano atleti, bighe dai focosi cavalli, sotto l’incitamento della folla entusiasta; lui, al tramonto, sedeva sulle gradinate deserte e contemplava, unico spettatore, uno spettacolo immaginario ancora celebrato da invisibili fantasmi del passato. Si commuoveva quando il racconto giungeva al più mirabile, a suo giudizio, dei tesori della città: il Tempio di Serapide; in realtà, il macellum ovvero il mercato cittadino, ma veniva così molto più suggestivamente chiamato per via della statua della divinità egizia lì rinvenuta secoli prima. Il legame di mio padre con quel monumento era dato dalla sua convinzione che esso fornisse la prova inconfutabile dell’energia vitale della città, il solo a testimoniarne il respiro, che i più aridi scienziati si riducevano a definire con la semplice parola di bradisismo. Per lui non era così: impercettibilmente, il petto della città si innalzava e si abbassava per la pressione del vapore che la alimentava. Come un’antica onorata matrona romana, la città si adagiava distesa lungo la costa campana come su un triclinio affacciato sul mare e, imperturbabile allo scorrere del tempo e al mutare di popoli, si beava della sua gloria imperitura e inattaccabile.
Fu proprio in una calda giornata di luglio che, passeggiando presso il Tempio, incontrò la ragazza che sarebbe, di lì a breve, divenuta sua moglie e mia madre. La notò mentre, al riparo di un grazioso cappellino, scrutava un particolare del monumento, fissandone i più minuti dettagli sul proprio taccuino. Incuriosito dalla scena insolita, ma ancor di più attirato dalla femminile bellezza che traspariva dalla figura della fanciulla, mio padre vinse timidezza ed esitazione, avvicinandola e rivolgendole la parola. In breve, scoprì che, nonostante ne avesse l’aria, non era una turista di passaggio, bensì una studentessa della facoltà di Archeologia di Napoli. L’amore per lo studio di cose antiche l’aveva condotta in quella calda giornata nella ridente Pozzuoli; l’amore per l’antichità aveva condotto mio padre, quel giorno, a vincere la calura estiva e a dedicare qualche ora a una suggestiva passeggiata all’ombra delle antiche colonne del Serapeo. Anche se ancora non lo sapevano, l’amore per un mondo scomparso li aveva fatti incontrare per consegnarli a un amore che li avrebbe uniti per l’eternità.
Da quell’incontro i miei futuri genitori presero a frequentarsi, conoscendosi sempre di più, finché l’amore si impose nei loro cuori, definendo quel sentimento iniziale di apparente candida amicizia. Il tempo passò e sia mio padre sia mia madre si affermarono con duro impegno nelle rispettive professioni, cosicché poterono consolidare le premesse economiche preliminari alla loro unione matrimoniale. Una volta sposi, decisero di vivere a Napoli, città in cui nacqui e crebbi, trascorrendo infanzia e adolescenza insieme alle mie due sorelle maggiori. Lì si formò la mia passione per il mondo antico, ispirato dalle figure genitoriali: mia madre mi infondeva il rigore e il metodo per lo studio; mio padre mi insinuava nell’animo il sentimento romantico, che ammantava la serietà di quella nobile e ardua disciplina.
Terminato il liceo classico, divenne per me naturale e quasi necessario proseguire gli studi antichi sotto l’ala protettrice dell’università. La scelta dell’ateneo si posò su quello di Catabra, città interna della Campania; sebbene inaugurato da pochi anni e non vantasse quindi la gloriosa e antica nobiltà dei suoi confratelli sparsi nella felice regione, era ben promettente, dato il livello dei docenti che vi insegnavano e l’approccio più moderno nella ricerca scientifica, che si proiettava verso il futuro. L’idea mi piacque al punto che decisi di trasferirmi in quella città per tutta la durata del ciclo di studio: era certo uno sforzo economico per la mia famiglia, ma che affrontò di buongrado, considerandolo come la prosecuzione, da parte mia, di una vera e propria tradizione.
E così mi sistemai nella graziosa cittadina che mi accolse a braccia aperte. Trovai un piccolo ma accogliente appartamento, a pochi passi dalla facoltà di Lettere antiche. Il palazzo mi colpì subito per la sua aria allegra: ospitava altri studenti, anche di facoltà diverse; questi con brio animavano varie ore del giorno e, talvolta, della notte, con un viavai di amici, vuoi per condividere lo studio vuoi per assecondare le naturali leggi di goliardia. Abitavano lì anche famiglie di lavoratori, con figli di giovane età, che, quando erano lontani da scuola, scorrazzavano per le scale e il cortile, facendo un chiassoso controcanto al non meno invadente clamore degli universitari.
Continua a leggereIo mi calai felice in quell’atmosfera, in cui si alternavano alle lunghe e rigorose ore di studio le spensierate e preziose ore di convivialità studentesca, che in maniera leggera permettevano lo scambio di opinioni, dibattiti, ambizioni culturali su quanto si formava nella personalità di ognuno di noi. Mi appassionai sempre più al mio studio, in quella cornice di antica potenza che la città offriva.
Catabra vantava bellezze artistiche di gran pregio. Era stata un centro di valore fin dall’antichità, rivestendosi di gloria già dai tempi della sua fondazione etrusca, proseguendo poi durante il periodo dell’amministrazione romana, in età imperiale. La sua urbanistica si era arricchita, allora, di un anfiteatro e di un teatro, senza contare il magnifico impianto termale, alimentato da fonti che, all’epoca, erano ben famose per le proprietà terapeutiche. Molti i prodotti di pregio che partivano dai suoi mercati per raggiungere terre lontane, ritornando sotto forma di denaro sonante, pronto ad arricchire le potenti famiglie che, reinvestendo quelle rendite in imprese architettoniche e di munificenza, avevano dato lustro e memoria imperitura alla città, oltre che al proprio casato.
Il Medioevo impose una battuta di arresto allo sfrenato sviluppo e benessere. Catabra subì la sorte di tante altre città un tempo ricche, vedendo seguire al declino romano anche il proprio: invasioni barbariche con conseguenti saccheggi e stragi dei più validi cittadini portarono alla diminuzione sensibile del suo nucleo demografico; la mancanza di cura di monumenti ed edifici, in quei tempi bui, decretarono il lento ma inesorabile diroccamento delle strutture più importanti, le quali, invece di trovare una mano soccorrevole da parte degli abitanti, videro la spoliazione da parte degli stessi, per cavare il materiale edilizio ancora utile alla riparazione delle proprie case. L’impaludamento di buona parte dei quartieri, conseguente all’assenza di un’opera di manutenzione periodica, fece sorgere malattie che desertificarono ancor di più quello che era divenuto ormai un piccolo borgo. Alla fine, gli abitanti rimasti decisero di abbandonare come un luogo maledetto quello squallido pianoro, che via via andava interrandosi e riempiendosi di malarici acquitrini. Si dispersero seguendo il loro destino e lasciando al proprio il luogo natio. L’antica Catabra cadde in un lungo letargo, aspettando che gli uomini tornassero ancora a interessarsi di lei.
Soffermandomi ogni volta su un aspetto diverso, mi ripetevo sempre questa storia quando al termine di una giornata di studio passeggiavo o sedevo sui gradini del teatro, mentre il sole tramontava e la città, da secoli tornata alla luce, si preparava a vivere con allegria riconquistata la vivacità della vita notturna.
Avevo imparato ad amare quel luogo, così carico di storia, al punto da decidere di suggellare questo sentimento con un’opera tangibile, quale la tesi di laurea, che avrebbe chiuso il mio periodo di studi universitari. Tanti eruditi, antiquari, studiosi, prima di me, avevano posto mano alle vestigia rinvenute, restituendo loro la parola attraverso la pia decifrazione di tracce, segni, brandelli di mutili memorie. Da parte mia, avevo in animo di dedicarmi allo studio di un complesso monumentale tornato alla luce in un periodo meno fulgido: come in tanti casi recenti, la necessità di espansione edilizia aveva prodotto lavori di scavo durante i quali erano state scoperte strutture di grande interesse archeologico. Ma ciò non aveva arrestato l’azione costruttrice degli uomini, i quali avevano concesso giusto il tempo per una sommaria e poco esaustiva analisi dei rinvenimenti, prima di poter proseguire con i loro progetti edificatori. Erano passati oramai diversi anni da quella scoperta avvenuta ben prima del mio arrivo a Catabra.
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