Quando decisi di troncare con quella mia abulia, qualcosa attirò la mia attenzione.
Sul muro alla mia sinistra, fra la porta e la libreria, notai come dei graffi. Mi alzai piano dal letto avvicinandomi incuriosita. Quando fui a un palmo dalla parete, vidi due linee rosse in diagonale. Sembravano come delle strisciate. Due segni tracciati rapidamente con una di quelle matite colorate che usano i bambini per disegnare. Ciò che mi stupì fu che non ricordavo di aver fatto quei segni. Né di recente né da piccola. Erano troppo in alto perché una bambina potesse arrivarci. Si trovavano esattamente all’altezza dei miei occhi. Mi avvicinai ancora mettendoli più a fuoco. Forse fu solo una mia impressione – anzi, pensai che fosse sicuramente così – ma dopo averli scoperti, mi sembrò di vederli più nitidi. E mi parve che il rosso fosse diventato più acceso.
Che idiozia.
Sarà stata mia madre.
Doveva essere entrata in camera mia per mettere a posto in un momento d’imprevedibile generosità. O magari per farsi i fatti miei. Doveva aver strusciato il muro con dei pastelli oppure con dei vocabolari che stava riordinando.
A volte gli oggetti lasciano degli strani segni sui muri.
Chiusi i conti con ogni cruccio. Uscii dalla mia stanza e mi diressi verso la cucina per mangiare qualcosa. Lungo la strada trovai un foglio sul tavolo del soggiorno. Accesi la luce e ne lessi il contenuto.
Mi hanno chiamato dalla scuola mentre dormivi. Visto che ti hanno sospeso per quattro giorni, puoi stare a negozio anche di mattina. Non tutti i mali vengono per nuocere, no baby?
Non torno per cena, arrangiati da sola. Baci.
Non tutti i mali vengono per nuocere.
Ecco mia madre.
Non si può dire che non fosse capace di restituirmi il buon umore. Se si fosse sorvolato sul suo cinismo, che sapeva trarre un tornaconto personale dalla situazione più tragica, si sarebbe potuto pensare che c’era da star contenti ad avere una madre come lei. Avevo appena preso a schiaffi la mia migliore amica davanti a tutti, beccandomi una sospensione di quattro giorni dalla Preside in persona e invece di mettermi in punizione o scrivermi che stracazzo combini? se n’era uscita con non tutti i mali vengono per nuocere.
Un genio.
Davvero. Ciò che la salvava nella sua assurdità era questo spirito ottimista nonostante tutto e perennemente combattivo.
In qualche modo, anch’io ero come lei. Fu questo che pensai. E non avrei mai dovuto dimenticarmi di trarre sempre il bene dal male. Come disse Desdemona.
Peccato che poi finì strangolata dal Moro.
[…]
Erano quasi le otto e mi avviai verso casa.
Dopo una breve tregua di mezz’ora la pioggia aveva ripreso a cadere. Corsi a ripararmi sotto la pensilina della fermata. Non dovetti attendere più di cinque minuti per fortuna e saltai sul Ventuno diretta fino a casa. Trovai un posto a sedere accanto al finestrino e mi misi a osservare la città che sotto quel temporale si preparava a indossare i primi addobbi natalizi. Mentre l’autobus percorreva strade semiallagate, uomini e donne si riparavano sotto sciarpe e ombrelli kitschemente firmati. Risi parecchio nel vedere scarpe da centomila lire immergersi nelle pozzanghere come brioches nel cappuccino e pellicce di visone trasformarsi in batuffoli di gatto sotto quell’assillante scarica del cielo.
Proseguendo vidi tre operai che fumavano sotto i portici del Corso e un ragazzo che poteva essere mio cugino correre completamente fradicio fin sotto il tendone del Bar Lorenzi. Riconobbi Rossana che lavorava al panificio di via Mazzini aspettare i clienti appiccicata alla vetrina. Osservai Maurizietto, per tutti lo scemo del villaggio, imprecare in mezzo alla strada contro chiunque si avvicinasse. Senza ombrello e senza giudizio. E vidi rifugiarsi di qua e di là decine di persone di cui non conoscevo il nome, ma che incontravo spesso all’uscita di scuola o durante i pomeriggi in giro con le mie amiche.
Pensai a quanto avrei voluto andarmene via senza sapere cosa cercare. Dove voler andare. E soprattutto a fare che. Finché l’autobus non si fermò al semaforo di via Turrini e, guardando ancora fuori dal finestrino, la mia attenzione fu catturata dal cappotto rosso che in classe pendeva sempre accanto al mio.
Nina aspettava il verde del semaforo pedonale. Sotto la pioggia e senza ombrello. Completamente fradicia dalla testa ai piedi. I capelli neri sempre splendidi e voluminosi ora le si erano appiccicati sulla fronte, sotto il peso prepotente di quelle gocce. Avvicinandomi di più al vetro cercai di spannarlo, poi diedi dei colpi affinché si accorgesse di me. Ma la mia amica era immersa nei suoi pensieri e di nuovo quel velo le offuscava gli occhi. La sua faccia aveva un’espressione carica d’una serietà che non le apparteneva. Una gravità che non credevo potesse rientrare nei pur tanti e sfaccettati aspetti del suo carattere. Un estraneo avrebbe giurato che quella ragazza portasse nel cuore un peso enorme per la sua età e che quel fardello avrebbe potuto schiacciarla da un momento all’altro. Ma Nina non era in grado di portare un carico del genere. Nemmeno per un minuto. Se ne sarebbe liberata al primo campanello d’allarme. Era la mia sorellina, la conoscevo da sempre. Quel volto non era il suo. Quel peso non poteva reggerlo.
Quando scattò il verde pedonale attraversò la strada e oltrepassando il mio autobus scomparve dalla mia visuale. Mi spostai velocemente sui sedili in fondo, facendomi largo fra le persone per capire dove fosse diretta e la vidi imboccare una strada secondaria. Prenotai la fermata. Quando le porte si aprirono corsi più veloce che potei per raggiungerla. La pioggia non accennava a smettere e neanche a dire che avessi l’ombrello. Cercai di coprirmi alla meglio con il cappuccio del cappotto e rischiai di scivolare più d’una volta. Ma dovevo raggiungerla. Ritrovandomi nei pressi della vecchia Piazza Clais mi resi conto d’essere finita nuovamente in centro. Lei era ancora molto distante ma camminando svelta avrei potuto raggiungerla nel giro di pochi minuti. La vidi passare sotto un arco romano che conduceva nel cuore della città vecchia e affrettai il passo per non farmela sfuggire. Le strade erano più deserte che mai a quell’ora in cui tutti sedevano a tavola davanti alle cronache nere della sera. E la buia atmosfera veniva tagliata fittamente da quella miriade di gocce incessanti. Attraversai l’arco e cercai di schivare la pioggia passando rasente i muri. Poi girai un altro angolo tentando di non incappare in qualche pozza piena d’acqua.
Ed ecco che Nina era sparita. Un attimo. L’avevo persa di vista un solo attimo per cercare di ripararmi sotto le strette tettoie di quelle vecchie case dai vicoli allagati e semibui del centro.
Dov’è finita?
Ero certa di averla tenuta sott’occhio fino a due secondi prima. Stavo quasi per dirle di aspettarmi. Tirai fuori il cellulare decisa a chiamarla, ma era già scarico da diverse ore e adesso si era definitivamente spento. Rischiavo di buscarmi una polmonite con quel tempo. E risolsi che era indubbiamente troppo tardi per mettermi a cercarla.
[…]
Rinunciai piuttosto a malincuore.
I sanpietrini di quelle antiche vie erano ricoperti d’acqua e pericolosamente scivolosi. Scoppiai a ridere ripensando alla me stessa di pochi minuti prima seduta nell’autobus e intenta a prendere in giro la gente che fuggiva terrorizzata dal temporale. Adesso ero io che dovevo stare attenta a non storcermi una caviglia o a non finire in un lago d’acqua putrida. Mi misi a guardare in alto verso il cielo scuro, ipnotizzandomi a fissare quelle rapidissime goccioline che mi piombavano sulla fronte, negli occhi, sul naso, dentro la bocca. Il contrasto fra la pioggia e le luci giallognole dei lampioni creava un effetto particolarissimo e affascinante.
Mi offrii alla pioggia. Iniziai a correre con la bocca aperta e la testa piegata all’indietro cercando di ingoiare quante più gocce possibile. Rischiai più volte di finire col sedere per terra, eppure il desiderio di godere delle mie gambe così vivaci e reattive era superiore a tutto il resto. Mi sentivo nuovamente libera infischiandomi del fatto che probabilmente mia madre stesse aspettandomi a casa. Girando un angolo finii con un piede dentro un’enorme pozzanghera che m’infradiciò scarpe e pantaloni. Imprecai e risi come una folle. E nell’osservare l’aria calda che usciva dalla mia bocca penetrata da quelle instancabili gocce, mi riparai sfinita sotto la tettoia sporgente di una palazzina. Pensai a Erika e alle sue preziose Dr Martens. Chissà quali urla disumane avrebbe lanciato se i suoi stivaletti fossero finiti in una pozzanghera. Avrebbe pagato anche seicentomila lire per un paio di décolleté. Poteva permetterselo, ovviamente. Ma dopo una breve riflessione dedussi che a lei non sarebbe mai potuta capitare una cosa simile. Se facevano due gocce non metteva il naso fuori di casa, figuriamoci correre come una pazza sotto un temporale. Mi tolsi la scarpa e la svuotai di tutta l’acqua che s’era bevuta.
Poi due voci confuse, quei sospiri e un fruscìo di vestiti.
Un brivido mi gelò la schiena. Smisi di ridere e nel massimo silenzio mi rimisi la scarpa. Potevo avvertire solo lo scroscio della pioggia e quegli strani suoni che provenivano da un vicolo dieci passi più avanti. In un primo momento ebbi paura ad avvicinarmi, ma la curiosità ebbe la meglio e mi spinse ad avanzare un po’. Poi un altro po’. E ancora un altro po’.
Arrivai all’imbocco del vicolo da cui provenivano quei rumori. Mi fermai. La strada era completamente buia in quel punto e nello sporgere la testa mi sentii abbastanza tranquilla sapendo di non essere colpita dalla luce. Dunque, di non essere vista. E mi riprese un’insolita quanto inspiegabile voglia di ridere.
La figura piuttosto imponente di un uomo era in piedi, oscurando totalmente quella più esile di una donna. Nel vicolo filtrava solo la fioca luce di un lampione. Riuscii a vedere che l’uomo spinse lentamente contro il muro le spalle di lei, che gli sussurrò qualcosa soffocando una risatina. Lui le rispose qualcosa con una specie di suono gutturale, ma entrambi parlavano troppo piano per poter distinguere le loro parole col sottofondo della pioggia.
D’un tratto, accadde qualcosa che mi disturbò molto. L’uomo farfugliò una frase confusa che suonò molto sgradevole alle mie orecchie, poi mise una mano sul viso della donna, premendola con violenza contro la parete di fronte. Quella non diede alcun cenno di protesta ma ruotò su se stessa offrendogli la schiena, dopodiché, così mi parve, morse un dito della grossa mano che la schiacciava. Non lo fece per difendersi ma come in una specie di gioco erotico che non riuscivo a decifrare. Ebbi l’impulso di andarmene via, ma avevo paura di fare rumore e di essere scoperta.
E poi c’era una pulsione indefinita che m’inchiodava a quella scena.
Rimasi a guardare ancora, finché, sporgendosi un po’ in avanti, il volto dell’uomo non fu colpito dalla luce gialla del lampione. Fu allora che lo vidi chiaramente. Era grasso e con la faccia ricoperta di certe rughe che ne rendevano i lineamenti estremamente sgradevoli. Gli occhi erano neri come la pece e molto incavati. Il naso curvo e appuntito. I denti, che scoprì un attimo in una specie di ghigno, piccoli, divaricati e gialli.
Quel volto mi gelò il sangue.
E la scena che fino a quel momento aveva inconsciamente attratto la mia curiosità sessuale divenne insopportabile, disgustosa, se non addirittura mostruosa. Fu una sensazione di orrore quella che provai osservando il volto di quell’individuo. Doveva avere circa trentacinque anni, sebbene il suo aspetto lo rendesse più vecchio di altri dieci. Mentre i loro gemiti crescevano, lei divaricò le gambe e lui sollevò con la mano sinistra il suo cappotto rosso.
Trattenni a stento un grido e balzai all’indietro. La mia scarpa andò a finire in un’altra pozzanghera e le due figure si voltarono verso di me.
– Chi è?
Restai pietrificata sperando con tutta la mia anima che il buio che m’aveva nascosto fino a un attimo prima continuasse ad avvolgermi anche adesso che ero indietreggiata.
Un istante dopo corsi via a tutta velocità, mentre sentivo il cuore saltarmi via dal petto e quella voce rimbombarmi nel cervello durante tutto il tragitto che percorsi a perdifiato fino alla fermata più vicina.
Chi è? Sentivo ripetermi nella testa.
Chi è? Mi urlava quella ragazza spaventata mentre chiudevo gli occhi. E vidi chiaramente la faccia pallida e stravolta di Nina implorare il mio aiuto.
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